Fausta Genziana Le Piane: « La bellezza è potente », Jean Genet

Jean Genet

« La bellezza è potente »

JEAN GENET, CATTIVO RAGAZZO DELLA SCENA LETTERARIA FRANCESE

Jean Genet è considerato un autore simbolo di tutto il Novecento: scrittore, poeta, drammaturgo e filmmaker, con il suo teatro ha rivoluzionato la forma stessa della tragedia moderna. Nella sua opera realtà e finzione sono strettamente legate. Nato nel 1910 a Parigi da padre sconosciuto, la madre muore quando lui ha sette mesi. Così inizia la vita dello scrittore forse più déraciné del Novecento francese. Sotto il nome dell’orfanità coatta, dello spaesamento del cuore, l’infanzia di Genet nasce come perdita del centro materno. E’ affidato ad una famiglia adottiva del Morvan in cui cresce fe-lice. Riservato e taciturno, è a questo periodo che risalgono i suoi primi turbamenti maschili nei confronti del piccolo Lou Culafroy — che diventerà più tardi Divine, eroe e poi eroina di de Notre-Dame-des-Fleurs — e nei confronti di uomini più adulti. Commette il primo furto a dieci anni ed è
l’atto fondatore della mitologia di Genet che, biasimato per il suo atto, lo trasforma in modo tutto esistenzialista santificandolo, erigendolo a simulacro del suo vizio, rivendicando così un’asocialità profonda. Lascia il Morvan per prepararsi a diventare tipografo, ma è licenziato a causa di un furto. Senza fissa dimora, è recluso nella colonia penitenziaria di Mettray, dove si cristallizzano le sue inclinazioni omossessuali e tutta la liturgia delle dominazioni/sottomissioni, la gerarchia maschile e virile, la feudalità brutale che secondo lui ne deriva. Il sogno della scrittura, per il carcerato Genet, rappresenta una via di fuga, un mezzo – forse il solo – per gettarsi definitivamente oltre le sbarre. Quasi tutti i grandi libri di Genet sono stati scritti o concepiti in prigione. Soprattutto, verrebbe da dire, sono libri scritti per uscire dalla prigione. Scrivere – confessa Genet – è un gesto estremo, ed è forse l’ultimo appiglio che rimane quando si sa di aver tradito tutto e tutti. La scrittura è ciò che ci resta, quando siamo stati cacciati dal regno della parola data. Lascia Mettray per arruolarsi nella Legione straniera. Scopre per la prima volta l’Africa del Nord e il Vicino Oriente, che lo impressio-nano fortemente per le passioni che li caratterizzano, il carisma volutamente virile dei suoi abitanti, le sofferenze dei popoli oppressi dalla Francia colonizzatrice. Ritornato a Parigi, vive di piccoli furtarelli (tra cui quello di libri) e frequenta parecchie prigioni, tra cui quella di Fresnes dove scrive le sue prime poesie e qualche tentativo di romanzo. Per odio nei confronti del proprio paese, il suo pensiero politico in questo frangente si attesta su posizioni collaborazioniste e filonaziste; è attratto dalla Gestapo e dalla Milizia e diviene amante di un ex SS francese. Genet è un perfezionista, un eterno insoddisfatto, un ossessionato dalla bellezza della parola. Lui, che sacralizza il gesto e il significato dell’atto, accetta la parola se non quando è bella, potente, di razza. I suoi primi testi, pubblicati a sue spese, gli assicurano una prima notorietà. Censurati, perché giudicati pornografici, sono distribuiti di nascosto. Qurelle de Brest è un romanzo pubblicato nel 1947 in un’edizione clandestina corredata da 29 litografie di Jean Cocteau. Si tratta dell’unica opera autenticamente romanzesca, cioè opera di fantasia senza implicazioni autobiografiche, composta dall’autore; tutta la struttura è composta seguendo una simbologia cristologica e fortemente masochistica. La storia è ambientata nel porto della città di Brest, in Bretagna, a cui vengono associati i marinai, il mare e l’omicidio; personaggio centrale è uno di questi marinai. Il libro ha successo grazie a Rainer Werner Fassbinder che ne ha tratto nel 1982 un film dallo stesso titolo. Proprio Reiner Werner Fassbinder confessa: ‘Querelle de Brest di Jean Genet è forse il romanzo più radicale della letteratura universale per quanto riguarda il contrasto tra azione oggettiva e fantasia soggettiva.’

