Pasquale Vitagliano: Perle ai porci

Perle ai porci

“Chissà mai qual è la verità dei sogni, oltre a quella di renderci ansiosi della verità.”
Pasolini

Sì che sono una chimera,
ma non il sogno infranto,
io sono il mostro genetico
che ti potrebbe anche schifare.

Che dirti di questo disprezzo,
se non che non c’è niente
d’innaturale nel mio canone segreto
se non che è indicibile quanto il tuo.

Ho osservato a lungo
le forme abiette del tuo amore,
come nel mondo cavo di un geode,
nella ametista di carne uguale alla mia,

che dentro la crosta d’angoscia,
si porta appresso la più semplice delle grazie.

Sono fatti di perle i miei incubi,
preziosi più che ai porci.

Pasquale Vitagliano


 

Porcile
1968-69

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Armando Nannuzzi (primo episodio), Tonino Delli Colli, Giuseppe Ruzzolini (secondo episodio); costumi Danilo Donati; musica orginale Benedetto Ghiglia; montaggio Nino Baragli; aiuti alla regia Sergio Citti, Fabio Garriba; assistente alla regia Sergio Elia.Interpreti e personaggi Primo episodio: Pierre Clementi (1° cannibale); Franco Citti (2° cannibale); Luigi Barbini (il soldato); Ninetto Davoli (Maracchione, il testimone); Sergio Elia (un domestico). Secondo episodio: Jean-Pierre Léaud (Julian); Alberto Lionello (Klotz, il padre); Margherita Lozano (Madame Klotz, la madre, doppiata da Laura Betti); Anne Wiazemsky (Ida); Ugo Tognazzi (Herdhitze); Marco Ferreri (Hans Günther, doppiato da Mario Missiroli).

