La logica del caos. Poesie scelte di Antonio Bux

Antonio Bux (a sinistra)
Antonio Bux (a sinistra)

6.

a Robert Lowell

 

“C’è un gatto dietro le sbarre della mia finestra 
(come un’ombra dissimulando una libertà provvisoria)
dentro il dentro, ché fuori non esiste se non qui
qui è fuori, l’altrove che si pensa ma non si tocca
quando poi il gatto corre via, e la sbarra si assottiglia
come l’occhio sulla forma, fugge via per non vederla”

Si pensò la luce prima ancora che si potesse vedere:
un sogno più chiaro, oltre la veglia
dove il buio tesse coi suoi ragni.
L’esistenza è un filo riavvolto più e più giorni
all’uovo di legno della morte. E tu non fai che girargli
a vuoto tra le dita, bucando la pelle nel contatto.
Essere punta della cruna dunque
significa stare alla base del disegno, dove dal cerchio
della casa come un dado, il tempo rotola sul pavimento.
Tuttavia non è propriamente un gioco, ma un traguardo
quel mondo lontano che si lotta, mentre il sogno resta a guardare
due birilli che barcollano, molto prima che la sfera stia per cadere.

12.

 

“Ci sono posti dove la polvere 
fa parte delle cose future.
Penso alla pelle umana
allo strato sottile che divide
il movimento dall’accaduto
(poiché tutto è destinato
a ritornare dentro; una croce
che gira sul suo stesso fianco
l’angolo curvo dell’esistenza);
perciò più dell’oggetto si ama
il ritaglio a specchio, la parte
venuta meno: lo strappo nel buio
nido d’ombre a coprire l’invisibile
che si tiene, forma dopo forma
stretto, alla fune dell’abissso

Morire è sempre un ciclico andare: come
inneggiando alle sponde il breve piacere
dove dall’acqua dell’esistenza non ritorna
chiara la vista, ma anzi si piega a farfalla
s’inonda a monte, come corolla di cenere
spiaggia a valle, dopo il promontorio cresce
in sole, si fa conchiglia di luce, ossuta meraviglia
fin dentro la sua sabbia il tempo, clessidra rotta;
perciò della vita, non si vive contando i granelli
persi nel cammino, ma quelli accumulati a parte:
la gran selezione marina, la costruzione bianca. 

13.

“Delle ombre inseguono sempre
presentano spalle più grandi
a difendere il buio dal presente
ché la luce infligge duri colpi
alla memoria, dunque meglio
non sapere niente, lasciare tutto
andarsene davvero, a prova contraria
lontani dal ricordo, dal gesto che ritorna
sempre per poco, che muove per inerzia
come il pensiero, avanza per dimenticarsi”

È possibile deviare il percorso, fare un decorso
a retrocedere: perdersi prima della nascita; poiché
tutto nuota dentro, sproporzionato nel nucleo
un’onda diagonale (ché non taglia dal centro, anzi
schiuma solo ai lati, fa una pozzanghera nell’angolo)
perciò dell’acqua si ignora la lunghezza ma non la forma:
si conosce l’esatto frizzare della bolla, il gorgo a sorprendere
-del tuffo- il buco che rimpiazza. Dunque si fa come un lago
parlando: un discorso a specchio, dove quell’altro che muove
la superficie non pensa, tirando il sasso parola, non si tiene a galla
(quindi tutto è destinato ad affondare, ché riemerge solo una sponda
e non l’intera isola); sprofonda come una nave: con la morte in poppa.

15.

 

“Si affetta l’esistenza in quattro tagli

si divide in tranci, e alla fine la bilancia

pesa le parti moltiplicandole: infanzia

con gioventù, maturità con vecchiaia

fino a quando ogni fetta si fa più piccola

cede il sangue, si cuoce a puntino, nel bivio

della misura: dunque qual è l’età di mezzo,

dove inserire il ferro, quell’ago che ci precisa?

