Caino
Magari tornasse ancora (sulle braccia)
tra gli infissi delle scapole il teorema
di un pomeriggio aperto e questa
finestra ora è (il palafreno del sole):
“Ti ho sognato, lo sai, eri il minuetto della luce”
lo stropicciarsi bello del bosone di Higgs
senza saperlo, il segreto è quello, senza saperlo:
perché sia possibile ancora incontrarti
oggi che agito ogni corteccia nelle mie geometrie,
prego in un solitario chiudere gli occhi (vedo)
la disposizione di ogni cardo (sciolgo)
il mazzo della mente e nell’azzardo
sapere senza il sapere, come formica nei ghiacci
e tu che tracci
il rapidissimo incavarsi del tempo
(userai l’altalena)
Dauer im Wechsel
Lo senti, lo senti, lo senti, lo senti,
lo senti, il campanello? anzi ripete
la curva della serpentina nel frigo
il rimbalzo semibreve sull’intonaco
del pigiare un grigio pulsantino
come specchio ustorio fino al corridoio
delle menti soltanto predisposte
al domestico sfrigore, al cucinio trasalire ma
cade la parete cade il cateto cade
il quadrato e la radice della stanza,
cade la leggenda suicida e fasulla
delle clavicole stempiate in certi versi
incapaci di parlare, ma non di allogare
nelle gore di un trattino il vomitare
repentino per la vita brulla e se Rilke
disegnava nelle ore il futuro di Dio,
è molto meglio compiacersi d’aver cancellato
il già cancellato disegno passato,
in lode alla maestà presente della clavicola,
con l’alopecia a garantire assoluzioni:
ha la mitra l’ironia, e abacadabra il mondo è sparito
– ahah, vorresti i sèmi almeno per dirlo,
ma Derrida non te li dà – è già tanto che non derida
e non avrai altro dio al di fuori del negare
Eppure, se solo chi afferma il silenzio
scegliesse, ogni tanto, il silenzio, sentirebbe
cadere sul timpano
la campanella delle corde ritorte alle meccaniche,
il lume della mente nel fondale,
corde in lunghezza d’onda a forza dieci,
la sincronia dei granelli nella schiuma,
i minerali nascosti e le lune lente sopra gli uliveti,
e il bistro a maturare nei faggeti per cerchiarsi
un giorno gli occhi con la mano pencolante sullo specchio
mentre il vero sguardo scivolando
lascia vuoti i bulbi
e attraverso il retro del bianco oculare
cerca nella palta più profonda il riparo
dalla filosofia del calpestio.
Nella verticale del chiostro la candela
muta il bianco in atro vapore e poi nuovamente
bianco come il volto immedicato della suora nelle nuvole:
è questa resilienza della vita,
la durata del cambiamento è
il bucaneve, ciò che permane nel cambiare
è il suo gambo così piccolo e impossibile alla capsula,
come quando l’apice spunta dalla formula e insegnando
quanto poco noi sappiamo
ci squaderna incalcolabile
D(d)(D?)omenica delle palme
Mi chiedo se non sia meglio tornare
se non vedo le palme, solo carrubi
la loro danza nel ventre
nel ventre che danza la mia lontananza
la carrubina assorbe acqua fino a cento volte il suo peso
mi chiedo se non si possa parlare di trasfigurazione
***
se io sfinisco nel vento
se io divento come io più vero
congiungo le marne con la preghiera
fossile di chi nell’arco illuminato
crede, la medaglia del mio sguardo lisa,
lisa la medaglia Lisa si chiamava
il corpo rabberciato della donna china
a tenersi le ginocchia come una bambina:
il sole e i suoi marinai amavano
la rotta da tracciare in feritoia
verde pallido come l’adriatico nella
tenda che ondeggiava e benediceva
la benedizione del mattino sulla morte;
“Fammi seme del carrubo,
sia macina e sia tornio il cielo tutto vuoto
vorrei sgocciare tra gli occhi chiusi e
correre nella cavea tutta bianca
di sole per i violini tutti tesi
a cominciare il nuovo senso degli sguardi
del pensiero seduto in gradinate
mentre dal dolore di io che entro
di io più vero
grandina l’assoluto e poi si scioglie
e noi lo beviamo”
In ogni caso
Si rincorrevano fra i covoni di sale spezzando
larici imbalsamati in forma di secchi rami
“nelle danze dell’agonia il ricordo ci possiede”
ripeteva inciampando uno dei due nell’ombra
imperfetta del crepuscolo senza sete né fame
erano cricchi da osservare come la disposizione angolare
di uno stormo nei waterlands olandesi quando
il giorno si rovescia in notte con immensa facilità e
la terra sottratta alle onde è una morchia scontrosa
finché almeno anche l’altro fra i due fra i covoni
fra il sale che scompare leccato dal vento
non dice “Siamo i batacchi del mondo,
lottiamo per la libertà senza neanche sapere cos’è,
un concetto inventato almeno finché non
trasfiguri la materia questo fascio di energia raccolto in nome
e lontano vedo un tetto appena accennato,
ma tu non guardarlo, respirare e nominare,
respirare e nominare,
ascoltare la voce che dovunque si produce
in ogni caso”
Question Time
Mi farà male?
Perché una nuova edizione del Lavoro dell’attore su sé stesso?
Mi farà male?
Il sisma è stato registrato come un’emicrania della placca adriatica
Mi farà male?
