prosenze inquietanti: dicembre

si chiude l’anno di prosenze inquietanti. è arrivato dicembre, il mese che secondo la filastrocca citata nel post precedente “ammazza l’anno e lo sotterra”. non so dire perché, ma l’euforia collettiva che accompagna San Silvestro e Capodanno non mi ha mai contagiato. anzi, se c’è un periodo dell’anno che mi mette addosso una particolare tristezza è proprio quello in cui il tempo muore. dunque quale miglior antidoto di questo “molto allegrissimo” racconto di Roberto Ballardini per esorcizzare i cattivi pensieri?*

Don’t worry

Il vecchio nel letto alla mia sinistra è stato dimesso questa mattina. È venuto a stringerci la mano in modo formale, malgrado abbia scambiato con noi una manciata di parole appena nel corso delle due settimane che abbiamo passato insieme. La figlia lo ha seguito fuori dalla camera in silenzio, ci ha salutato con un sorriso benevolo e abbassato gli occhi con discrezione.
Un’ora dopo se ne è andata anche Valeria, la ragazza nel letto a destra. Mi ha abbracciato e baciato, e mi ha lasciato un biglietto da visita. Ho un taglio di capelli gratis prenotato nel suo negozio. È stata gentile, anche se dubito che quando uscirò di qui e comincerò le inutili sessioni di chemio, mi resteranno abbastanza capelli per usufruirne.
Sono rimasta sola a guardare la polvere e i ritagli di sole, ed ero tranquilla fino a quando il ragazzo mascherato da clown ha fatto irruzione nella camera senza bussare, come se i buoni propositi lo autorizzassero a essere invadente e maleducato.
Non voglio mettere in dubbio le sue buone intenzioni, ma i clown non mi sono mai piaciuti. Mai. E comunque la questione verte tutta sul fatto che io ho il diritto di non ridere come e quando cazzo mi pare e non sono tenuta a essere riconoscente o anche soltanto tollerante per un altruismo che quel giorno, lo giuro, gratificava soltanto lui.
Dico questo perché alla fine ho fatto la figura della stronza. Comunque sia, ricomincio dall’inizio.
Il pagliaccio si affaccia alla porta della camera verso le dieci e un quarto del mattino. Per un istante sembra valutare quanto sia il caso di impiegare il suo prezioso buon cuore per una tizia a occhio poco simpatica che lo degna a malapena di uno sguardo disgustato prima di tornare a farsi gli affari propri. Avverto la sua esitazione, anche se lo ignoro. Spero che abbia il buon senso di tirare dritto, ma non è quello che succede. Credo che la mia indifferenza lo abbia addirittura stimolato a fermarsi, come un professionista affascinato da un caso difficile, oppure un ragazzo dal cuore d’oro indispettito dal rifiuto di qualcuno a cui decide di farla pagare. Sto guardando fuori dalla finestra quando lo sento ciabattare dentro la camera. Prendo un respiro profondo e mi volto verso di lui, sforzandomi di non essere sgarbata. Alzo una mano per impedirgli di accostarsi al letto.
“Non è aria, bello.”
“Non lo è mai dove mi fermo, Mariacristina. Il mio lavoro consiste proprio in questo. Cambiare aria.”
“Come sai il mio nome?”
“L’ho chiesto all’infermiera.”
Ma certo, chi mai potrebbe negare qualcosa, a quest’angelo di misericordia?
Lo osservo, cerco indizi sotto la maschera che mi rivelino qualcosa di lui. È giovane, diciotto, vent’anni al massimo, un piercing sopra l’occhio destro, capelli biondi legati in una crocchia sulla testa nella quale ha infilato due ferri da calza. Per il resto, le solite stronzate da clown: naso rosso, vestiti da mentecatto, eccetera, eccetera.
“Credo che nella camera accanto ci sia un ragazzo che ha tentato il suicidio. Magari lui ti trova divertente.”