Perché crescita è divisione, perdita specifica

come una biforcazione del muscolo, contrazione

riformando sulla pelle due colori, macchie diverse

a bollire insieme, come l’acqua con l’olio d’oliva;

così il pensiero ci cucina, fa un sontuoso banchetto

coi resti mortali del tempo: l’ultima cena del mondo”

Quanto si perde, se si perde
ché in vita non conta il peso
ma la bilancia delle azioni
l’esatta forma del pensiero
la somma che non restituisce:
quell’ago puntare un indice
-se pendere o meno, se conta
davvero la presenza o l’ombra-
dove quell’indice sporge la vita
la sentenza della tara: se si è

troppo dentro le cose o invece
la sottigliezza dell’essere vuoti
basti a determinare un punto
che distanzi la morte sui lati
e invada l’interno programmando
il corpo ripiegandosi su di sé
come un vortice nell’acqua
che ruota la vita senza esistere;
e allora non conta pesare
ma saper contenere il niente
il peso del proprio sparire
svuotandosi sempre
per poi ricominciare.

19.

 

“Mi sogno sempre un po’ più indietro.

Meglio posso dire: in uno stato di disavanzo

raggiungere l’esatta proporzione del sonno

dove non è luogo la carne ma spostamento:

accanto i miei cari, degli oggetti senza futuro

ogni cosa rimandata nel proprio vuoto a maturare

la corrispettiva origine. Dopo questo niente: si torna

alla vita sempre un po’ più pieni, come sovraccarichi

di una solitudine condivisa: sogni di un sogno impossibile”

Funziona a tremori, l’esistenza bussando
tra gli oggetti, come una scossa di tempo
entra imprimendo buco su buco il silenzio
fascia che non tiene, nella catalogazione
tra chi non muore e chi non sa di vivere
perciò si muove; per scuotere la polvere
di tutto ciò che rimane, la parte più fragile.

 

Ricordando che:

Oggi ho fatto l’amore con l’altro.
Mi sentiva da sé, pieno a metà
di quella metà che è piena solo
se fa a meno di me (perché me
è solo la parte di sé, dell’altro
la metà, il pieno che non riempie)
perciò ho goduto standomene là
fuori di me, dove quell’altro non sa
entrare da sé, e se ne esce a metà
andando dove, se venendo non sente
ma restando perché, cosa c’è di meglio
che fare l’amore a metà, nel gran vuoto di sé”

25.

a T.S. Eliot 

 

“Di livelli, sono piene le onde.

Guarda il mare, così terrestre.

Quasi un tappo, che preme l’atmosfera

la chiude a cielo. Un rovescio nella porta

del mondo. Col solo rumore non si apre.

Ma così dura appare la finestra sul fondo

che l’acqua riempie il respiro tutto, e ascolta

dal profondo della superficie, un dilatarsi di voci

mentre nell’azzurrarsi delle cose, l’orizzonte

sospinge la marea, il risalire dell’ultima risacca”  

Ora che l’acqua e la polvere sono

la fanghiglia del mio ventre teso

nello sconquasso brutale della materia

avverto la minima immersione del luogo

nelle voci assorbite dal flusso intermittente

graduale del moto, dal riverbero del corpo

l’autonomo scavare dell’ombra sulla sabbia

nell’immersione minerale -vellutata marina

ghisa oltre corrente- bagnando all’impatto

dove l’acqua è impermeabile al gesto

l’interno melmoso del flusso

nell’abrasione dello stacco dall’onda

che spinge verso il centro

nel fondo del nucleo più azzurro. 

 

 

Ricordando che:

 

“Le cose procedono di lato, a copertura 
di un invisibile improvvisando la presenza
perciò esistono nell’usura (come un contatto:
accade solo se cresce nel pensiero, l’idea
del già dentro, prima ancora, deconcentrando
il mezzo, la sutura, lama che non taglia uscendo)
per questo ci si muove a scatto, nel perpendicolare
dell’abbaglio: ché basta spostarsi in contro tempo,
a risucchio entrare nel dettaglio, inceppando il centro
e sciogliere la legge del movimento, tardarsi un attimo
prima del vuoto, scorrersi accanto, improvvisando tutto”

40.

