Poetry Lab: Antonio Sabino

 

by Antonio Sabino

Da dove viene la tua poesia?
Difficile rispondere a questa domanda, tanto difficile quanto sarebbe rispondere alla domanda “cosa è la poesia?”. Penso che la mia poesia venga (quando giunge) dal nucleo stesso della materia di cui è fatta la poesia, ma non mi chiedete quale sia questa materia, non saprei rispondervi. Borges, parafrasando Whistler, diceva che la poesia accade, sposo questa definizione.

Per chi scrivi, come immagini il tuo lettore?
Non immagino un lettore specifico, anche se immagino comunque qualcuno che leggerà la poesia, ma è una figura priva di caratteri propri o forse una somma di tutti i caratteri. Ovviamente il discorso cambia se si parla di poesie “dedicate a”, allora l’immagine è chiara anche perché la persona permea e configura la scrittura stessa.

Come vivi, con te stesso e con gli altri, il tuo essere poeta?
Per parte mia si tratta semplicemente di vivere. Nel senso che scrivere è oramai per me una abitudine, potremmo dire quasi un vizio, tant’è che ho smesso di chiedermi se avesse o meno senso scrivere, forse perché in cuor mio sospetto che sia una cosa priva di senso, ma al tempo stesso con qualcosa di sacrale e una cosa sacra priva di senso è magnifica. Semplicemente io scrivo perché è una delle cose che mi viene naturale fare, ovviamente non intendo dire che ritenga lo scrivere una attività da fare a caso e come viene viene, ma scrivo come ascolto musica o leggo o suono, come mangio e dormo, sono abituato a far così e se non avessi penna e carta scriverei mentalmente.

Come hai iniziato?
Ricordo che scribacchiavo già qualcosa all’epoca delle medie, ma si trattava più di una serie di frasi con degli a capo. Penso di avere iniziato davvero all’epoca del liceo, grazia alla filosofia: l’insegnante di filosofia era tanto noiosa e incapace (ripeteva in pratica il libro che aveva aperto sulla cattedra) da spingermi ad occuparmi di altro: prima scrissi una commedia, poi passai alla poesia (letta e scritta).

Come ti veniva insegnata a scuola la poesia, che ricordi hai?
Ho dei ricordi abbastanza penosi. Alle medie si trattava del brano da apprendere a memoria, cosa che apprezzo maggiormente ora dato che mi provoca piacere potere cantare ogni tanto, a me stesso, qualche frammento di un poeta, alle superiori la pena aumentava, niente più l’utile (a conti fatti) costrizione di apprendere a memoria le poesie, ma solo un lungo, noioso, freddo commentario grammaticale e sintattico  con uno spruzzo di biografismo di bassa lega. Ricordo che venivano praticamente fatte a pezzi, vivisezionate. Orribile.
 
A chi fai leggere per primo i tuoi versi?
Prima di tutto a me stesso, nel senso che ci ritorno sopra, magari dopo giorni, per vedere se trovo qualcosa che mi soddisfi. Avendo poca memoria riesco ad ottenere a volte l’effetto di un lettore davanti ad un testo altrui.

Usi la penna e/o il computer?
Entrambi i mezzi, la penna mi è utile in viaggio, a casa tendo ad usare il computer, ma non c’è una vera preferenza.

Quanto viene di getto o è frutto di lunghe elaborazioni?
E’ una lunga improvvisazione o una improvvisa elaborazione. Diciamo che mi carico come una dinamo durante un tempo variabile, mi vengono dei versi che posso annotare oppure no, nel caso questi ultimi probabilmente ritorneranno variati al momento di scrivere. Poi, quando sento una sorta di “tensione di superficie” mi metto alla stesura spesso senza soluzione di continuità. Possono poi capitare anche delle poesie che inizialmente mi appaiono di getto, ma, dopo averci pensato meglio, scopro che mi giravano per la testa già da tempo.
 
A parte le tue, quante poesie di altri pensi di ricordare a memoria?
Non molte. Qualcosa di Leopardi, Dante, frammenti di D’Annunzio, Pascoli, tutte opere apprese al periodo delle medie, a parte Dante che ho tentato di mandare a memoria per conto mio all’epoca dell’università.

Un consiglio prezioso da passare agli altri.
Leggete. Sembra ridicolo come consiglio, ma essendo una delle cose che mi ha sempre dato felicità trovo solo questo da consigliare. Leggete e leggete quello che vi piace senza badare al peso riconosciuto dai critici, come diceva il poeta.

Un poeta su tutti.
Una scelta quasi impossibile. Basandomi sulle citazioni che mi affiorano quasi quotidianamente nella memoria direi Shakespeare, intendendo tutto Shakespeare dato che non definirei parte della sua opera teatro, ma globalmente poesia.