“Wow, cos’era? Umorismo o sarcasmo?”
Lo guardo dritto negli occhi. E’ un ragazzino, santo Dio, dovrei riuscire a fargli abbassare lo sguardo e indurlo ad andare via con la coda tra le gambe. Questo stronzetto, invece, è duro come la pietra.
“Comunque credo sia un buon segno, in entrambi i casi” – dice per mostrarsi conciliante.
“Senti, sto bene, davvero, te ne puoi andare.”
“Guarda, la questione è molto semplice. Questo è star bene” – dice allargando le braccia e producendosi in una breve danza davanti a me, girando su sé stesso e schiaffeggiando il pavimento con le sue ridicole scarpe.
“Questo, invece, non lo è.”
Mima quella che secondo lui è la lugubre espressione del mio volto.
Comincio a odiarlo. Non ho mai reagito bene a chi esprime opinioni sul come e sul cosa dovrei sentire.
“È questo il tuo modo di sollevarmi il morale? Facendomi notare che tu sei felice e io no?”
“Mio Dio, no!” – esclama scandalizzato – “Volevo soltanto farti capire che non puoi nascondere il tuo disagio.”
“Allo stesso modo in cui tu non puoi nascondere la tua felicità.”
“Io sono felice perché affronto la vita in modo positivo.”
“No, tu sei felice perché stai facendo quello che desideri.”
“Potresti farlo anche tu.”
“Io non desidero andare in giro per gli ospedali vestita da clown.”
“Non intendevo questo. Ci sono tanti modi per rendersi utili.”
“Io non desidero rendermi utile.”
Mi sta fregando, lo sento. Mi ha messo nell’angolo, costretta a esprimere opinioni che non sarei tenuta a condividere con lui. Non in questa vita.
“Che cosa desideri, allora? Ne vuoi parlare?” – dice portando una sedia vicino al letto e lasciandocisi cadere.
Glielo insegnano al fottuto corso per pagliacci dal cuore d’oro? Falli parlare. Qualsiasi cosa dicano, tu falli parlare. Magari era il corso sbagliato: come salvare un aspirante suicida. Magari il ragazzo della camera accanto potrebbe davvero trovare utili i suoi consigli. Un clown aspirante psicologo. No profit per di più. È troppo complicato per me. Non credo di essere nella forma migliore per affrontare simili scherzi della natura.
“Parliamo di te, invece. Qual è il problema?”
“Come, scusa?”
“Andiamo, non hai più di vent’anni. A quest’ora del mattino dovresti svegliarti nel letto di una tua compagna di studi, se non addirittura di una tua insegnante, oppure masturbarti nel tuo mentre sogni di farlo. E invece sei qui a fare la figura del fesso davanti a una sconosciuta di mezz’età che cerca di liberarsi di te senza ferire i tuoi sentimenti. Deve esserci per forza qualcosa che non va.”
“Io non la metterei così.”
“Non avevo dubbi.”
Sospiro e prendo il libro dal comodino, come se il suo quadro clinico mi fosse venuto a noia. Il ragazzo mi guarda, cercando qualcosa di intelligente da dire, qualcosa che possa salvare il suo piano di salvataggio che sta naufragando. Si gioca la carta dell’amara constatazione misto rassegnazione misto nobile tristezza.
“Come vuoi tu.”
Sospira a sua volta e si alza dalla sedia. La mia aridità deve averlo disgustato, e io ne sono immensamente compiaciuta.
Ripone la sedia dove l’ha presa, accanto al tavolo, con una lentezza calcolata che comincia a insospettirmi. La sua mano nell’ampia tasca schiaccia un pulsante, o qualcosa di simile. In realtà stava soltanto facendosi spazio, perché nell’istante successivo parte la musica e lui si produce in una versione personalizzata di Don’t worry dei Madcon.
Rimango paralizzata dallo stupore. Il ragazzo ha giocato la carta del numero ai confini della realtà. Non sapevo nemmeno che fosse nel mazzo, giuro.