Gli squali mi segano le gambe, quando cerco di nuotare.
Hai mai provato, mi dicono dall’isola, a toccare il fondo?
Laggiù gli squali non arrivano coi loro denti aguzzi.
E allora mi gusto il sapore rotondo della sabbia
quello della melma, dove l’acqua è come un petrolio bianco.
(Continuano a suggerirmi, dall’atollo verbale, prova a scavare
oltre la luce nera, lì troverai la tua perla distesa, come a brillare
per nessun altro). Ho creduto, dunque, nel miracolo del mare.
Dove i pesci abboccano solo per respirare. Ho imparato dal tonno
anche a fuggire la corrente: lui sa come bucare la rete dell’uomo.
Io però mi sento più amo che lenza, non riesco a riemergere.
Ma è così bello lo stesso, mi dico, nuotare da fermo, in apnea
qui nel piombo del mio castello arenoso. Mentre tu che mi hai lanciato
giù dal ponte levatoio, ora scorgi dalla finestra la mia pinna lontana
indicare come una boa, la spiaggia del nostro desiderio alla deriva.
Di solo sole non ci si può abbronzare. Piuttosto tornarsene a prua
come una nave che non sa la sua rotta, e preferisce affondare.
Così semplici granelli, noi uniti nella marea, ognuno di propria acqua
incastrati dentro il porto, io e te medusa e polpo, già stracotti a mezzogiorno.

Ricordando che: 

“Se per contenere la rabbia s’ingabbia la forma
è un concetto di prevaricazione quello che prova
prima del senso c’è il detto e prima di questo la manovra
del pensiero che frena sulla parola, in pratica la congestione
che da silenzio si vuole orale, come per un fare meccanico
di aggiungere pezzi alla demolizione: tanto per dire mattone
briciola o polvere di smarrimento, un palazzo non mantiene
ma si svuota dentro: restringe per poco, la vita in metratura”

42.

a Boris Pasternak  

“C’è un’immagine nell’immagine
ancor più dietro dell’origine:
quella forma fragile, buco di vertigine
vitiligine dell’ombra, corpo fuliggine”

Di sola levità che animosa rientra a sera
che in sé si espande a iosa, cosa melmeggia
a consumare la celebre intimità sonora
sempre più spessa alla nuova tensione, chi è che luce
riordina all’altezza, chi è che pur si tiene, non vuole
misero al tramonto l’infinito sospendersi del sonno?

Si attarda nel rosso, come a sfasciarsi costretta
dall’incertezza che non accede, ma si moltiplica
cielo contro terra, dunque evapora finalmente
la dura cascata della pelle, si ritira in penombra
ché il grumo evidente della terra, si riaccomoda a nord
non cede all’usura, fiore osmotico e limpido, crema d’erba

ma qui tutto ricresce, si fa ghiandola e spora, non smette
piuttosto si evidenzia alle spalle, invaso e conduttura
pienezza che trasporta giù le stelle, le insegna a ritroso
abbaglio pieno e vigoroso di una lama che danza insieme
e più non è luogo, l’ombra-luogo, il moto a fare sconquasso
qui dove, chi in sé vede allora, seppur fragile, l’ultima fissione?

43.

“Perché se ipocondria è un nome
difficile, anche la malattia del dovere
rientrare comunque nella cappa verbale
è il chiamarsi con l’ombra delle cose
ché i nomi sono solo la polvere rimasta
in superficie, non la pista percorribile
piuttosto il giro incompleto della lingua
dove il fondo non è mai il fondo che resta
zitto nel bordo tra i risvolti senza pronuncia”

Una volta il mio nome era diverso.
Si girava dopo un richiamo al mio posto.
Procedeva sicuro tra le carte, si proclamava solo
perfino, come a dire, mi basto da me per sapere.
Ma oggi il mio nome non si chiama. Si lascia citare
da altri nomi, e finanche i soprannomi lo scalzano:
Tonino, Tony, Anto. Poi pure gli pseudonimi
si aggiungono alla messinscena: nome nel nome
mentre Antonio Bux scrive, quell’altro cancella.
Ma chi mi nomina, lo sa che non sono io colui
che risponde, bensì l’altro nome, la lettera mancante?
E, proprio per questo, il mio nome si è depennato.
Tolto a prescindere dalla lista delle domande.
Ora a chiamarmi resta un corpo vuoto, in disparte
impaziente, come in attesa di essere registrato.