*
BALTIMORA

A E. A. Poe

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

le ho viste l’anno scorso, come se fosse adesso,

e danzavano bianche e pallide come le vele al vento

ma non c’era vento attorno, se non nel mio occhio stanco,

lungo la linea tagliente dell’orizzonte ferivo la palpebra

calante come una luna tuffata sotto l’abisso del gorgo,

se non nella mano che tremava, tremava stringendo l’altra mano perché non tremasse,

la parabola dei ciechi lungo le colline la notte e il giorno,

seguivano in fila i gesti informi della voce, quei suoni inutili

richiamati dalla cortesia della palude della gente di biacca

che si stendeva lungo tutta la banchina del porto di Baltimora

illudendosi di risalire o discendere fino all’oceano,

acqua stagnante.

Tra le carcasse degli incerti nomi

un volto consunto dalla fatica

ma non piagato

dal quotidiano scappellarsi al passante

è come se si fosse murato nello spazio dell’oceano

lasciando la città e la gente dall’altra parte,

ed ora, troppo avanti negli anni per rincorrere le onde,

si accomodava come in veranda,

aperto un piccolo spazio nel suo muro, una porta,

trascinato un barile pressappoco della sua età

– chi sarebbe stato capace di distinguere di quale vino?-,

e guardava, senza dover dire nulla agli sperduti,

soffiando fumo come un battello a vapore,

avrei voluto che balzasse giù dal suo barile,

tagliasse tra la folla, spartendola bianca e schiumosa,

perché potessi seguirlo, seguirlo tra questa gente

ancorarmi a lui come se fossi fuori uso, in avaria,

ma non c’era nulla che potesse spostarlo dal suo pilastro

vecchio eremita nel silenzio

che ci osservava come da un lampadario su di un vasto salone

ma senza crudeltà, senza rabbia o livore,

ci osservava in attesa che la sua nave approdasse e gettasse la gomena.

Donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

oscillano come una bandiera soggetta al mutare del vento,

ora pendono a destra, ora a sinistra,

ed io le seguo con lo sguardo senza saper proferire parola

e negli occhi rivedo il riflesso dei loro denti

e negli occhi rivedo come l’inclinazione d’una scala lunga e nera

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna non hanno mai inteso

davvero

e mille suoni, in lingue che l’uomo e la donna hanno creduto di capire

vanamente

e misteri nascosti dove nessuno li saprà mai trovare

nascosti nel luogo più impensato: davanti a loro, posti bene alla luce del sole.

Eppure bastava così poco, bastava sedersi su una sedia logora

e stringere una mano nella penombra, in attesa del medico,

passando così le ore, parlare e parlare ancora, dire, dire,

invece di correre follemente e picchiare i pugni sulle tempie imprecando

buttare fogli all’aria, sporcare d’inchiostro le mani, il foglio, la scrivania,

correggere bozze ad ogni ora, gareggiare a incastri

sostituire a numeri parole, a parole numeri, a disegni parole, a parole parole,

come un automa, ma di quelli veri, non le scatole per ingannare i gonzi,

ma quale automa avrebbe sofferto quello che ho sofferto e soffro ancora?

Quale automa? Un automa creato da qualche artefice crudele,

un automa che non sarebbe mai servito allo scopo,

sempre distratto da un suono, da un ritmo rivelatore

che veniva da ovunque, dalle pareti esterne e interne al corpo,

da dietro la maschera che si insinuava anche nel giorno di festa,

nel momento dei bagordi estremi, quando crolla ogni cosa

come una casa decrepita e priva di vita, come un mondo senza destino,

un corpo accasciato su una poltrona nel terrore che nulla si ripeterà:

quei sussurri notturni sotto il portone non verranno ridetti e non sono stati detti,

questi chiari di luna ellenici,

no, sarà una illusione futura, ma di chi?, non ho idea, ma sento che si illuderà,

e poi una luce la getterà un cieco scrutando nel buio i sentieri indivisi,

ed io ora scopro che il bivio è una curva di un labirinto

e la via dalla quale si viene non è una via, ma un punto proiettato nello spazio,

un punto posto lungo quella curva che vediamo d’un tratto,

ma di tutto questo non farò menzione, non scriverò nulla, non lascerò traccia

troppo, troppo ho già messo sulla carta in questi anni di vagabondaggio,

in questi secoli di cammino lungo la riva del risonante mare,

voglio solo spingermi di nuovo là, in questa notte di ottobre,

anche se le gambe sono malferme, lo stomaco non regge

e la testa risuona ad ogni leggero movimento del mio corpo,

ma voglio tornare là, in questa notte d’ottobre

a vedere donne perdute lungo la banchina del porto di Baltimora,

forse tra loro, tra questi spettri della notte

che danzano a piedi nudi sulle acque

troverò anche il suo volto

pallido e disciolto

quel volto che vedevo reggersi debole come il suo sorriso

quando mi osservava dalla porta

quando lasciava, contro al mio volere, il letto per vedermi lavorare,

e restava in silenzio, mentre non potevo proferire una sola sillaba,

forse lo vedrò quel volto

forse la vedrò come se emergesse dalle acque del porto

con gli occhi chiusi e la bocca rasserenata

lontano dagli affanni e dagli artifici del laudano,

come se emergesse da una terra lontana, un’ isola,

da un regno in riva al mare.

