
In casa di Niko erano cinque, i genitori, suo fratello Mirko e la nonna Tina. Papà Goran e mamma Mara lavoravano in fabbrica e i due figli erano cresciuti con la nonna paterna, una donna slava, bianca e smorta nel cuore, e nerissima nelle vesti. Aveva la faccia di una rana, con gli occhi che sembravano poter fuggire dalle orbite da un momento all’altro. Teneva a bada la casa con diligenza e rigore assoluto. Le stanze dovevano restare chiuse a chiave perché nessuno dei ragazzi potesse entrarvi. La paura di sporcare o rompere qualcosa, Niko ed Mirko se la sono portata appresso fino ad oggi. La madre aveva vissuto tutta la sua vita come ospite in casa propria, senza libertà, senza un briciolo di intimità. In fondo però la presenza della nonna era stata una fortuna per i loro genitori. Quando tornavano dalla fabbrica di sera, entrambi trovavano un piatto caldo pronto in tavola. Per i due ragazzi invece la nonna era terribile, e inesorabile nel suo compito di kapo di famiglia. Lei assisteva alle loro marachelle senza fiatare, o rimproverarli. Continuava indifferente e sicura le proprie faccende domestiche. Restava ferma e solenne a pulire la verdura per la cena con la stessa immobile sicurezza di un giudice. Poi alla sera tornavano i genitori e lei senza scomporsi o lamentarsi più di tanto si limitava a riferire che Niko ed Mirko non erano stati bravi. Ne riferiva con tranquillità e distacco come un solerte poliziotto leggerebbe un mandato d’arresto. Letta la sentenza, ecco che su di loro si scatenava un personale inferno familiare. Erano botte a sangue, ora con la cinghia, ora con un nodoso battipanni di canne, secondo che a casa tornasse più nervoso papà Goran o mamma Mara. I ragazzi cercavano di fuggire. Niko spesso riusciva a farla franca. Mirko invece era una vittima fissa, un po’ perché era meno scattante dell’altro fratello, un po’ perché si ostinava vanamente a negoziare per indurli a ragionare.
In compenso nonna Tina sapeva raccontare le storie. Questo a Niko e a Mirko piaceva moltissimo. Almeno questo hanno conservato di buono di quell’orribile donna-rana che aveva partorito il loro padre. Raccontava storie passate di fatti comici o drammatici, che lei diceva realmente accaduti, magari perché vissuti in prima persona da lei stessa, in realtà, inventati, almeno in parte, attinti alle narrazioni orali del nostro paese ed esaltati dalla fantasia di cui lei non difettava. Preferiva raccontare le storie allegre, chissà se per una specie di inconsapevole compensazione del suo profilo oscuro, ma a loro due piacevano le storie tragiche, meglio se paurose.
Non credo che la nonna abbia mai voluto bene a suo figlio. E’ strano a dirsi, ma si percepiva che provasse per il loro padre un rancore misterioso e inconfessabile. Odiava ovviamente la nuora, di cui era il carnefice. Papà Goran invece subiva la nonna come una presenza naturale ineluttabile. Eppure quella famiglia si era dimostrata per tutti un sicuro fortino.
E’ strano come molte delle storie tristi che raccontava nonna Tina riguardassero suo figlio Goran. Come ad esempio quella della gatta, raccontata tante volte, tutte le volte che in famiglia capitava qualche disgrazia, piccola o grande, come una parabola delle segrete colpe del capofamiglia. Lui un tempo era stato buono e saggio, diceva la nonna, poi d’improvviso, chissà perché, era diventato matto e violento. “Non ci puoi ragionare, subito fa il pazzo”, chiosava a margina della storia. Che motivo c’era di prendersela con i piccoli della gatta di donna Nora? Solo perché veniva ad appostarsi sul nostro uscio nella speranza di ricevere qualche briciola di cibo, lui appena arrivava in casa ogni volta le dava un calcio. Quella volta però non c’era proprio ragione di prendersela con i micini. Anzi speriamo che donna Emilia non venga a fare lite con noi. Scoppierebbe per niente un altro putiferio. Una sera rientra e sull’uscio non trova più la gatta ma uno dei suoi piccoli appena partoriti. E vostro padre che fa? Dovevate vederlo che bello che era il gattino. Nero ma con il petto e il musetto bianco. Un amore. Lui si ferma di colpo. Non dice nulla. Poi un solo colpo, con tutto il piede. E neanche un gemito. Lo ha preso e lo ha buttato nella spazzatura. La gatta non si è fatta vedere più per venti giorni. Poi è ricomparsa inaspettatamente. Lo ha aspettato sull’uscio e quando Goran è arrivato lei si è ritirata chissà dove per pochi secondi. Quando è tornata indietro è stato orrendo. Aveva il gattino in bocca. Si è fermata sull’uscio, lo ha lasciato andare per terra e poi è sfilata via. Dalle nostre parti si crede nei segni. Anche nonna Tina leggeva il destino attraverso i segni. Io non so cosa accade, quale sconosciuto legame unisce le vite alle storie. Si può solo constatare che pochi anni dopo l’ultimo inquietante racconto della gatta, la guerra con i serbi irruppe in casa di Niko ed Mirko col ferro e col fuoco.