 

46.

Si può dire che per quanto non conceda
il tempo la sua lancetta, questo aprirsi
magnetico del mondo, entra a ventosa
comunque nella ripresa, funge da presa
schiacciando la poltiglia, la condensa
dove si fa strato la purezza dei morti;
lì ne rimane un alone, un indizio nel sonno
ma il crollo ottiene sempre dalla scossa
del risveglio, un muro da scavalcare più alto:

non è certezza perciò vedere qualcosa al di là
dello squarcio alla finestra, non è aria che si presta
al respiro della verità, l’osmosi del pensiero:
perché dopo il vero vi è sempre
un altro no ancor più nero
una meccanica del movimento, che bilancia le cose
fino a renderle dispari, fino a scegliere il vuoto
quando non resta che allentare la corda
del sogno, e lanciarsi a strapiombo
senza rincorsa, col parapendio del silenzio 

 

Ricordando che:

 

“Verità è se la nascondi
la tua piccola finestra
un po’ più in dentro dove
la luce acceca solo se riflessa
in altra luce che si spegne
per inerzia su di un lungo orizzonte.

Perché quella verità è se si mantiene
stretta al cardine della porta principale
-e non lasciarla scorrere- ti diranno
dall’altra parte percorrendo nella voce
oltre il muro, il suono verticale
che rende pari passo nel silenzio
schiavo il tempo mentre si tende
il suo contrario, passando per tornare.

Ché di questa verità è cieco il mondo:
della menzogna primordiale
che mantiene accesso un fuoco
pur sapendolo spegnersi domani
quando celebrando la cenere
non dal legno o dalla breccia
della fiamma più insicura o dal ritaglio
di una sera andata storta, trasversale

si dirà che l’essere compare sempre
come vero se per fame o per bisogno
se ne rimane oltre il vuoto a cancellare
quel disegno che non sa di prolungare”

Poesie  tratte da “Sistemi di disordine quotidiano” (Trilogia dello zero – Volume II).

Antonio Bux:  (pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli) nasce a Foggia nel 1982. Sue poesie sono apparse in numerose antologie e in diverse riviste di poesia sia nazionali che internazionali, dato che molti suoi componimenti sono stati tradotti in spagnolo, francese, inglese, tedesco e serbo.  Si occupa costantemente di traduzione dallo spagnolo di scrittori e poeti sia iberici sia latinoamericani. Ha curato la traduzione del libro Ventanas a ninguna parte dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós. Attualmente sta lavorando a una raccolta di racconti e alle traduzioni di un’antologia di nuove voci della poesia spagnola contemporanea.


21 risposte a "La logica del caos. Poesie scelte di Antonio Bux"

  1. Poesie mature. Dentro hanno temi che mi sono particolarmente “cari”, ovvero, che vivo più intensamente di altri: dualismo, cadute (lanci, vuoto, strapiombi), sospensione del tempo, il rosso e perfino un gatto! Una grande capacità di “rilasciare” note liriche dentro una disseminazione di ricerca di significato, con un pizzico di distaccata ironia. Una cerebralismo affascinante, leggero, vaporoso. Grazie per questa magnifica scelta di testi…

    Doris

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  2. Ringrazio Renata (?) e Doris Emilia per gli interventi e i complimenti, e ringrazio Pasquale per tutto, anche per questo piccolo omaggio. Ci terrei a dire solamente che dell’ultima poesia mancano i primi versi, ma non è un problema, ovviamente! E poi aggiungere che queste poesie inedite sono tratte dalle raccolte “Scotomi” – L’inversa voce del respiro (L’orale nastro di Mobius) – e “Sistemi di disordine quotidiano. Le tre raccolte vanno a formare la seconda uscita di “Trilogia dello zero” (Volume II, per l’appunto), alla quale sto limando le ultime cose, e poi spero di poterla editare con calma con qualcuno di buona volontà 🙂 Grazie ancora per l’attenzione e per gli apprezzamenti. Oggi piove, ma di quelle giornate piovose che risvegliano i sensi. È proprio una bella giornata, anche grazie a voi. A presto

    Antonio Bux

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  3. Antonio Bux (ri )genera e (de)costruisce ,attraverso i richiami (complici )ai grandi maestri ,la voce di dentro per aprire i confini del suo territorio .Con stupefacente innovazione rompe gli argini di ogni confine “impaziente, come in attesa di essere registrato”.Complimenti ,caro Antonio.