*

COME S’OSCILLA TRA NASCITA E MORTE (Arlecchino, da “Il ciclo delle maschere”)

Come s’oscilla tra nascita e morte

così si vorrebbe fosse l’agire

sempre d’ogni uomo in qualsiasi sorte:

a mezzo del godere e del soffrire

Ma l’uomo è bene che la sua pena

fugga e cerchi gioia con le sue azioni;

e se qualcosa ti si oppone mena,

mena con forza e non aver padroni

Se ti diranno di agitarti meno

rispondi: m’ispiro all’arcobaleno

*

Sogna (Las Meninas)

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze infinite e di tele

Essere dai molti secoli
che infinitamente e dunque adesso
stupisci e trasecoli
di sognare sempre di te stesso
che sogni e l’uomo e il luogo
e il volto che t’osserva
perché è il sogno che sfogo
dona e poi ti conserva

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze indefinite e di tele

E quella pausa che nelle notti
a me, sciagurato, pare il mio sonno oscuro
per te è l’istante nel quale lotti
con quel tuo corpo da sempre stanco e duro
per poi sprofondare nello speglio
che rigetta opposta immagine a quella data
Io nel cieco sonno quanto tu sveglio:
ti guardi attorno in una stanza dimenticata

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze smarrite e di tele

Mistero senza possibilità di svelamento
quello che sogni che egli dipinga
e solo un tuo nuovo sogno, oh portento,
potrebbe fare che occhio si spinga
all’altro lato della tela, a nuove viste
ma forse una duplice incubazione
mi hai concesso: è chi da ora assiste
che quasi viene ritratto in azione

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze specchiate e di tele

Non di risposta necessito e bisogno
anche se un dubbio mi è vicino:
tutto ciò che precede il tuo sogno
è realtà o è gioco come di bambino?
e anche la tua veglia è una menzogna
perché tu stesso che credi di sognarti
sei qualcosa che un altro per te sogna
e da tutto il sonno mai puoi separarti?

Sogna
Di dame di corte, di infante e di nane
Sogna
Di specchi, di stanze specchiate e di tele

Sogna, essere divino, Sogna Cane
Sogna e del sogno dispiega le vele
Di dame di corte, di infante e di nane
Di specchi, di stanze sognate e di tele
Sogna di noi e di chi c’ha preceduto
Di chi pare svanito, ma non è mai nato
Sogna di finzioni, di attimi, del minuto
Sogna dal luogo indicibile che t’ha celato


10 risposte a "Poetry Lab: Antonio Sabino"

  1. Mi chiedo se non siamo andati tutti allo stesso liceo, e quanto quelle lezioni soporifere siano state in realtà ispiranti. Grazie quindi alla prof di filosofia di Antonio, che la prima volta che ho letto (si trattava proprio di ‘Baltimora’) ho pensato subito a un musicista. E a leggerle a voce alta queste liriche, come Antonio fa con la poesia che ama, la musica torna tutta, nel ritmo cadenzato, nelle voci che si inseguono, nel suono delle allitterazioni. E poi tutto un buon gusto, una cultura sinfonico-operistica di libri e tele memorabili passate al setaccio di occhi che riconoscono il bivio come “curva di un labirinto” e “la via dalla quale si viene” come “un punto proiettato nello spazio”.
    Abele

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  2. Questa poesia mi sembra avvolgere le cose di luci improvvise di nebbie
    e di veli che danno loro come una seconda pelle di ritmi in sordina e di musiche che si spandono nelle acque. Penso in particolare a Baltimora.

    giancarlo

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  3. l’avevo già letto e mi era piaciuto, confermo l’impressione, molto belle tutte, in particolare ho apprezzato Sogna per la reiterazione dei versi
    Sogna
    Di dame di corte, di infante e di nane
    Sogna
    Di specchi, di stanze smarrite e di tele

    come un ritornello ma che fa venire in mente eliot

    nella stanza le donne vanno e vengono parlando di Michelangelo
    sì, molto musicale, un musicista di parole, d’altra parte la poesia è musica fatta di parole. complimenti. ciao antonella

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  4. Ho la fortuna di conoscere da tempo la poesia di Antonio Sabino e da sempre la amo per la sua musicale eleganza, per la sua forza evocativa prossima alla visionarietà, per la capacità di plasmare lessico e ritmi in un gioco inesauribile di invenzioni fantasmagoriche, per la profonda umanità che i versi rivelano.” Baltimora” non smette di sorprendermi e commuovermi. Ho apprezzato molto l’intervista, il modo semplice e allo stesso tempo suggestivo con cui Antonio descrive il suo procedimento creativo. con quel caricarsi come una dinamo e la “tensione di superficie” da cui prendono vita i suoi versi. Trovo il consiglio di leggere per niente scontato, soprattutto se pensiamo a quanto numerosi sono i giovani che potrebbero avvalersene.

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