Voce del Paesaggio, poesie di Emilio Capaccio, Edizioni Kolibris, 2016

L’Essenziale tintinna/ non chiede parole!/ Pensa:/ le parole portano via tempo all’Amore. La raccolta poetica Voci del paesaggio di Emilio Capaccio è in bilico tra vuoto e pieno, il silenzio e le parole. Per tutta l’opera si percepisce la sotterranea inadeguatezza della parola rispetto alla vita. Ecco che l’autore fa appello alla voce perché le cose possano venire ad esistere. Pronuncia la realtà per farla esistere. È sempre, è sempre assidua la voce/ e percorsa da mille nature!…/ nature d’aria che la modula/ in continue sorgenze di vite.

Lo si è detto, lo spartito di questa raccolta ruota intorno ad un doppio movimento, il pieno delle parole e il vuoto del silenzio. Dentro questo spazio percepiamo la presenza di un Dio da “nominare” che individua il punto di equilibrio dell’intera melodia poetica dell’opera. Questa presenza discreta, questa voce dà un fondale civile ai versi, nel senso che gli forniscono un terreno sul quale muoversi, dove incontrare l’altro e riconoscerlo umano. E quando scrivo il tuo nome con la mia Parola/ non è lo stesso di quando lo scrivo in pasto/ o in hindi o in curdo./ Io sono stanco di buttarmi per terra e fingermi/ morto. Allo stesso modo della presenza divina, la poesia è lenimento e regolazione. Ci salva, mettendo ordine al caos, quello della violenza, ma anche a quello dell’afasia. Sterili voci/ non sappiamo a chi/ dirlo!/ non sappiamo come dirlo!

C’è qualcosa di “esatto” nella poesia di Capaccio, un alito quasi spinoziano in cui la parola poetica assolve al compito etico e regolatore. Poesis sive Natura si potrebbe dire. Non esiste un Deus ex machina che produce il verso, né il punto di osservazione del poeta è posto all’esterno della realtà rappresentata. Dio ha una grave miocardia:/ da duemila anni soffre silenzioso./ Si accascerà nei corridoi/ quando smetteremo di vederlo./ Morirà nell’ospedale/ quando resteremo disperati.

All’opposto, atto creativo e sguardo sono all’interno dello spazio osservato, si sono entrambi buttati in acqua. Questa poesia non si parafrasa, non si decodifica, non è una cima da scalare. Questa è una poesia nella quale si nuota. In questo momento esisto./ Esisterò in altri momenti/ senza averne coscienza!/ E mi sembra di staccarmi dal corpo/ con il quale mi coprivo/ per pudore di restare nudo/ e di osservarlo oscillare sui piedi/ da un luogo lontano/ con sguardo affrancato e primitivo/  che non è degli occhi!/ E osservo il riflesso degli altri più opaco.

Questa piacevole liquidità della poesia di Capaccio, credo sia proficuo evidenziarlo, talvolta si intorbidisce, perde di organicità. Credo tuttavia che sia un effetto di abbondanza, e non un vero e proprio difetto (benché l’arte sia nel togliere, cerco sempre di ricordarmene). Personalmente trovo molto innovativi ed efficaci i testi “giustificati”, in quanto esaltano l’esattezza della scrittura, rispetto ai versi liberi che appaiono più scontati. Credo pertanto che questa sia la vena che mi permetto di suggerire al poeta. Esemplare è il testo che segue, dotato di una forza evocativa non comune. Ci sono codici scientifici e tassonomici nell’ango­liera d’acero accosta a una giara; glossari dei nomi di tutti gli esseri che sono stati creati, ma giaccio­no ancora rigidi ed eretti entro le mura della Torre originaria con un colore albino sui corpi e braccia torte in un gesto innaturale, apparentemente d’af­flizione o primigenio castigo. Senza voce né ani­ma, dietro la pupilla orridamente sbarrata in una catalessi primordiale, aspettano impagliati, dentro una placenta di abulia, il soffio divino che li animi e li scaraventi alla luce di una roccia appena emersa dalle acque.

Il tratto permanente, tuttavia, di questa raccolta è la leggerezza. E questo tono non toglie nulla alla densità del verso e alla profondità etica dei temi. Al contrario, dà legittimazione alla scrittura, come nella promessa iniziale, Ma la vita, la vita, la vita,/ la vita è possibile solo/ reinventata. Dentro questo sforzo creativo la scrittura trova una ragione, altrimenti sarebbe relegata nei riflessi della vanità e dell’autismo culturale. Ed anche l’etica e l’impegno civile riprendono sangue e si ravvivano, riescono a comunicare, che è un’altra vocazione che la poesia non dovrebbe mai perdere.

I pesci amano il mare./ I pesci accolgono la parola d’onore./ I pesci sono ebbri di impegno civile.

In un bellissimo film di P. A. Anderson, Magnolia, ad un certo punto, in una notte umida e luttuosa cominciano a cadere dal cielo delle rane. L’effetto dovrebbe essere quello di fare calare sulla scena una minacciosa atmosfera apocalittica. Invece accade qualcosa di inatteso. A prevalere è lo stupore di fronte a qualcosa di straordinario. Ecco, questo dovrebbe produrre l’arte, ed in particolare la poesia, lo stupore. E questo noi cerchiamo. Questo noi ci aspettiamo.
Pasquale Vitagliano


2 risposte a "Voce del Paesaggio, poesie di Emilio Capaccio, Edizioni Kolibris, 2016"

  1. seppure non vicinissimi alla mia sensibilità materiale (e materialista), i versi di Emilio Capaccio qui citati da Pasquale Vitagliano mi sembrano coraggiosi nell’affrontare la fisicità gettata a ponte tra l’umano e il divino. belli in particolare l’immagine del corpo visto dall’esterno, quel corpo con cui “mi coprivo / per pudore di restare nudo”, e il successivo disagio immateriale che può essere comunicato solo per negazione (“con sguardo / che non è degli occhi”) nonché solo mediante parole riflesse, idealmente affini ad una *lussazione del pensiero*. id est, segnatamente, qualcosa che sia in grado di indovinare/divinare il punto esatto di equilibrio tra lo stupore della poesia e la poesia stupefacente (“sterili voci / non sappiamo come dirlo”).

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