A metà della mia corsa per trovare un posto tranquillo a questo mondo non ho ripianti, tranne uno. Non aver accettato l’invito di Paolo a seguire don Tonino Bello nella marcia di Sarajevo, e non perché in questo modo anch’io avrei dato il mio contributo a quella rappresentazione estetica dell’impegno che Kundera chiama con insostenibile leggerezza Movimento. Don Tonino era malato già da tempo a causa di un cancro inesorabile allo stomaco. Quel suo cammino per le strade bucate di una città bombardata nel cuore dell’Europa era stato un viaggio privato. Sono convinto che lui avesse fatto con se stesso e con la fede un intimo azzardo: morire a Sarajevo, portare a termine la sua personale rappresentazione del dolore, compiere nel modo più autentico la sua personale via crucis. Chiesi anche al giornale se potessi andarci per fare un servizio. In quei giorni il Tg3 per esempio aveva assicurato una copertura giornaliera, un collegamento in coda al telegiornale delle 19,00, con un inviato d’eccezione Raniero La Valle. Quanto a me invece non se ne fece nulla.
“E’ possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati? Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere. Sono troppo stanco per rispondere stasera.
Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono”. Se provo a rileggere queste parole del suo diario a Sarjevo, devo ammetterlo, mi suonano retoriche, se le leggo con l’eco interna della mia voce. Dovrei ricordarmi della voce di don Tonino e sentirmela risuonare dentro mentre recita questa sua preghiera.
Era stato operato allo stomaco il 7 dicembre 1992. Per Sarjevo partirono in cinquecento da Ancona un anno dopo. Da diversi mesi Sarajevo subiva l’ assedio serbo. All’arrivo di quella crociata di illusi il fuoco dei cecchini sembrò smorzarsi, sostituito dalla pioggia e dalla nebbia. La “nebbia della Madonna”, venne chiamata. Era l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata. Qualcuno lesse in quello strano silenzio per le strade un misterioso segno di speranza. In realtà si era trattato di un pietoso segnale di lutto. Pochi mesi dopo a Molfetta, nella città dove lui era stato vescovo, don Tonino moriva. Era il 20 aprile 1993.
Io sono nato il 28 giugno del 1960, giorno di San Vito. Anch’io credo nei segni, e questa data ha a che fare con la storia di Niko, nato a Mostar il 23 settembre del 1965. Il 28 giugno 1348 i serbi subirono la loro prima sconfitta. Quella volta furono i Turchi a vincere in una località dal nome attuale e funesto, Kosovo Polje, la piana degli uccelli neri, a nord di Pristina. Loro che si sentivano gli autentici crociati in terra d’oriente erano stati umiliati dai musulmani selgiucidi. Non divenne un giorno da dimenticare, il giorno di San Vito, ma da vendicare, tanto che nessuna altra nazione al mondo ha mai scelto quale ricorrenza nazionale la data di una sconfitta umiliante. Non si riuscirà mai a capire quello che è accaduto in Yugoslavia, sull’altra sponda dell’Adriatico, il nostro “secondo mare”, senza tenere a mente questa anomala celebrazione, questo scarto storico che trasforma il risentimento in orgoglio. In Kosovo, nella triste piana dei corvi, è nato il nazionalismo serbo, e “dove nasce un serbo, lì é la Serbia”.
Gavrilo Princip uccise a Serajevo Ferdinando II, erede al trono d’Austria, proprio il 28 giugno, nel giorno di S. Vito. “Stasera i sogni sono permessi, domani è un nuovo giorno”. La sera del 25 giugno 1991 nella piazza centrale di Lubiana il presidente Milan Kucan proclamava unilateralmente l’indipendenza slovena. La risposta dell’Armata Popolare Yugoslava non si fece attendere: all’Laura del 28 giugno l’esercito intervenne in Slovenia. E’ iniziata la prima guerra europea dalla fine della seconda guerra mondiale. Ancora una volta nel giorno di San Vito.