È estremamente eccitante e emozionante scoprire, prima lentamente, poi con crescente insistenza, il rapporto esistente tra questo mondo estraneo con le sue leggi e la nostra realtà, naturalmente anche soggettiva; scoprire come questo mondo sottragga alla nostra realtà delle verità sorprendenti, perché ci costringe a processi di conoscenza e decisioni che, per quanto dolorosi possano essere, ci avvicinano alla nostra vita – e non importa se traspare il pathos. E questo significa: ci avviciniamo alla nostra identità. E solo chi ha raggiunto una totale identità con se stesso non deve più avere paura. E solo chi non ha paura può amare al di fuori dei valori. Ecco il traguardo estremo di ogni fatica umana: vivere la propria vita. Le Journal du voleur (Il diario del ladro) descrive i suoi vagabondaggi adolescenziali fuori di Francia, nell’Europa degli anni trenta, racconta la storia di un sé stesso ladro, omosessuale e “marginale”. Incipit: L’abito dei forzati è a righe bianche e rosa. Se l’universo, di cui mi compiaccio, io per comandamento del cuore lo elessi, la facoltà ho almeno di scoprirvi gli svariati sensi che voglio: “ebbene, uno stretto rapporto esiste tra i fiori e gli ergastolani”. La fragilità, la delicatezza dei primi sono della medesima natura della brutale insensibilità dei secondi. Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo. Sempre del 1947 è Les bonnes (Le serve): Les Bonnes di Jean Genet sono uno straordinario esempio di continuo ribaltamento fra l’essere e l’apparire, fra l’immaginario e la realtà (Jean-Paul Sartre). In questa pièce – una favola – l’atmosfera è impregnata di amore e di odio, di tirannia e di schiavitù. Da un lato c’è “la signora”, dall’altra le due “serve”, Solange e Claire, l’una complementare delle altre, che desiderano – senza riuscirvi – avvelenare la loro padrona. Per un sottile gioco di slittamenti e spostamenti, Claire si sostituisce alla padrona e beve il veleno che le avevano destinato, mentre l’altra, Solange, assume il ruolo della criminale celebre. Fascinazione del crimine (L’assassinio è cosa…inenarrabile!), strana bellezza di un linguaggio ieratico, autodistruzione dei due personaggi: è il male allo stato puro, in tutta la sua tragica illusione: Ho servito. Ho fatto i gesti che occorrono per servire. Ho sorriso alla Signora. Ho piegato la schiena per rifare il letto, l’ho piegata per lavare il pavimento, piegata per pulire la verdura, per origliare alle porte, per appiccicare l’occhio ai buchi delle serrature. Ma adesso me ne resto dritta. E salda. Sono la strangolatrice. La Signorina Solange, quella che strozzò sua sorella! Tacere? La Signora è davvero delicata (p. 42). Dice Jenet del ruolo del teatro a proposito di questo lavoro: Sacri o no, queste serve sono dei mostri, come noi stessi quando sogniamo d’essere questa o quell’altra cosa. Senza saper dire di preciso che cosa sia il teatro, so quel che gli nego di essere: la descrizione di gesti quotidiani visti dall’esterno (p. 5). Le Miracle de la rose (Il miracolo della rosa) narra gli anni di prigione nella colonia di Mettray e la sua fascinazione per un assassino. Notre-Dame-des-Fleurs (Nostra Signora dei fiori) evoca l’infanzia e le creature ambigue nella notte degli omosessuali della Parigi di prima dell’anteguerra – si tratta probabilmente del primo romanzo che mette in scena le avventure di un travestito. Genet è all’apice della carriera, frequenta Henri Matisse, Brassaï, Alberto Giacometti, Jean-Paul Sarte, Simone de Beauvoir. Intraprende con successo la carriera di drammaturgogo e le sue opere, dirette dai più grandi registi, sono dei successi. In Italia il primo a rappresentare Les nègres (I Negri), con attori non di colore, è stato nel 1969 Gennaro Vitiello con il Teatro Esse, in cui recitava Leopoldo Mastelloni nel ruolo della regina. In Pompes funèbres (1947), Genet scrive: i joyeux, i soldati delle compagini disciplinari, chiamano anche « occhio di bronzo » quello che vien detto « il buco », il « mazzo », l’ « anello », il « fondo », il « foro », il « paniere. (…) (p. 31). La venerazione che provo per questa parte del corpo e l’enorme affetto che ho rivolto ai ragazzini che mi permisero di penetrarvi, la grazia e la gentilezza del loro dono, mi obbligano a parlare di tutto ciò con rispetto. (…) la felicità che lui mi regalò quando la mia faccia affondava in una peluria che il mio sudore e la mia saliva inumidivano, e si incollava in ciuffetti che dopo l’amore si asciugavano e rimanevano rigidi. (pp. 31-32) (…). Amavo la violenza del suo uccello, il suo fremito le sue dimensioni, i riccioli dei suoi peli, la nuca, gli occhi di quel ragazzino e il tesoro estremo e tenebroso, l’ « occhio di bronzo », che mi concesse solo molto tardi, all’incirca un mese prima della sua morte. (pp. 31-32) Vi propone anche una visione omo-erotizzata di Hitler e sui rapporti tra la violenza nazista e l’attrazione sessuale. Il Führer rantolava dolcemente. Paulo fu felice di dare felicità a un tale uomo. Pensò : « ne vuoi ancora? » e spingendo: « Ecco, piccolo mio. » Sollevando ancora i fianchi, senza uscire dal buco: « Ancora una botta…Ti piace ? Prendine ancora. Adotta il punto di vista della Milizia e la fascinazione di quest’ultima sviluppati dal nazismo. Amo questi piccoli ragazzi la cui risata non fu mai chiara. Amo i miliziani. Penso alla loro madre, alla loro famiglia, ai loro amici, che persero entrando nella milizia, La loro morte mi è preziosa. Per i suoi detrattori, Genet è un sostenitore del regime nazista o del collaborazionismo, per i suoi ammiratori, ha scritto questo