Bruno Clocchiatti: Kiki

 

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Eric Vergne
Dodicesimo piano. Ascensore di destra in velluto sporco, fuori uso. Tromba  delle scale per l’undicesimo piano. Vista del Museo Ars Contemporanea Gopple. Stop. Fila di finestre plexiglasses. Cattivissima vista. Tu inforchi gli occhiali, consulti la mappa delle tubature, la skyline simil/berlinese pseudo/neukoln. Ripartire il modernariato. Dodicesimo, undicesimo, quindicesimo piano ocra. Lei apre la porta. Stop.

E’ una porta pesante, scricchiola sui cardini. Potrebbero essere tre giorni almeno dal principio. Una forma di estetica non riconosciuta dal magistero di un teatro off coi topi. Ma ora cosa importa? Niente è sufficientemente nitido da un’altezza del genere. Comprare vaso per fiori sul divano.

Una dilatazione eccessiva nello stradario del marmo. Poco costoso, vomito opacizzato. Ci si chiede se lo sviluppo urbanistico sia passibile di ulteriori expansioni, ulteriori deroghe. Ulteriori. Sentimentalmente vuoti, forse tardo rococò. Sarà questo il punto? Stop.
Siamo la planimetria di un tuo edificio. Non ricordo la via, sebbene pppoco fa, ffforse. F-f-f-orse.
Non molto è cambiato da allora. La città si sveglia fissando il tuo brand esclusivo da quindici annate fiscali. Annoto un pensiero sul frigorifero, a matita. Apolide. Non per vantarti. E stavolta sembra davvero che sia così. Materia particolarmente solida, senza dubbio.

(Prospectus 3-118-L, lato ovest)


8 risposte a "Bruno Clocchiatti: Kiki"

  1. Bruno è camaleontico, lui non usa la parola, lui la indossa, a sangue freddo. Come un cyborg registra le immagini e le fornisce ad alta definizione, lascia al lettore umanoide la facoltà di relazionarle, di addensarle in emozione a presa rapida. Unico cedimento l’onda sonora che giunge distorta, roboticamente alternata: -“pppoco fa, ffforse. F-f-f-orse”-, ed è un urto (certamente voluto) che apre ai frantumi.

    Molto bella questa nuova scheggia del Clocchiatti…

    Doris

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