Guardo la foto scattata con Niko al Bois de Boulogne nel 1989. Lui ha uno splendido sorriso, insieme mostriamo con orgoglio la bandiera con la stella rossa nel centro, e lui indossa una T-shirt con la scritta, Italians do it better. Ricordo che la sua famiglia fosse di religione musulmana, ma dopo tanti anni di comunismo, unica eredità positiva allora, raccontava lui, avevano ormai perduto qualsiasi forma di religiosità. Ho sempre pensato che fosse morto. Ucciso da un cecchino mentre fuggiva per una strada di Mostar o colpito da un granata serba in uno scontro bellico regolare. Perché poi colpito proprio dai serbi? Mi sono sempre domandato da che parte si fosse schierato lui, se dalla parte della sua città, con i musulmani, malgrado lui si fosse dichiarato profondamente laico, o fosse finito invece arruolato proprio tra i filo-serbi, oppure magari assoldato tra gli Ustascia dell’Erzegovina. Di questi ultimi mi ero fatto un’immagine mitica e terribile prima che scoppiasse quella guerra civile, per effetto dei racconti di Toti Mariani, un vecchio cronista del Giorno che ci aveva fatto lezioni di giornalismo alla scuola del Corriere. Abruzzese, aveva partecipato – anche se non ho mai capito come gli fosse capitata quell’avventura – alla guerra partigiana in terra yugoslava, e rammentava spesso, nei suoi frequenti nostalgici walzer della memoria, le ceste piene di bulbi oculari che venivano ostentati come scalpi. Era la specialità degli Ustascia fascisti. Questa volta però, in quel orrendo ballo di San Vito che è stata la guerra nei Balcani, agli Ustascia era capitato di stare dalla parte giusta, nella difesa di Mostar contro quella che la spietata specialità dell’esercito serbo, l’assedio.
Chissà da che parte stava Niko. Ma soprattutto chissà se fosse ancora vivo.
Ogni ponte con quello che era stato il mio mondo nel 1989 è saltato. Come il maestoso ponte di pietra di Mostar, costruito nel XVI secolo e distrutto il 9 novembre del 1993 dal fuoco di un mortaio croato. Una cosa ho imparato negli anni che sono seguiti a quella data, sconvolgenti per il mondo intero, e decisivi anche nella mia vita. Non esiste niente di più vicino alla realtà che i luoghi comuni e i detti popolari. Si sono rotti i ponti. Sì i ponti sono saltati, tra il passato e il presente, nella mia vita, come nella storia che sarà scritti sui libri di scuola. Mostar la ricorderanno ancora perché il bombardamento del suo ponte ha una forte carica simbolica. Mentre io ogni volta che penso a Mostar penso a Niko.
Conservo la foto con Niko a Parigi tra le mie foto più care. Insieme ad un’altra, che però non è mia. E’ una foto che sul retro porta una dedica di don Tonino, Dedicato a Rossella, con la quale mi sono scontrato una mattina nella metropolitana di Milano, trasportati dalle nostre cieche e indifferenti corse, perché ricordi ad entrambi che in questo mondo di segni bisogna cogliere il dono di una traccia di speranza. Con Rossella c’eravamo sposati da poco.
Lei bresciana, non aveva mai sentito parlare prima di don Tonino, eppure da poco aveva cominciato ad apprezzarne la misteriosa carica umana. Anche a Rossella è capitata questa fortuna. Di scontrarsi fisicamente con don Tonino, di inciampare quasi nella sua presenza simbolica gettata dal destino là per caso in un qualunque giorno lavorativo. Questa fortuna a me non è toccata, benché provenissi dalla Puglia, dalla sua terra, addirittura da una delle città della sua diocesi. Io non ho mai incontrato don Tonino Bello. Per questo mi porto dentro il rimpianto di non essere stato tra quei cinquecento a Sarajevo nel dicembre del 1992.
Dead man walking, esclama da un angolo del braccio della morte il secondino. Matt la percorre tutta quella lingua che lo porta in bocca al mostro. Si stende sul lettino, là gli verrà iniettata la dose mortale, e tutto sarà rimesso a posto, anche in questo punto della terra, il più moderno, il più amato, e il più odiato. Suor Helen gli prende la mano e la stringe. Matt le bisbiglia qualcosa. Perdonatemi, vi supplico. Quello che ho fatto è orribile. Quello che sto subendo forse è giusto. Ma voi perdonatemi. Matt piange, come quando era bambino. Matthew Poncelet, l’assassino crudele di due poveri ragazzi è già morto giustiziato. Matt invece gli è sopravissuto per qualche minuto in più, resiste ancora. Matt piange e invoca perdono. Dietro una vetrata i genitori dei due ragazzi assistono allo spettacolo, anche loro sono in lacrime. Suor Helen stringe la sua mano e gli accarezza con amore la fronte gelata dal sudore. Anche lei piange. Ti amo suor Helen, gli sussurra Matt. Anch’io ti amo Matt. Sono riusciti anche a sorridere per un istante, prima che Matt fosse ingoiato da Matthew e scomparisse nel ventre nero di quel mostro. Come la chiameresti questa se non compassione? E cosa saremmo noi, quando qualcuno ci prende alle spalle e ci getta giù nel pozzo nero, se perdessimo pure questa lacrima che ci unisce e ci rende uguali, vittima e carnefice, colpevole e innocente. Lo so è l’unica lacrima a non chiamarsi retorica e per questo dura poco, il tempo che si è restati abbracciati, stretti dalla paura, là giù in fondo al pozzo. Eppure questa è l’unica sicurezza che abbiamo.
