Francesco Greco: Pecore

Antonia Phillips

PECORE , un racconto di Francesco Greco, tratto dalla raccolta “Culàcchi barocchi”

Il pastore di Corfù si chiamava Demetrio e tutte le domeniche mattina, con la barchetta di due metri leggera come un fuscello s’avventurava, per una zuppa di pesce, nel mare spunnàtu (molto profondo) dove incrociò Ulisse di ritorno dalla guerra, l’eroe Achille dalla pace e Elena veleggiò per correre nel letto del suo amante.

Il mare era calmo come una tavola, il sole alto a picco e la pesca buona: lutrini, sciùli, pèrchie, scorfanetti per la zuppa. Il secchiello di rame ormai traboccava, il pescatore per diletto sorrise guardando la riva e mise la prora in quella direzione. Gli dèi dell’Olimpo però non erano d’accordo: d’improvviso il cielo si spalmò di nuvoloni cupi, il tuono brontolò a ponente e il mare si fece grosso: a ogni nuova onda la barchetta di vetroresina rischiava di rovesciarsi.

  Quasi senz’accorgersene, si ritrovò a pregare mentalmente le divinità più varie: da Nettuno a Zeus, dalla dea Atena a Iside. L’esigua imbarcazione era sballottata dal vento, anzi, da tutti i venti scatenati da Eolo dispettoso. Un’onda violenta scagliò il secchiello del pesce ancora vivo fuori bordo e la barca prese a riempirsi d’acqua.

“E’ la fine!”, pensò il pastore rassegnato, zuppo d’acqua. E si passò la lingua sulle labbra.

E, come dicono accade in questi casi, i fotogrammi della sua vita sfilarono nitidi uno a uno, da quando il padre gli insegnò a mungere le pecore seduto al vancutèddu (sgabello basso), finché non aveva avuto un gregge di pecore e capre tutto suo. In mezzo, la guerra, gli italiani partigiani con cui aveva combattuto sulle montagne del Peloponneso per scacciare i fascisti dal Partenone, il matrimonio con donna Dimitra Papastatopulos sotto il grande, maestoso ulivo: c’era la guerra, il pranzo nuziale di cavoli e la musica del vecchio violino del capitano Corelli sulle cui note si ballò sotto uno spicchio di luna sino a tardi e…

E poi… Un momento, una barca verde si stava avvicinando: era stata tutta la mattinata nei paraggi, i pescatori erano due e avevano le cerate gialle. Era un gozzo di legno massiccio, pesante, danzava, ma resisteva bene ai cavalloni cattivi.

In breve fu a due passi, e gli gridarono:

“Ohhhh, resisti… Stiamo venendo…”, e quando furono vicini gli lanciarono una corda, che però finì in acqua. La recuperarono e quando furono a tribordo portati da un’onda meno violenta delle altre, che li depositò come una mano invisibile a tre metri dallo sventurato, buttarono la corda e stavolta lui l’afferrò.

La strinse con un nodo alla prora e il gozzo puntò deciso verso il porticciolo. Il vento ruggiva come una tigre nel serraglio, il lampo a ponente annunciava una tempesta da fine del mondo. Stavolta però gli dèi furono benigni per i due equipaggi: quando si avvicinarono a riva, rischiarono più volte di sfracellarsi sulla scogliera bassa, ma alla fine riuscì a saltare a terra. L’altro tirò la barca del pescatore greco e questi riuscì a sua volta a saltare sul gozzo e da lì sulla scogliera.

Si rifugiarono tutti in una grotta detta “del Diavolo” sani e salvi, proprio mentre le ispide raffiche di pioggia cadevano sul mondo malvagio e il vento di tramontana rinforzava ancora.

I tre fecero la conoscenza. Demetrio strinse così la mano a Salvatore e a Pasquale, anche loro pescatori dilettanti che la domenica andavano per pesce di scoglio.

Venivano dalla terra di Artos Megalartita, un villaggio di nome Rudiae, fondato, si diceva, proprio dai Greci. Quando il pastore si fu ripreso dallo spavento, chiese ai due cosa doveva fare per sdebitarsi, visto che doveva loro la vita e, non fossero apparsi nei paraggi, la sua fine sarebbe stata segnata per sempre in fondo al suo mare.