Ogni uomo è dotato di un tempo-ritmo interiore destinato
a dimenticarsi come un’eustele in balcone crescendo
vincolata da serie di crocchi e di aggrappi a disporsi
conforme orizzontale
Ma mi farà mica male?
Del resto il tropismo è sempre una speranza,
quel canale interiore diretto alla luce
che chi non conosce le piante direbbe
(con un sorriso d’ortica sulla mandibola)
sì e magari sentendo Strauss cresce di più.
A volte basta respirare nel modo giusto
per essere politici, stornare la greppia del tempo
lasciandosi sé
il ciuffo fuori posto non vuole pettinarlo
sgrava sempre dall’orlo di cemento
e si sporge verso il sole pencolando con le foglie
socchiude gli occhi inesistenti davanti a quella vista
non si chiede mai
mi farà male?
Questi miei
[Trama del cortometraggio: facciata del supermercato-un elemosinante ha un piede a patata-divento un idrante]
questi miei arti appesi
al cavo disossato del mio petto
li trascino idrante per la strada
ho già il ferro nei garretti
sono tubi lacerati le mie braccia
innaffio e non lo so
eppure faccio finta di sapere
quando si aprono da sole le due porte
e c’è un piede come un tubero contorto
senza dita a framezzare quello sporco
chiede venia e tre monete
le radici in un cartello scritto a penna
carfùr fa rima con darfùr e che
che il lampione è rotto e non si vede altro
ma io trascino dietro i passi
le due gomme dalle ascelle fino a terra
come Pollicino io segno la mia strada
l’annacquo con lo sguardo altrove
non amo le patate non le amo interrate
e io che non so io mi permetto di sapere
quel sapere che c’è nel non guardare
non guardare come l’elce mentre crede
d’essere altro e più del leccio
nonostante non ho tante
non ho tante nonostante
parole da dire
forse penso all’Irlanda e alla sua carestia,
le labbra nell’inedia e lì davanti
due porte che masticano persone
Treni pontini
Il codice dei binari raccontava
steso sull’agro verde esponenziale
i filamenti obliqui degli acquedotti
come alberi secchi di limoni
come secche spore ed incapaci
di vivere la resilienza senza commozione
è fuori tempo questo sentimento
nella folla dei glitch un pizzicato di viola
ma quando ho creduto di sognare
ho aperto invece gli occhi
il rachide delle spighe attraversava
mosso dal vento il finestrino
per un momento non ho conosciuto
non ho avuto parole sulle labbra
o tetraedri nelle idee
così nella lingua di ogni nessuno
le ali del frumento erano pale di mulino
sono state esattamente pale di mulino
non resterà nulla ma era la mia breve
verità del mattino vi prego non voglio
chiedermi ogni volta se
fosse banale prima di ricordarla
nel modo migliore che posso
Michele Ortore è nato il 1 luglio 1987 a San Benedetto del Tronto. Laureando in “Studi italiani ed europei” con una tesi sulla lingua della divulgazione astronomica, relatore Luca Serianni. Le sue poesie sono apparse in diverse antologie e hanno avuto riconoscimenti in premi letterari nazionali, tra cui i più recenti sono Vivarium 2010, Poesia di strada 2010 (finalista), Il lago verde 2011 (segnalato nella sezione giovani). Alcune sillogi sono apparse su La poesia e lo spirito, Poetarum Silva, Filosofi per caso, Pi greco – Trimestrale di conversazioni poetiche e sul sito di Argo. Ha letto i suoi testi in forma di reading a Roma e nelle Marche. Sue poesie sono state esposte insieme alle opere di Teodosio Campanelli all’interno della mostra “Con-rispondenze di armoniche cromie”, organizzata nel maggio 2011 con il patrocinio del Comune di San Benedetto del Tronto. In prosa, ha pubblicato racconti brevi per Giulio Perrone e Terre di Mezzo. Ha collaborato con Historica, UT e con il settimanale d’attualità Carta. È stato vicedirettore della rivista indipendente Vespertilla; cura la rubrica Fino all’ultima fila per Poesia 2.0, tracciando possibili dialoghi tra poesia e teatro; scrive di poesia contemporanea per Paneacqua. Si occupa di teatro sulle testate Close-up e TeatroTeatro. Dal 2009 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti come pubblicista.
Complimenti a Michele per questa poesia corposa, posata sul corpo della vita e ben raccontata, poesia che osa.
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è sorprendente a tratti, per musicalità, senso dell’ironia
cura dei particolari e fisicità
complimenti
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Poesia dai versi strutturati in un bel mix di originalità, forza espressiva, ritmo.
elogi a Michele
e ad Abele grazie di averlo proposto.
cb
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Sì complimenti a Michele…corposa come dice bene Vincenzo…e comunque
“agile” nel’inseguirsi nei suoni interni…nel far nascere parole
da immagini e viceversa…
un saluto
mm
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Prima di tutto grazie a Pasquale Vitagliano e Abele Longo per lo spazio che mi hanno offerto; grazie anche a Maurizio, Cristina, Massimo e Vincenzo per i loro commenti. L’aggettivo scelto da Vincenzo mi piace, “corposo”; ma mi piace ancora di più l’idea di essere posato sul corpo della vita. In fondo vorrei fare esattamente questo, conquistare uno spazio vuoto di aderenza vera alle cose, lasciando che da esse rinasca un pensiero e una teoria: cercando di tenermi ben lontano da ogni compiacimento e ironia nichilista. Un saluto a tutti,
Michele
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