Se Niko e Mirko avessero letto Dostojevski non sarebbero usciti vivi dall’inferno di Mostar. Loro invece nella loro infanzia avevano letto e riletto Uomini e topi, un romanzo breve sulla miseria americana nei giorni della Grande Depressione. Grazie a questo racconto Niko ed Mirko sono sopravissuti. Non so come, loro riuscirono a farsi caricare su un camion e a farsi portare in Italia, carne umana tra altra carne umana, merce tra altra merce nel mercato nero di questa inedita tragedia europea. Dimmi George quando avremo un pezzo di terra? Lo avremo presto, Lennie, tu ed io e nessun ci farà più del male. E avremo i conigli, dimmi George, li avremo? Certo che li avremo Lennie. George raccontami allora dei conigli. Niko raccontami allora dei conigli, Mirko glielo ripeteva spesso. Raccontami dei conigli, questo era diventato il loro mantra di salvezza. Grazie ai conigli di George e Lennie, Niko ed Mirko sono fuggiti da Mostar e in un modo o nell’altro sono arrivati in Italia.
Quando guardo la foto scattata nel Bois de Boulogne e rivedo il volto sereno e sorridente di Nico vado in crisi. Tutto passa, molto ci viene tolto, sottratto come in un inesorabile processo di alzhaimer collettivo. Quando è scoppiata la guerra nei Balcani ho sempre immaginato che fosse morto. Ucciso da un cecchino o colpito in un scontro a fuoco in un’operazione militare. Devo dire la verità, questa idea di morte nascondeva anche un’inconfessabile forma di compiacimento: la conoscenza diretta di una persona, per giunta un ragazzo, morto in guerra, mi faceva definitivamente uscire dall’età del carosello, mi ascriveva, per una troppo facile operazione transitiva, ad un epoca tragica ed adulta, che quelli della mia generazione era esistita solo nella lontana e virtuale dimensione della letteratura, del cinema, della storia.
Per Niko era morto. Ed invece era un sopravvissuto. Lui e suo fratello minore Mirko. Dai Balcani approdarono in Italia in ottobre. A San Donà di Piave festeggiavano la Madonna del Rosario, la madonna della vittoria sui turchi nella battaglia di Lepanto. Questa Madonna sontuosa e seducente è venerata lungo tutta quella ferita terrestre che è la nostra costa adriatica. Anche a casa mia la venerano, e per una doppia ragione, due secoli dopo salvò la popolazione dalla peste.
Uno straniero un po’ appestato si sente. E non c’è bisogno di arrivare clandestino in Italia dalla Bosnia in fiamme. Anch’io ho provato questa sensazione quando sono arrivato la prima volta a Milano, e non ero un clandestino, ma il vincitore di una borsa di studio della Rizzoli. La verità però è che sei tu a sentirti così. Non è sempre vero che siano gli altri a farti sentire tale. Quando sono arrivato a Milano è stato come cadere in una malattia che percepisci come contagiosa. La città e i suoi abitanti sembrano fuggirti via, scansarti per evitare il contagio. Si cade in un malessere inconsolabile, ti vengono le vertigini come in un forte stato febbrile. Un giorno, non era un mese che ero arrivato a Milano, seguendo meccanicamente il percorso in metrò da Pasteur a Moscova presi un’uscita che non avevo mai scelto prima, e non sapevo ancora che se non prendevi quella giusta potevi finire in un punto della città anche molto lontano da quello immaginato. Mi ritrovai altrove, catapultato chissà dove, lontano dal rassicurante angolo di Via Moscova che mi portava abitualmente in Via Solferino e che adesso era fuggito via. Se fossi stato gettato in un’altra dimensione, non sarebbe stato meno terrificante.
Questo stato dura giusto una quarantena. In questo periodo sei uno straniero, nel senso più vero. Anche tu sei un dead man walking che cammina per la città con i braccialetti ai polsi. Anche Nico ed Mirko a San Donà dovettero superare la loro quarantena, un’incredibile sorta di rem ad occhi aperti nel quale devi aver vissuto molti incubi, prima di svegliarti, se sei sopravvissuto a te stesso, alla quieta ed abituale vita di tutti i giorni. In quei quaranta giorni Nico ed Mirko dormirono ovunque fosse possibile dormire all’addiaccio, anche nei cassonetti della spazzatura, e mangiarono tutto quello che fosse possibile ingoiare, anche in questo caso grazie ai cassonetti della spazzatura.
Non furono mai fermati per strada da poliziotti o chicchessia, e questa fu la loro vera fortuna. Tutto quello che avevano lo avevano speso per uscire da Mostar, adesso dovevano risalire la corrente. Se ci fossero riusciti, sarebbe stati salvi per sempre. Raccontami dei conigli, ripeteva Nico ad Mirko. Sembrò che non potessero farcela.