lavoro per elaborare un lutto poiché il suo amico, Jean Décarnin, comunista resistente, è stato appena assassinato da un miliziano. Pompes funèbres si apre con il funerale di Décarnin. Decide di scrivere un libro dal punto di vista di colui che ha ucciso il suo amico. Provocatore e scandaloso, cerca di far nascere nel lettore, dopo la guerra, una presa di coscienza estrema della straordinaria seduzione del male. E’ d’altra parte la ragione per la quale Cocteau (che lo definì il più grande scrittore francese) e Sartre vedono in lui un moralista mentre Mauriac si accontenta di qualificarlo da escremenziale. Mostra alla società lo spettacolo del suo proprio vivere nel fango: vede nella sconfitta del 1940 un’occasione di invertire i termini di questa violenza, di fare del carnefice una vittima spregievole. D’altronde, Pompes funèbres è un’analisi dei fantasmi morbosi che genera l’insieme delle apparecchiature militari, con uno smottaggio complesso di questi fantasmi poiché la Milizia e il vocabolario erotizzano i collaboratori. Cocteau lo salva dall’ergastolo (Genet ruba un manoscritto originale in una libreria di via Bonaparte) e Sartre scrive un’opera su di lui (Saint Genet, comédien et martyr, Santo Genet, attore e martire), elogiando la sua filosofia esistenzialista. Questo libro deprimerà Genet e gli impedirà di scrivere, secondo ciò che lui stesso dice, per circa dieci anni, tanto la sua meccanica cerebrale vi é scorticata. Intraprende la carriera di drammaturgo e le sue opere, dirette dai più grandi registi, sono dei successi. Così, Roger Blin dirige Les Nègres, poi Le Paravent (Il paravento) riprende violentemente posizione contro il colonialismo: la Francia è in piena guerra d’Algeria. Genet è sempre più impegnato. Alza la voce contro la dominazione occidentale, lo stato deplorevole nel quale la Francia abbandona le sue colonie. S’impegna in molte lotte, spesso di estrema sinistra : le Panterenere (che incontra e sostienefin dal 1970) negli Stati Uniti, i Palestinesi dell’OLP ed è il primo occidentale a entrare a Chatila. In Quatre heures à Chatila (Quattro ore a Chatila), il suo principale testo poli
tico, Jean Genet porta la sua tragica testimonianza su quanto avvenne nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, a Beirut, nel settembre 1982: duemila persone tra donne, bambini e vecchi, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi, furono massacrate e mutilate dalle Falangi libanesi e l’Esercito del Libano del Sud, con la complicità dell’esercito israeliano. Redige un diario intitolato Le Captif amoureux (Il prigioniero innamorato), pubblicato nel 1986, alcuni anni dopo la sua morte. Allo stesso tempo, il suicidio del compagno, Abdallah Bentaga (che gli ispira la poesia Le Funambule, Il funambolo), e la dipendenza dai barbiturici, degenerano la sua vita vagabonda. Genet, fino alla fine, vive in camere di sordidi hotel, spesso vicini alle stazioni, viaggiando solo con una piccola valigia piena di lettere degli amici e di manoscritti. Le lotte politiche l’occupano fino alla fine della sua vita, sistematicamente schierato dalla parte degli oppressi, dei deboli, dei poveri. Il 15 aprile 1986, solo e consumato da un cancro alla gola, lo scrittore fa una brutta caduta durante la notte nella camera 205 del Jack’s Hôtel, avenue Stéphen-Pichon, 19, a Parigi e muore. Vicino al corpo, il dattiloscritto in seconda bozza di Un captif amoureux (Un prigioniero innamorato). E’ sepolto nel vecchio cimitero spagnolo di Larache in Marocco, secondo il suo volere. Genet è anche regista: Un chant d’amour (Un canto d’amore), è un film maudit, unico cortometraggio in bianco e nero da lui diretto, realizzato nel 1950, quasi in clandestinità. E da allora il film circola in pochissime copie, colpito dalla censura, accusato di pornografia e fatto circolare solo tra pochi collezionisti. Il film è pura espressione del mondo poetico dello scrittore al di là di ogni provocazione omosessuale: per lui la prigione è il luogo privilegiato del desiderio, dove la presenza di carnefici e vittime, di segregazione e di violenza, acuisce i sensi appagando come non mai ogni fantasia sessuale. Una guardia spia nelle celle dei carcerati e li vede masturbarsi: essi sanno di essere controllati così è come se diventassero degli intrattenitori di un film. In campo teatrale, nel suo recente saggio, Jean-Bernard Moraly, (Le Maître fou. Genet théoricien du théâtre (1950-1967, Saint Genouph : Nizet, 2009) afferma che Genet stabilisce una nuova morale « i cui valori sarebbero puramente estetici », una forma inedita di « santità » (p. 29). Parlando degli altri, Genet si dipinge come colui che aspira a scrivere un classico, seguendo una stretta morale dettata dalla scrittura stessa (trad. a cura di Fausta Le Piane). Il critico sottolinea giustamente che i temi in Genet sono anteriori all’opera di Sartre che ha potuto benissimo ispirarsene per comporre il proprio testo (p. 32). Recentemente Agnès Vannouvong con il suo saggio Jean Genet, Les revers du genre, Les Presses du réel, Paris, 2010 intende gettare una nuova luce sugli studi di questo autore. Confronta le opere di Genet, in modo particolare certi romanzi e certe opere teatrali ed estetiche, alle teorie elaborate dai gender studies (o studi sul genere), che, come vengono chiamati nel mondo anglosassone, rappresentano un approccio multidisciplinare e interdisciplinare allo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere: Butler, Wittig, Sedgwick, Foucault…assieme a critici che già avevano accennato a questo tipo approccio: François Cusset o Léo Bersani.