I due si schermirono cerimoniosi:

“Ma no, compare mio bello, che dici mai? L’abbiamo fatto volentieri, figurati!… Pensa alla salute, a tornare a casa tua, alla famiglia tua…”.

Demetrio però insisté deciso: come si dice, non voleva tenersela così. Ma i suoi salvatori apparivano più determinati di lui e comunque non volevano approfittare della situazione.

Il vento abbaiò nella grotta e i tre tremarono come scossi da una scarica elettrica. I salamelecchi andarono avanti ancora un po’. Intanto il mare si calmò, il cielo si purificò e il sole tornò a sfavillare: il maltempo aveva dirottato verso altri lidi più a nord, proprio verso le terre dei due pescatori.

Ognuno pareva irremovibile, non si sarebbe convinto a non muoversi di un sol passo. Ma, dagli e dagli, tale fu l’insistenza del pastore che alla fine, forse solo per tenerlo contento, Salvatore cedette.

“E va bene, compare – disse – visto che proprio insisti, che non cambi idea, e sì che non ce ne sarebbe affatto bisogno perché noi l’abbiamo fatto ben volentieri, se vuoi sdebitarti con me… Vabbuò, và – tagliò corto come chi prende un’improvvisa decisione – dammi 100 pecore e non ne parliamo più…”.

“Te le darò ben volentieri – sospirò il pastore come rinfrancato per il fatto che si sarebbe sdebitato – ho un gregge che, grazie al Cielo, è ben numeroso, e le bestie che mi chiedi non mi procureranno gran danno: gli agnelli fan presto a svezzarsi e divenire così pecore adulte… Fammi arrivare alla curte (corte) dove le tengo ricoverate e ti manderò quelle più grasse, di razza…”.

Tacquero per un po’, ognuno pensando ai fatti suoi, forse alla casa, al focolare acceso, al letto con le rustiche lenzuola di canapa e…

Poi il greco si rivolse a quello che aveva detto di chiamarsi Pasquale e disse:

“E a signurìa (formula di cortesia) che posso dare? Chiedimi quello che vuoi, anche a te devo la vita e se non foste arrivati voi…”, tremò ancora zuppo ricacciando un piccolo singhiozzo.

L’altro tergiversò con mille smorfie, come chi non intende approfittare della situazione:

“Ma lascia perdere, vagliò, non darti pensiero, pensa piuttosto a stare bene e a tornare a casa tua, và…”.

Il pastore però, con discrezione, ma insisté anche lui, ché non intendeva tenersela così:
“Il fatto è che senza di voi non avrei ritrovato la via di casa mia, quello è… Non avrei più rivisto la compagna della vita mia e lasciato orfani i miei figli…”. Ricacciò un altro singhiozzo.
E così alla fine, che doveva fare?, star là fino alla fine del mondo?, anche l’altro cedette.

Chiamò in disparte Demetrio e all’orecchio gli sussurrò queste precise parole:

“Se vuoi davvero sdebitarti con me per averti salvato la vita poco fa e fare di me l’uomo più felice sulla faccia della terra, fai una cosa: non dargli le pecore che hai promesso al mio amico, quel miserabile, pezzente e mortodifame…”.

Il greco trasalì: non credeva alle proprie orecchie.

E quando tornò al villaggio, nelle sere d’inverno davanti al fuoco, raccontò questa storia mille e mille volte ai suoi ancor più basiti paesani, gli stessi che l’hanno raccontata a noi, ancor più increduli…

Riproduzione riservata


5 risposte a "Francesco Greco: Pecore"

  1. Il “neobarocco’ di Francesco Greco… Anni fa scrissi una recensione di un libro di racconti di Francesco, Leukos, in cui sviluppavo la natura neobarocca del caro Greco, che si definisce anche messapico-bizantino. Sono dei racconti molto belli di vecchi sdentati e fiumi di rifiuti liquidi…

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  2. in effetti ha il passo del “racconto mitologico”, ma anche l’umanità minimale chi conosce il valore di una vita fatta di piccole cose. dal miscelarsi dei due aspetti, scaturisce una narrazione personale, nonché piacevole. nota particolare per l’elegante filo sotteso tra la *zuppa* di pesce e il pescatore *zuppo* che si passa la lingua sulle labbra.

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