Per fortuna talvolta anche l’inferno salva. Niko non sapeva solo raccontare storie, era anche un bel ragazzo, dai lineamenti gentili, gli occhi verdi, le labbra carnose, gli zigomi alti. Seppe subito dove andare e in quale punto meglio posizionarsi lungo la strada che porta a Treviso e poi a Venezia. Cominciò a fare pompini. La prima volta lo fece solo per venti euro. Poi comprese e vi si adeguò a quell’economia del corpo. Arrivò fino a 100 euro a colpo. Il cazzo, come il cibo marcio, mangiato e poi vomitato, da uomini, da cani, come resti di carne decomposta, eppure masticata, orrenda, eppure salvifica. Lo sperma ingoiato, bevuto come l’acqua putrida dentro da una fontana chiusa, come il latte succhiato dal cartone differenziato, come da bottiglie svuotate fino all’ultima goccia lasciata dagli altri. La strada era ricolma, gonfia di trans brasiliani e femminielli della mitteleuropa, non solo lungo i percorsi trafficati, ma fin dentro i portoni dei condomini, con Mirko, talento matematico e futuro ingegnere in Italia, dimenticati per il momento i conigli, provvisoriamente arruolato a fare l’inconsueto pappone di questa insolita organizzazione familiare. Se uno sconosciuto avesse scaricato addosso a Niko ed Mirko tutta la potenza di un mitra, la terra, questo mondo sporco quando è sporco, non sarebbe stato più cattivo, ingiusto e orribile di quanto già non lo fosse.
“Sono riuscito fuggire vivo da Mostar e adesso piscio sangue”. Mirko si raggelò a vedere dall’alto il buco bianco del cesso colorarsi di rosso. I suoi reni erano andati. “Ecco perché eri gonfio ultimamente”, gli fece eco Niko. Per fortuna l’inferno dei senza nome era già terminato da tempo per loro due. Con i soldi guadagnati in quel solo modo possibile, Niko ed Mirko avevano attivato una sorta di economia di scala della sopravvivenza. Avevano trovato un alloggio, si erano sistemati, dati un ordine, erano diventati presentabili. Così avevano potuto trovare anche un lavoro. Mirko come operaio in una officina meccanica. Niko come lavapiatti, prima, e cameriere, poi, in una pizzeria. La vita era dura, ma adesso una vita l’avevano. Avevano persino cominciato a vagheggiare di riprendere gli studi, di ingegneria Mirko, di letteratura, Niko. Solo che inaspettatamente erano ricaduti all’inferno, anche se in un altro girone, quello della malattia, quella vera, quella che se non trovi chi ti opera è finita per sempre e addio ai dolori della mente o dell’anima, quelle che durano quaranta giorni, ma poi se non fai sciocchezze passa tutto, in un modo o nell’altro riesci a sistemare.
Se Mirko non si fosse sottoposto nel più breve tempo possibile al trapianto di reni sarebbe morto. I reni di Niko erano compatibili, e lui era pronto. Adesso bisognava vedere se la sanità veneta fosse pronta per due profughi bosniaci, appena usciti dalla clandestinità.
Mirko era gonfio da giorni, e la sua faccia era diventata gialla. Stava proprio male. Non poteva più lavorare e Niko dovette sopperire a questa riduzione della forza-lavora. Prima che Mirko si ammalasse facevano i turni e si davano il cambio: l’uno studiava la mattina e lavorava dalle 18,00; l’altro faceva il contrario. Adesso avrebbe lavorato solo Niko, fino a quasi venti ore al giorno: la mattina in una ditta di pulizie e dalla sera continuando ad andare in pizzeria. Anche Niko non avrebbe potuto resistere molto. Stava ritornando ad essere un dead man walking, al limite estremo delle forze e della dignità. Mirko invece si era adattato al ruolo di donna di casa, così che Niko non dovesse almeno preoccuparsi dei pasti. Questi arrivò tuttavia quasi ad odiare suo fratello e la sua malattia. I bisogni fisici sono così, elementari, universali e spietati. Mirko sì era malato ma Niko non gliela faceva più a reggere quel ritmo.
Nel frattempo entrambi si erano inseriti in qualche modo a San Donà. Un posto dove vivere al mondo in qualche modo lo avevano trovato anche loro. Avevano fatto delle conoscenze, qualcuno che si sarebbe potuto chiamare amico se avesse teso loro concretamente la mano. Conobbero per esempio Michele Cozzi.