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  4. Grazie ad Antonio per questa silloge e a Pasquale per avercela proposta. Mi piace l’armonia del tutto, l’essenza filosofica/esistenziale dello sguardo che mi ricorda, e per me questo è un complimento, Magrelli.
    Mandaci, Antonio, i versi mancanti in caso non fossero stati aggiunti.
    Abele

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    1. Grazie Abele per le tue parole. Da attento e navigato lettore, quale sei, hai potuto scorgere rimandi alla poesia di Magrelli, anche in queste dove magari si sente di meno l’influenza, che non posso negare, che esercita la poesia di uno dei miei autori preferiti, come anche altri tipo Sereni, Pagliarani e tanti altri. Mi fa piacere sentire questo tuo rimando. Per la poesia non c’è problema, va bene anche così! Questo lavoro inedito è, come il precedente, molto corposo e pieno di testi. Spero abbia la giusta armonia, nel suo corpo generale. Vedremo, il tempo dirà. Un caro saluto e ancora grazie a te, e anche a Pasquale per la scelta dei testi e per lo spazio dedicatomi.

      Buon sabato a tutti.

      Antonio

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  5. meglio come traduttore che poeta: non capisco tanto entusiasmo da Abele Longo, poi fare i nomi di quei tre poeti che se sono i riferimenti di Bux… mi dispiace pèr lui.

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  6. Ciao Antonio,
    chissa’… forse Carracci Annibale non ti trova abbastanza baroccomelanconico, sembra comunque apprezzare la tua opera di traduttore, ti segue quindi 🙂

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    1. ma sì, mi sto abituando anche io a questi fake senza capo né coda, si divertono con poco, io invece ho problemi ben più gravi, purtroppo, a cui pensare..ma, è già il terzo farlocco interattivo che sbuca in pochi giorni . Non ci ero abituato, prima non mi cagava nessuno, fake o no, evidentemente sto iniziando a prendere quota, finalmente il rumore dei nemici, allora sono vivi, pensavo fossero tutti morti! buon segno ^_^ un abbraccio anche a chi mi vuole male, ma soprattutto ad Abele, che mi vuole bene 😀

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  7. Trovo di cattivo gusto commentare negativamente solo al fine di “scalfire”, senza aggiungere nulla. Curioso poi è commentare dopo un anno esatto dall’uscita del post. Sembrano dinamiche che non attengono alla poesia ma vengono da altri mondi.
    Saluto Antonio e Abele.

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    1. Sì, grazie Pasquale. Tra l’altro mi pare di aver capito chi è il tizio. Capirai, una mezza tacca invidiosa, ma non avevo dubbi…il bello è che davvero c’ha capito poco del sottoscritto, ma cosa pretendiamo dal perenne sottobosco…facciamocene una ragione 🙂 Si firmassero almeno eh, poi la critica, pur spicciola o di parte, ci sta tutta. un abbraccio.

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    1. Caro Gabriele, grazie per il tuo passaggio e per l’apprezzamento! Giusto per la cronaca, queste poesie usciranno in un corposo libro, una specie di trilogia intitolata “Sistemi di disordine quotidiano”, a breve, per un piccolo editore torinese che si chiama “Achille e la tartaruga”. Si tratterà di una specie di prosimetro moderno, dunque un alternarsi di prose poetiche e poesie prosastiche, di frammenti di-versi e trattatelli.

      Se vorrai approfondire, ti lascio la mia mail: anbux82@gmail.com

      oppure potrai trovare, penso da fine gennaio, il libro su IBS

      Grazie ancora e a presto!

      Antonio Bux

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