Ti porterò nel futuro dimentica il passato puoi tenere tutti i tuoi segreti giuro che non chiederò lascia perdere tutti i tuoi problemi non mi importa dove sei stato l’unica cosa che conta adesso è dove finirà la notte.
Con mio grande disappunto devo riconoscere che è bravo. La sua esibizione è tutt’altro che improvvisata. Deve aver provato per ore, davanti allo specchio.
Quelle luminose e grandi luci brillano su di noi picchiano così forte che non vuoi alzarti scendi come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un domani come se non ci fosse un domani.
Va avanti e indietro nello spazio tra letti e parete, tra porta e finestra. Si alza, si abbassa, accompagna i versi con ampi movimenti delle braccia, lanciandoli attorno a sé come piume d’argento che avvampano per un istante nel sole e poi si dissolvono nell’ombra della camera. I suoi occhi non incontrano mai i miei. E’ decollato in un cielo tutto suo e niente può riportarlo sulla terra.
Oh, saremo i padroni della notte non preoccuparti di nulla non preoccuparti di nulla non preoccuparti di nulla so che andrà tutto bene non preoccuparti di nulla non preoccuparti di nulla non preoccuparti di nulla.
Realizzo soltanto ora quanto sia stato stupido da parte mia pensare di poter prevalere su di lui. L’arroganza del suo talento mi fa impazzire di rabbia.
Dai mettiamoci al lavoro e fammi vedere cosa sai fare continua a far girare il disco la musica non si ferma mai se vuoi vivere per sempre e arrivare alle stelle…
Mi rendo conto di aver perso il controllo quando ormai è troppo tardi. Il bicchiere che fino a un attimo prima stava sul mio comodino, lo coglie in pieno appena sopra l’occhio destro, tintinnando sul piercing. La sua mano si alza in ritardo per intercettarlo prima dell’impatto, con un tempismo perfetto per deviarne la traiettoria di caduta e spedirlo sul letto vuoto, impedendogli di andare in mille pezzi sul pavimento.
Il giovane saltimbanco mi guarda incredulo, tastandosi la fronte, incapace di mettere assieme una reazione qualsiasi. Credo fosse talmente calato nella propria performance che ora fatica a uscirne, tanto che a un certo punto sembra rinunciarvi e si volta verso la porta della camera, scuotendo la testa, con la mano incollata sopra l’occhio.
Confesso di aver tenuto il fiato in sospeso, allarmata da quella che avrebbe potuto essere la sua reazione. Quando lo vedo scomparire nel corridoio, ricomincio a respirare e mi auguro che la mia cazzata possa passare inosservata, che il ragazzo sia effettivamente l’angelo dell’amore e l’idea di denunciare qualcuno sia inconcepibile, per lui.
Mi alzo e recupero il bicchiere da sopra il letto vicino per rimetterlo al suo posto sul comodino. Mi lascio cadere sulla sedia vicino alla finestra, spossata. Non sono pentita e nemmeno mi sento in colpa, però mi chiedo che diavolo mi stia succedendo. Nei miei quasi cinquant’anni di vita non avevo mai tirato oggetti addosso a nessuno per quanto abbia provato il desiderio di farlo in una quantità di occasioni. Una parte di me ha pensato fino a oggi che la prospettiva della morte avrebbe portato con sé una sorta di pacifica rassegnazione, una pace dei sensi che avrebbe fatto di me, negli ultimi giorni di vita, una persona migliore. Non è così. La cosa strana, se è di rabbia che stiamo parlando, è che non ne avverto in me la minima traccia. Qualsiasi cosa sia si nasconde bene e quando si mostra lo fa a colpo sicuro, sicura di far danni.
Ho visto tutte le puntate di CSI Las Vegas, Miami e New York, e tanto per non sbagliare ho ripulito per bene il bicchiere prima di rimetterlo al suo posto sul comodino. Ho visto anche tutte quelle di Law & Order, o quasi. Il fatto che non sia andato in mille pezzi depone in mio favore, ne sono sicura.
E comunque mi sto annoiando. Quella cosa dentro di me non è rabbia, è più simile a una resa: cedere all’impulso del momento per una seria mancanza di alternative.
“Che stai combinando qui dentro?” – mi apostrofa Abeba dalla porta, con un mezzo tono di rimprovero che sottolinea la mia parte di colpe negli eventi dell’ultima ora.
Me lo sto immaginando, naturalmente. L’infermiera africana non ha visto niente, e io le concedo una mezza verità.
“Comincio a dare segni di insofferenza. Forse è arrivato il momento che io lasci questo posto.”
Sorride, mi fa una carezza, lascia la stanza, e io mi ritrovo a canticchiare il verso della canzone a cui il ragazzo clown non è riuscito ad arrivare, a causa del mio drastico intervento.
Non ti preoccupare, non ti preoccupare la notte non finisce mai, non c’è nessuna fretta.
Forse dovrei piangere, adesso, ma…
No, sto bene. Sono tranquilla. Non ho chiuso occhio questa notte e la mattinata è stata piuttosto movimentata. Penso che ora dormirò un poco.