Michele è un tipo oscuro, e non per l’anima ma per il corpo. E’ piccolo, ha le braccia troppo corte e la testa troppo grande. Pende un po’ a causa di una forte cifosi, che lo fa sembrare gobbo. E’ un altro piccolo Quasimodo, con gli occhi vivaci come biglie, discreto e spedito nel curare i suoi affari. Fa l’infermiere all’Ospedale di Udine, reparto malati terminali. Nel suo lavoro è diligente, garbato e compassionevole. E queste sue qualità non gli impediscono di arrotondare lo stipendio grazie ad una linea diretta, rapida ed esclusiva con una della agenzie funebri della città: centro euro a chiamata conclusa. Michele convive senza scosse con queste due dimensioni, come il giorno e la notte, come le erotine e le agonine, ormoni che producono entrambi un’istantanea, intensa e breve sensazione di piacere, malgrado le prime siano bagnate di vitalità, le altre preannuncino l’ultimo respiro. Michele non fa simpatia, neppure tra quelli che frequenta, un gruppo di adulti, molti dei quali in attesa di sistemazione coniugale, della parrocchia Sacro Cuore. Su di lui però si può contare. E’ lui che non fa mai affidamento sugli altri, ne diffida, ne ha quasi paura. E’ misterioso e reticente su ogni cosa che lo riguardi, anche sui più insignificanti fatti della vita. Così alla fine sono gli altri a diffidare di lui, chiudendolo ai margini di un cerchio di malintesi.
“Non è vero che mi sono fidanzato”, lo ha negato fino all’ultimo. “Ma se ti abbiamo visto passeggiare mano nella mano di Lucia Bassi, quella carina”. Michele ha confessato la sua relazione solo quando ha spedito l’invito al proprio matrimonio. Allora, per un effetto di espansione elastica, ha invitato tutti quelli del gruppo, anche quelli conosciuti appena, e poco o niente frequentati.
Fece così anche con Mirko e Niko. All’inizio e per lungo tempo si annusarono con sospetto e diffidenza. Loro erano capitati negli ambienti della parrocchia perché erano due immigrati con molti bisogni, in più Mirko era già da tempo gravemente malato. Insomma erano due disperati e le parrocchie gira e volta, alla fine e in un qualche modo restano utili per i disperati. I primi tempi Michele non disse loro nemmeno che lavoro facesse. Il loro rapporto si schiuse per caso, una sera che Michele e alcuni del gruppo capitarono nella pizzeria dove Niko serviva ai tavoli. Taciturno e timido come sempre, quella sera Michele fu anche imbarazzato dal farsi servire da uno che conosceva. Niko fu con loro molto gentile e generoso, come lo era di norma con tutti, per guadagnarsi una mancia in più. Lui invece si era sentito istintivamente in debito e per effetto della sua naturale inclinazione all’equivalenza etica nei rapporti umani, quando finirono di cenare e lasciarono il locale, gli si avvicinò e con la sua vocina nasale e intrigante da ruffiano gli disse, “Ciao, io faccio l’infermiere a Udine, se hai bisogno puoi chiamarmi a questo numero”, e gli consegnò il suo bigliettino da visita. Michele è un indian giver. Ne ho letto una volta su un libro. Per la cultura degli indiani d’america è fondamentale questa generosità utilitaristica. Insomma Michele nel suo modo di essere cattolico, assomigliava ad un indiano americano.
A Mirko e Niko l’incontrò con Michele portò fortuna. E’ stato grazie a lui se Mirko oggi vive ancora. Dopo quell’incontro in pizzeria, Niko ebbe modo di parlargli della malattia di Mirko. “Non preoccupatevi, vi aiuterò io”. Un giorno dette loro appuntamento in ospedale e li presentò al primario della clinica che avrebbe dovuto fare il trapianto. Prima però bisognava assicurarsi della compatibilità di Niko. Se questo esame non avesse avuto esito positivo, addio, non ci sarebbe stata più alcuna possibilità concreta che si trovasse il rene di un italiano fresco per un immigrato.
Grazie a Michele. Grazie a Niko. Questa parola grazie è il lascia-passare nella terra degli umani. Anche il boia un giorno avrà dovuto dire grazie a qualcuno. Questa parola ci rende umani, persino quando pure in un gesto abituale, di umano non c’è più nulla. Non c’è niente di pietoso in questo. Ancora una volta è la necessità ad imporsi, così come un giorno ha mosso la mano del boia. La necessità talvolta può essere più utile della libertà. Senza questa necessità Mirko e Niko non sarebbero riusciti a fuggire via da Mostar. Adesso dovranno attraversare un altro inferno. E anche questa volta hanno avuto la necessità dell’aiuto di qualcuno.
“Niko è compatibile”, Michele stesso lo annuncia ai due fratelli. E’ strano ma lo fa, rimanendo dietro la sua scrivania di lavoro in ospedale. Ha le braccia allungate e appoggiate sul truciolato color noce, le mani chiuse, il corpo teso in avanti e la testa penzoloni. Ha la posa di un bevitore appoggiato al bancone di un bar. Sembra che non regga la sua grossa testa, ed invece è contento, anzi soddisfatto. “Gliela abbiamo fatta”, gracchia con orgoglio. “Il tempo di percorre tutte le tappe del protocollo previsto per il donatore, e tempo un paio di mesi il trapianto si può fare. Siamo stati fortunati ma il merito principale è del primario Tiraboschi che si è messo a nostra completa disposizione. Poi, bisognerà sdebitarsi, ma per il momento non ci pensiamo”. Michele non fa nulla gratuitamente. Ma è andata bene lo stesso, Un modo per sdebitarsi Mirko e Niko lo troveranno.