Due lapidi sulla disubbidienza vengono lette prima delle immagini iniziali, sul rumore di un’eruzione lavica. I titoli di testa scorrono su un grande e moderno porcile. Poi, in mezzo ad una landa deserta, un giovane vestito in abiti antichi che si ciba di farfalle e di serpenti è osservato parallelamente a Julian, delfino del grande magnate tedesco Klotz, che si aggira fischiettando nella villa “italianizzante” e neoclassica di suo padre a Godesberg, nei dintorni di Colonia. Il giovane nel deserto trova degli elmi e delle armi accanto a carcasse di soldati morti, e li indossa. Siamo di nuovo a Godesberg, nel 1967, periodo delle prime manifestazioni studentesche in Germania. Il venticinquenne Julian, figlio unico ed erede di Klotz, ha uno scialbo rapporto con la diciassettenne Ida, la quale lo ama non ricambiata. Ida cerca nell’impegno politico studentesco il senso della sua vita, mentre Julian, “né obbediente né disubbidiente” (come lo definisce sue padre), si è reso conto che come rivoluzionario è conformista, e “non ha opinioni”. Vive sospeso nel suo limbo, in un’impenetrabile e stralunata aria di mistero e di fuga dal reale, nell’infinita ripetizione di un amore segreto e perverso, quella passione zoofila che lo porta ad eccitarsi e a potersi accoppiare solo con i maiali che vivono nelle tenute paterne, quei maiali con cui, citando Brecht e Grosz, il padre “umanista”, con cinica ironia, identifica la sua classe e se stesso. Ida, trattata da Julian come una bambina capricciosa (i loro dialoghi pullulano di espressioni nonsense come urrà, trallallero, trallallà ecc.), non riesce a strappare a Julian il segreto del suo vero amore, a causa del quale viene rifiutata. Alla vuotezza del loro rapporto puramente verbale si aggiungono i rapporti familiari di Julian con suo padre, il paralitico Herr Klotz e sua madre, che vedrebbero di buon occhio un matrimonio con Ida, per salvare Julian dalla sua apatia. Ida esorta Julian a seguirla nelle grandi manifestazioni di protesta sotto il muro di Berlino. Julian, giocosamente, rifiuta. Klotz, sdraiato nel letto con il cappello da notte, si interroga con la sua consorte sull’ambigua condotta del figlio, e poi afferma che “i tempi di Grosz e di Brecht non sonno affatto passati”, anche se la Germania di Bonn, che fabbrica solo lane, formaggi, birra e bottoni, “non è mica la Germania di Hitler”. Dopo qualche tempo, sui bordi della grande vasca della villa, Julian, da una sponda all’altra, fa il suo “ultimo, infame esperimento” sull’amore di Ida nei suoi confronti, prima di ribadirle che il suo amore è altrove. Uno stacco sul giovane cinquecentesco lo mostra scrutare a distanza i movimenti degli uomini che si aggirano sulla montagna deserta. Il giovane, senza dire una sola parola, affronta un soldato da solo a solo, lo uccide, e ne getta la testa in un cratere fumante del vulcano. Poi, accanto ad un falò, mangia la carne del soldato cotta. Si torna a Godesberg, e da un dialogo di costante contraddizione reciproca tra Ida e la madre di Julian, apprendiamo, ancora prima di vederlo, che Julian si è chiuso in uno stato di catalessi, sdraiato su un letto come un povero Cristo, con i pugni stretti e lo sguardo fisso nel vuoto, del tutto insensibile a chi lo circonda. Intanto, Klotz suona l’arpa, e, su due nuove lapidi, ne leggiamo i preoccupati pensieri, che riguardano il suo “concorrente venuto su dal niente”, Herdhitze, che insidia il suo primato produttivo. Sul vulcano, il giovane cannibale ha trovato un seguace, che, dopo aver coridiviso con lui un pasto, lo aiuta a fare strage degli uomini che passano di lì, e a rapirne e stuprarne le donne, che vengono trattate come vere bestie. A Godesberg giunge il fedele servitore-spia di Klotz, il viscido Hans Guenther, che ha importanti novità sul conto del maggior concorrente di Klotz, il sedicente signor Herdhitze. Hans Guenther ha scoperto che Herdhitze altri non è che Hirt, vecchio compagno di studi di Klotz, criminale nazista addetto alla “raccolta di crani di commissari bolscevichi ebrei per ricerche scientifiche all’università di Strasburgo”. Sul vulcano, i cannibali rapiscono e uccidono una donna, poi la mangiano, sotto gli occhi increduli del marito che è riuscito a nascondersi. La conversazione tra Klotz e Hans Guenther prosegue amabilmente, con la descrizione del martirio degli ebrei nelle camere a gas, e con la rivelazione che Hirt (ora Herdhitze) si è arricchito rubando i denti d’oro dei prigionieri, finché, a un tratto, il signor Herdhitze stesso, viene annunciato in visita improvvisa dal maggiordomo di Klotz. In un paesetto cinquecentesco giunge il marito della donna sbranata dai cannibali, che rivela, davanti alla folla (tra cui anche il contadino Maracchione,) l’orribile misfatto. Il vulcano si riempie di soldati armati, appostati e nascosti con i fucili spianati, mentre due “esche”, un uomo e una donna nudi, vengono piazzati, visibili, nella piana. I cannibali (il cui numero intanto è cresciuto), scrutano la situazione con diffidenza. A Godesberg, Herdhitze e Klotz conversano, scrutandosi reciprocamente, e brindando ipocritamente alla loro “nuova giovinezza”. Ancora un breve stacco sul vulcano, dove soldati e cannibali osservano la situazione. Klotz pensa di avere Herdhitze in pugno, di poterlo ricattare, ma Herdhitze gli rivela che è a conoscenza del “vizietto” di suo figlio Julian, dell’accoppiamento con i maiali; in uno sterminato salone con affreschi settecenteschi, mentre Hans Guenther si specchia la lingua, Klotz capisce di dover scendere a patti con il suo rivale. Sul vulcano la situazione si evolve: il giovane cannibale, a gesti, ordina l’attacco ai suoi seguaci, ma viene sorpreso dai soldati, e catturato dopo che si è denudato dinanzi a loro. A Godesberg Julian è guarito, e parla con Ida del nuovo colosso tedesco: l’industria Herdhitze-Koltz, nata dalla flisione dei due grandi antagonisti. Mentre Ida sta per dare l’addio a Julian, perché ha deciso di sposarsi, Julian, in un monologo di straordinaria bellezza letteraria, descrive a Ida il senso del suo amore, pur senza rivelarne chiaramente l’oggetto. In una fortezza cinquecentesca si svolge il giudizio della banda di cannibali. Una campana a morto esprime senza parole il prevedibile verdetto: esecuzione capitale. Il contadino Maracchione è tra la folla, e assiste sgomento alla processione che accompagna i condannati sul vulcano. Il giovanie cannibale è l’unico a non pentirsi davanti alla croce. A Godesberg è in atto un grande ricevimento per festeggiare la Fusione industriale Herdhitze-Klotz. Julian si allontana dalla villa, e mentre si avvia nei boschi incontra il sorridente contadino Maracchione. Una bimba segue Julian a distanza nella sua passeggiata. Con un montaggio parallelo assistiamo alla costruzione dei patiboli dei cannibali e all’ingresso di Julian nel porcile. Julian scompare tra i maiali, mentre il cannibale, con le lacrime agli occhi, pronuncia per quattro volte l’unica frase di tutto l’episodio: “Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia”. Maracchione osserva muto l’esecuzione dei cannibali: sono legati in terra con i quattro arti a dei pali, per essere fatti sbranare vivi dai cani selvatici. A Godesberg, nel pieno dei festeggiamenti della Fusione, giungono in drappello i contadini di Klotz vestiti di nero, per annunciare a Herdhitze (il più forte dei due soci) l’orribile scomparsa di Julian, totalmente sbranato dai maiali. Herdhitze, avendo constatato che di Julian e della sua deviazione non è rimasta alcuna traccia visibile, intima ai contadini di tacere per sempre sull’accaduto.
da S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-L’Unità 1995

http://www.pasolini.net/cinema_porcile.htm


18 risposte a "Pasquale Vitagliano: Perle ai porci"

