Roberta De Luca: Il labirinto. Sulle tracce della conoscenza

Il labirinto. Sulle tracce della conoscenza
Siamo nel finale del film Il nome della rosa, di J.J. Annaud. Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, sulle tracce del libro proibito che ha già fatto fuori diversi monaci curiosi, giungono finalmente nella biblioteca dell’Abbazia, dove trovano il bibliotecario cieco Jorge de Burgos. L’uomo pronuncia una frase che riavvolge la pellicola e fa scattare un giro fisico e mentale nel torrione che porta alla biblioteca nascosta, sede simbolica di tutta la cultura occidentale: “Il percorso breve attraverso il labirinto ti è ignoto, fratello Guglielmo”.

Frutto del genio di Dante Ferretti e Tonino Delli Colli, la ricostruzione scenografica e fotografica del garbuglio di scale e corridoi, che conducono là dove è nascosto il testo avvelenato della fantomatica Commedia di Aristotele, appare ispirata ai bozzetti degli artisti Galli da Bibiena: persa totalmente la serena prospettiva centrale, queste scenografie delineano con efficacia la pericolosa ed enigmatica quete di Guglielmo e Adso. Un percorso accidentato, complesso, scomodo, che non si può abbreviare in nessun modo, perché rappresenta il caos della realtà, la complessità della conoscenza, lo sviluppo della ragione nelle maglie del dogma e delle auctoritates indiscutibili: è il “labirinto degli effetti e delle cause per la diversità delle creature che compongono questo singolare universo” (Poesia dei doni, J.L.Borges). Lo ha detto bene Calvino nella suo saggio Sfida al labirinto: il labirinto gnoseologico, una volta attraversato, non si risolve mai una volta per tutte. Nelle sue Le città invisibili, Marco Polo, moderno inviato speciale, cerca una strada possibile, percorribile, ma mai conclusiva della questione umana. Lo spazio della città rappresenta il disorientamento dell’uomo nella realtà e la difficoltà ad elaborare un nuovo modello di conoscenza nel magma inconoscibile. Ma è proprio qui che la sfida lanciata si fa ardua e affascinante, perché “la ragione, che non cesserà di sognare un qualche disegno del labirinto”(sempre Borges), non si ferma.

Il labirinto è certamente uno spazio che ossessiona l’immaginario dell’uomo moderno, un’ idea che popola le notti e turba le veglie, ma è un luogo di grande valore conoscitivo. Non può essere ridotto a superficiali semplificazioni, né deve sfuggire alla consapevolezza dei limiti razionali, ma mai può accettare una verità data e cristallizzata nell’ipse dixit.

Il percorso nei corridoi, per le scale, sulle balaustre del labirinto di Eco, e di quello ne L’immortale, (L’Aleph) di Borges, è fuori, ma forse è anche dentro di noi, negli anfratti della mente, negli abissi dell’inconscio, teso a cercare delle risposte, non definitive, ma relative, problematiche; questo può avvenire solo attraverso la cultura. La stessa che Guglielmo e Adso inseguono nella babele immensa e labirintica dell’Abbazia medievale, perdendoci il sonno, rischiando la vita, alla ricerca di un libro misterioso ed eretico che si trova in alto e si può raggiungere solo per mezzo della ragione, trovando una via possibile nel dedalo di sale e corridoi di uno spazio complesso, che Escher ha posto come emblema dell’uomo contemporaneo.
Roberta De Luca


5 risposte a "Roberta De Luca: Il labirinto. Sulle tracce della conoscenza"

  1. ah, come mi sento a casa in questo post labirintico!
    : )
    sebbene Eco non rientri tra gli autori che amo in modo particolare (un virtuoso d’ottima scuola, tipo John Petrucci, eh, ma Hendrix era tutt’altra cosa), papà Jorge e zio Italo sono per me padri spirituali imprescindibili. altro padre spirituale che chiamerei in causa parlando di labirinti, è papà Franz, anche se nelle sue opere aleggia – claustrofobico come non mai – più il luogo mentale in sé che la parola fisica “labirinto”.
    grazie dunque a Roberta De Luca per questo stimolantissimo spunto di riflessione.
    leggendo il post, mi veniva da chiosare che forse la realtà contemporanea è andata oltre l’idea tridimensionale di labirinto. se negli anni settanta, ottanta e novanta, l’intrico di vie delle metropoli era facilmente assimilabile a una rivisitazione in chiave moderna del mito del labirinto, col nuovo millennio, la “labirintitudine” del reale si è evoluta integrandosi con quel labirinto virtuale/surreale che è la rete.
    dunque, chiudendo il cerchio del ragionamento, non solo sono d’accordo sul fatto che il labirinto “è dentro di noi, negli anfratti della mente” (nelle neuroscienze si parla appunto di neural network, rete neuronale), ma direi che nel contempo l’uomo moderno è arrivato a specchiarsi appieno in una realtà “fuori di sé” rappresentata per l’appunto dal world wide web: rete neuronale da un lato, rete internet dall’altro. mmmm… chi specchia chi?
    la labirintitudine 2.0 è quindi un labirinto biunovoco, un luogo di grande valore tanto conoscitivo quanto misconoscitivo, un test di Rorscharch (auto?)somministato alla specie umana su scala planetaria. quale sarà il risultato? chissà. in ogni caso, le vere falsità e le false verità, sconfessate e riconfessate, finiscono per confezionare attorno a noi un multiverso con decine di dimensioni (tipo teoria delle stringhe), la cui più drammatica (e forse pericolosa) implicazione potrebbe essere il definitivo smarrirsi dell’essere umano nel labirinto dell’intrattenimento totale.
    se teniamo a mente le parole di Guy Debord in “la società dello spettacolo”o di Zygmunt Bauman, circa la società postmoderna, c’è di che preoccuparsi.
    un siffatto labirinto non ha più bisogno di muri (anzi! demoliamoli tutti), di frontiere (anzi! smarriamoci in entità sovranazionali), di un’identità (anzi! omologhiamoci al cosmopolitismo globalista), di tempo (anzi! scambiamoci “like” fulminei e non verbose riflessioni)… brrr… Bentham, Foucault, Orwell e Bradbury appaiono quantomeno “obsoleti” nel labirinto liquido del pensiero unico. non solo l’asservimento delle vittime si ottiene mediante l’intrattenimento e il consumo, non solo i consumatori sono ormai incapaci di separare la rete-labirinto mentale dalla rete-labirinto virtuale, ma il labirinto virtuale è diventato più reale di quello reale.
    ahinoi, è dunque verosimile che le ancore di salvezza citate verso la fine del post (la “cultura” e la “ragione”) si rivelino impotenti, essendo tecnicamente impossibilitate a trovare financo il minimo appiglio nella sublimazione labirintica rispecchiata dal pensiero *liquido*.
    ed ecco allora che qualsiasi strumento di contenzione/coercizione/sviamento risulta superfluo poiché in un mondo di consumatori, le vittime *progressiste* a piede libero contribuiscono e collaborano al loro stesso smarrimento/controllo. eh, eh, eh, più *labirinco* di così…
    : ))

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  2. Grazie Malos per il tuo commento metalabirintico, straordinario!A me Eco non piace proprio ahahahah, però ho rivisto il film con i miei studenti e il motivo del labirinto mi è uscito fuori dagli anfratti della mente; la poesia dei doni di Borges è una delle più belle che io abbia mai letto e Le città invisibili il mio preferito di Calvino. A Franz, nato il 3 luglio come me, dedicherò un’altra cosa già in cantiere. La ragione la cultura la pietà sono, credo, l’unica possibilità. Un grande abbraccio! Roberta

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