Intanto sono stati sbattuti per due mesi dentro un film fanta-horror. Hanno vissuti legati a lettini come alienati, sottoposti ad ogni tipo di controllo come cavie rapite da un’altra dimensione, moto-trasportati avanti e indietro come ostaggi rapiti di cui bisogna far perdere le tracce per tutto l’interminabile corridoio sotterraneo dell’ospedale di Udine. Non avevano più paura dei cecchini di Mostar. Non cadevano bombe su Udine, anche se quel corridoio aveva proprio l’aria di un rifugio anti-aereo, e non è un caso che qui hanno girato le scene di un delitto. Segregati in quella metropolitana della malattia, attraversata da fulminei sbuffi di aria calda o da lancinanti correnti gelide, imbiancata e illuminata come può esserlo solo come un ambiente di sterminio, i due fratelli ebbero paura. Più che a Mostar. Dalla loro città in rovina erano riusciti a fuggire. Qui dentro invece erano stati catturati. Chiusero gli occhi, attesero e pregarono.
Quando hanno riaperto gli occhi c’era la luce. Non è mai stato sperimentato l’ingresso nello star-gate verso un mondo sconosciuto. E’ stato fatto il trapianto di un rene tra due soggetti compatibili, due fratelli. Tutto è andato bene. Mostar in questo momento è veramente alle loro spalle, e per sempre. Sarà per questo che appena hanno ripreso conoscenza entrambi hanno provato un profondo senso di nostalgia. “Mamma” è stata la prima parola pronunciata da Mirko. Incomprensibili invece sono rimaste quelle pronunciate da Niko nella sua lingua. Anzi, un vero e proprio discorso, un monologo o il dialogo definitivo con una persona che non c’è più, che ci ha lasciato per sempre, ci ha abbondanti soli per le strade di una città sconosciuta. Piange Niko mentre parla da solo. Si comprese solo la parola Stari, Stari Most, il vecchio ponte dove erano cresciuti, il palcoscenico sul quale avevano vissuto la loro infanzia. Perduta, distrutta per sempre, nella vita reale e nelle loro esistenze. Al termine del loro viaggio, dimenticata.
Niko non aveva più passato. Mirko invece aveva Niko. Lui era il suo passato ed a lui si aggrappò per non impazzire dopo essersi salvato dalla morte a causa di quel piscio di sangue. Il suo presente Mirko invece faceva fatica a riconoscerlo, perché allo specchio c’era un altro ragazzo. Col tempo il trapianto trasformò il suo volto. Non ci fu crisi di rigetto ma dovette fare i conti con un’altra faccia, allargata ed appiattita, con i tratti orientali a causa del gonfiore naturale. Una faccia da giapponese. Non fu affatto bello. Anche se d’istinto a Niko veniva da ridere nel vederlo così mutato, col tempo Mirko cominciò a stare sempre meglio e non ci volle molto che anche lui imparasse di nuovo a ridere. Per molto tempo da allora non pensarono più al futuro. Adesso stavano bene, entrambi.
Quando guardo la foto mia e di Niko a Parigi nel 1989 penso sempre che lui sia morto in Yugoslavia. Di Mirko poi non ho mai saputo nemmeno che esistesse, almeno questo è quello che mi ricordo. Non so se Niko nei giorni allegri della nostra ricreazione mi abbia mai parlato del fratello più grande, più saggio e maturo, quello persino più preparato politicamente, che a differenza sua gli piaceva leggere ma non scrivere, che amava la matematica e di lavoro avrebbe voluto fare l’ingegnere. Non ha mai saputo per esempio che lui ha rischiato di morire, ma a causa di una malattia, non per la guerra, come sarebbe stato più prevedibile nel suo caso. Che invece è stato salvato grazie ad Michele l’indiano, e a suo fratello Niko che è nato per salvare tutti. Adesso Mirko vive e lavora ad Ivrea. Si è laureato in ingegneria e si è anche sposato con Miriam, una ragazza di Milano.