  1. Dopo Medea, Porcile, uno dei film più “poetici” di Pasolini, a cui la poesia di Pasquale si ispira e trova (dà) nutrimento. Film poetico perché nella parte “parlata” del film, monologhi e dialoghi sono di una struggente lucidità (sono infatti basati sull’omonima tragedia scritta da Pasolini); film poetico anche perché la parte visiva corrisponde al concetto di cinema di poesia che aveva Pasolini che assegnava alle immagini un linguaggio poetico piu’ “vero” e profondo di quello verbale. Il tema è quello esposto da Malos e Lapo nel loro Drammaiale: la metafora del “divoramento”, il “porcile” degli umani visto come luogo di potere, cinico e spietato, fondato sul ricatto sociale e l’assolutismo economico.
    Abele

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  2. semplicemente immaginifico: ABELE HAI SAPUTO COSTRUIRE UNA SINTESI TRA aUTORI A ME MOLTO CARI, PASOLINI CHE HO AVUTO MODO DI FREQUENTARE PER UN BREVE PERIODO MA è LUNGA STORIA E VITAGLIANO, AMICO RECENTE MA BRAVISSIMO… PORCILE è UN PEZZO DI STORIA POETICA IN CUI LA CINEMATOGRAFIA SFUMA NE POETICO, VICEVERSA..

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  3. Roberto, mi fai venire i brividi. Per lo “sguardo” di Pasolini che avrai incrociato. Per avermi affiancato a lui. A confronto, io sono Ninetto o l’accattone. Eppure, nella nostra abiezione – come dice Abele – anche PPP ci avrebbe apprezzato (forse?).
    Sì, sono molto fortunato.
    PVita

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  4. vidi a suo tempo Salò, fu fatto sparire subito dai circuiti di proiezione, profetico come non avrei mai potuto immaginare. anche lì l’abiezione coincide con il dolore che accompagna il vivere, il viversi, di tutto ciò di cui l’essere consiste, angelo e demone nello stesso tempo.
    Porcile non l’ho visto. ma dalle recensioni di allora, e dalle seguenti, compresa questa di Pasquale che ho appena letto, capisco di quale grandezza fosse il genio di Pasolini.
    grazie.

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  5. Non ho visto questo film, ma da quello che ho letto il testo diu PVita mi sembra appropriato e forte tanto quanto la tematica affrontata nella prima parte. Ci vuole sempre coraggio a riproporre Pasolini: nulla in lui è scontato e la sua analisi è sempre provocatoria.

    Un saluto,

    Rosaria

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  6. Uno degli aspetti per me più, interessanti di Porcile è il fatto che mi sembra l’attualizzazione e l’ espansione dell’archetipo costituito dalla ‘fattoria degli animali’.
    Compaiono i grandi industriali (anche in Teorema) individuati come nuovo potere, Pasolini lo vede chiaramente.
    Il potere dei dittatori ‘classici’ come mussolini o Pinochet è di tipo militare,
    scalzata la persona frana il potere.
    Quello attuale ha radici profonde nella realtà produttiva, ad esempio la famiglia Gheddafi è proprietaria di importanti aziende strategiche, lo stesso dicasi per la famiglia Berlusconi.
    L’invasività di queste radici che sono l’aspetto cannibale del potere, rende difficile anche un ricambio salutare e fisiologico, scalzando la persona le radici continuano a proliferare .

    La figura del suino è anche l’elemento comune tra ‘i porci comodi’ del potere e il maiale morale che si annida in noi; e questa relazione, che la bella poesia di Vitagliano esplora
    nel cavo geoide tempestato di ametiste di carne, continua a rimanere un bel buco nero.

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  7. hai mail sul mio incontro con pasolini, accusato di oscenità, sigh, pasquale, oscenità, lui che ne era agli antipodi per signorilità e distinzione..

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  8. quanto è breve la strada da ricatto a ri-s-catto, in quella S che sembra la sinuosa strettissima stradella dell’essere vivi,ci siamo tutti, noi stipati insieme con i morti, proprio come maiali , sulla fanghiglia del copro di altri, di cui nulla va buttato nel barile ovile del pianeta. Noi “accattoni” che mangiamo “ricotta” e crediamo, in queste “mille e una notte” che ci son state segnate in provvigione, di cantare una canzone diversa della notte, in questo decameron a forma di grande stalla, nella pancia dell’arca-noi, sempre gli stessi fino a prima della prima storia.
    Grazie.ferni

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  9. Grazie per i commenti. Tutti di grande profilo.
    Roberto ho letto la tua mail. Credimi, sono orgoglioso di averti conosciuto.
    Ferni, intervento luminoso come un faro, anzi come una… “lucciola”.
    PVita

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