Fausta Genziana Le Piane

Jean Genet, Pompe funebri, Il Saggiatore, 2007
Jean Genet, Le serve, Einaudi, 1971, Introduzione di Jean-Paul Sartre, Traduzione di Giorgio Caproni


3 risposte a "Fausta Genziana Le Piane: « La bellezza è potente », Jean Genet"

  1. Grazie a Fausta Genziana Le Piane per questo omaggio a Jenet, un grande del Novecento, il cui valore non è stato riconosciuto per quanto merita. Colpisce di Jenet come il suo lavoro sia stato sempre fedele alla sua vita, come della sua stessa vita abbia fatto un’opera d’arte. Basso di statura, calvo e con un corpo muscoloso e compatto, era in realtà una persona assai riservata. Nella stanza dell’hotel dove è morto ci abitava da anni, ma neanche il suo editore, Gallimard , sapeva come arrivarci (sul suo passaporto aveva l’indirizzo di Gallimard). Questa stanza d’albergo è stata descritta dall’apparenza di una piccola “cella”, che conteneva pochi oggetti personali.

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  2. ottimo saggio su un autore da non dimenticare. di Genet mi ha sempre affascinato la scrittura, ovvero il gioco a far emergere le possibilità del possibile, anche le più crude, attraverso l’estetica della parola, una bellezza formale che in un certo senso richiama il canto delle sirene (eh, sapete cosa mi viene in mente, per rendere l’idea? quel vecchio Carosello con Virna Lisi il cui tormentone era: “con quella bocca può dire ciò che vuole!”). soprattutto per questo, ancora oggi non riesco a non sorprendermi tornando a sfogliare le pagine di Notre-Dame-des-Fleurs.
    ecco perché in un contesto socio-culturale come quello contemporaneo, dove trionfano vittimismo, buonismo e rassegnazione, è quasi inevitabile che un autore come Genet rimanga ai margini del panorama letterario: troppo vitale, troppo politicamente scorretto per entrare nei salotti bene degli intellettuali “progressisti”. basti pensare a come il buon Genet dopo aver sfoggiato il seguente passo quasi aforismatico “Si comincia con una superstizione da niente e si cade tra le braccia di Dio” (già di per sé indigesto), s’affretti a rincarare la dose facendo chiosare a Notre-Dame: “proprio così, nel letto del parroco”.
    : ))

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