Niko Duric oggi è un giovane scrittore esordiente, e di un tipo nuovo nel nostro paese, addirittura esemplare per il suo percorso di formazione. Duric è tra i primi, se non il primo in assoluto, scrittori stranieri in lingua italiana. Questa è un grande novità nella storia della letteratura italiana. Il suo nuovo libro, il secondo della sua produzione, Morire a rate, raccoglie in cento pagine serrate e intense la sua esperienza di profugo, di immigrato, di italiano naturalizzato. Sta nascendo una nuova generazione di cittadini e di intellettuali. Che l’Italia non ha mai conosciuto prima. Ho letto queste righe sul Corriere. Sono a Potenza, seduto al bar con un collega, nella pausa pranzo del nostro lavoro, del mio nuovo lavoro. Leggo e resto senza parole. Ho provato invidia, lo ammetto. Non è facile essere messi a confronto di botto, così senza spiegazioni, fuori da ogni contesto, strappato dal proprio scenario, come fatto salire su una pedana segnaletica di fronte ad una vetrata, oltre la quale non si può vedere, ma si può essere visti, nella stanza ricognizioni di una questura, anonimi, l’uno opposto all’altro, non per essere riconosciuti, per essere giudicati. Il bilancio della tua vita estratto automaticamente, come lo scontrino del bancomat. Senza appelli, senza commenti. Quello è, punto e basta. Sì, ho provato invidia. Ma è durato poco. Devo ammettere anche questo, e ne sono stato contento. Niko è vivo. “Questo lo conosco”, ho detto al mio collega Miro, così senza particolare trasporto, come si commentano le notizie lette in fretta sul giornale. “Guarda, è da apprezzare. Ha fatto molta strada. Pensa che lo credevo morto. Lui è di Mostar. L’ho conosciuto a Parigi quando facevo politica. Certo, sarà stato aiutato dal fatto di essere un immigrato. Ma lui è proprio bravo”. Avrei potuto sminuire la sua immagine e sentirmi meglio di fronte a Miro, che in realtà era uno spettatore disinteressato. Il successo di Niko Duric invece me lo misi addosso come un abito usato, per farmi bello, bello a me stesso, neppure di fronte a Miro, come si fa tra persone di famiglia, per lenire ciascuno le ferite dei propri insuccessi con le medagliette degli altri.
Fu come consegnare a Niko lo scontrino in rosso della mia vita. In quel momento toccava a Nico Duric salvarmi, pagare il debito dei miei fallimenti. Niko aveva fatto molto di più. A lui, io e Laura, avevamo consegnato in quello strano giorno d’estate a Parigi il nostro segreto impegno sentimentale. Avevamo consegnato a lui le nostre tre ultime volontà. Avevamo scelto lui come notaio dei nostri sogni. A lui ci eravamo consegnati, a lui, garante e attore insieme a noi.
E’ finita un’altra giornata di lavoro. Ho la mente svuotata a causa dei miei pensieri, troppi e troppo diversi. Non vedo l’ora di gettarmi sul letto. Torno a casa in auto, la radio è accesa. La musica si adegua perfettamente al mio stato d’animo. Mi porta via per un po’. E’ un sollievo. La chiamano musicofilia. Non lo so. Forse, molto più semplicemente, anche la musica ci rende uomini. Ci fa uscire per tre minuti dal nostro stato naturale. Usciamo fuori da noi stessi, diventiamo spettatori della nostra vita proietta sullo schermo virtuale della nostra immaginazione. Per tre minuti riusciamo a tenere a bada la bestiale paura di essere delle cose inanimate, mosse alla vita da altro. Sento questa musica e anch’io non faccio più progetti.
Una lettura che inchioda e libera, nella quale il respiro accompagna con il suo alterarsi l’ingresso in un’altra storia che sembra continuare quella da cui si è appena usciti.
Un caro saluto a Pasquale.
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Un caro saluto a te Vincenzo. E grazie.
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Caro Pasquale, molto bello questo capitolo. Peccato che sia rimasto inedito, non solo per il riferimento a don Tonino 🙂 ma soprattutto perche’ avrebbe aggiunto elementi importanti alla vicenda di Nico che, a meno che tu non abbia preferito cosi’, non viene sviluppata nel romanzo.
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Grazie Abele. L’eliminazione di questo capitolo è stata una scelta dell’editor, che io ho accettato per motivi editoriali. Tuttavia, hai ragione, arricchisce la storia con la vicenda di Niko.
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faccio fatica, faccio davvero fatica a comprendere perché un editor decida di lasciare fuori un capitolo come questo. sicuramente, non avendo letto il libro mi sfugge qualcosa, ma se così non fosse, con la mia proverbiale lapidaria pacatezza non potrei esimermi dal chiosare “fanculo i motivi editoriali”…
beh, che aggiungere? grazie (il il lascia-passare nella terra degli umani) a Pasquale Vitagliano (e ad Abele) per aver voluto condividere qui le storie di Matt/Matthew, di Niko e di Mirko.
notazioni tecniche: forse direi “giusto” al posto di “giusta in “Questo stato dura giusta una quarantena”; poi c’è un refuso “al primaria” ohi! ecco! che sia per questo che l’editor…
: ))))
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Grazie ancora. Anche per l’editing collettivo.
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accidenti ! come scrivi bene e con passione, quasi ti invidio! Emerge rara sensibilità intelligente, grazie P.V. per questo capitolo unico!
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