9 risposte a "prosenze inquietanti: dicembre"

  1. ecco un racconto che lascia il segno quanto un bicchiere scagliato appena sopra l’occhio destro. drammatica l’incomunicabilità impiccata ai dialoghi e la tensione tra gli “impulsi” senza alternative dei due protagonisti. Mariacristina si aggrappa al suo “diritto di non ridere come-e-quando-cazzo-mi-pare” con la stessa rabbia di un adolescente in rotta col mondo: in effetti, spesso e volentieri, una regressione emotiva è la cosa che più *somiglia* ad una via di fuga quando la speranza è finita. dunque perché non togliersi la soddisfazione di sentirsi ancora viva, alla faccia delle “inutili sessioni di chemio”, di lasciar esplodere emozioni intense e prepotenti come la rabbia? curioso no? a volte è più catartica la rabbia di una risata, ma vaglielo a spiegare a chi, mosso dalla convinzione di “essere buono e giusto”, si arroga il diritto di imporre agli altri le proprie buone azioni… insomma, c’è di che riflettere sulla doppiezza delle cose e degli esseri umani, a partire dalla “notte che non finisce mai”: da un lato il buio terrificante del Catullo di “nox est perpetua una dormienda” dall’altro lo sballo ininterrotto stile Lionel Richie (“everybody sing, everybody dance / lose yourself in wild romance / all night long”). il tutto condito dalla consapevolezza che in fondo – Aristofane docet – la tragica conflittualità umana spesso è così insanabilmente “sui generis” da sconfinare nella farsa (“un clown aspirante psicologo. No profit per di più. È troppo complicato per me. Non credo di essere nella forma migliore per affrontare simili scherzi della natura.”)

    "Mi piace"

  2. fantastico questo racconto. a un certo punto sarebbero anche potuti arrivare gli alieni e io ci avrei creduto, tanto è coinvolgente e vero il punto di vista della protagonista. un paio di volte sono pure sbottato a ridere, grazie Malos e Roberto

    "Mi piace"

  3. Molto scorrevole e intenso questo racconto e quindi molto triste e angosciante direi, forse perché calza perfettamente la realtà evidenziando l’assenza di improbabili vie di fuga. Probabilmente alla fine è questione di rispetto dello spazio vitale di ognuno e questo indipendentemente dai ruoli o dai momenti che stiamo attraversando. La protagonista femminile è in un contesto drammatico di sicuro ma pure in una fase in cui ancora è padrona di se stessa e può riflettere come chiunque su come affrontare delle difficoltà, questo la rende ricca di sfaccettature e di complesse necessità. Dietro la sua reazione di rabbia come di equilibrio emotivo forse troppo precario per pretendere di modificarlo senza una preventivo accordo interiore con se stessa o con chiunque voglia intervenire in quel senso, emerge pure quel naturale bisogno di aiuto o miglioramento che si prova nei momenti di sofferenza. Credo che nelle fasi di disperazione dove la capacità di ponderare le nostre scelte viene offuscata dalle insostenibili forme del dolore, anche un solo contatto umano può essere un miglioramento, un agognato momento di conforto. Quindi non ho dubbi sulla validità e sulla funzione importante che riveste quel clown, perché riuscissimo veramente a entrare nel mondo interiore delle persone magari ci sarebbe sempre una via maestra per condurre l’incontro ad un importante e utile scambio di umanità, purtroppo non è certo facile farlo. E così il clown simbolo per eccellenza del sorriso forse parte dal finale del suo obiettivo presentandosi mascherato e nel pieno del suo classico festeggiare, quando invece non sarebbe stato male presentarsi prima con il costume da essere umano per provare a capire fino in fondo i reali bisogni dell’altro. In tal senso il dialogo iniziale avrebbe potuto ammorbidirsi e se il clown non avesse fatto prevalere il suo ruolo su tutto neanche la donna magari avrebbe seguito così tenacemente il suo. Rimane l’eco della canzone nell’aria e nella mente, testimonianza che comunque qualcosa di buono è successo.

    "Mi piace"

    1. “angosciante” è la singola parola che da sola meglio riassume il tutto. (e il lutto). hai ragione quando auspichi un “dialogo” che prenda corpo da un reciproco venirsi incontro, ma gli universi soggettivi in cui vivono i singoli esseri umani sono mondi paralleli (ergo, l’unico punto di contatto, come ci insegna la geometria euclidea, spesso e volentieri è all’infinito)
      : )

      "Mi piace"

  4. Grazie malos per questo racconto di Roberto Ballardini, perfetto per fine anno. Ho preso, sfacciatamente, le parti di Mariacristina, che proprio non sopporta il buonismo da “fine stagione”. Eppure, e qui il grande merito di Ballardini, poco sappiamo degli altri… Anche un pagliaccio ha un’anima. Come Mariacristina osserva (e per questo gli tira il bicchiere) è uno che fa le cose sul serio, che ha studiato sodo, passando ore allo specchio. Non lo sprovveduto che farebbe bene ad essere in altre faccende affaccendato. L’osservazione di Mariacristina ribalta il tutto. E da lettore provo a immaginarmi una possibile “realtà” del clown… ad esempio uno che si esercita nel cambiare vite, quelle degli altri e soprattutto la sua. Uno che ha toccato il fondo e prova a rialzarsi. La sua insistenza, il suo non perdersi d’animo, trovano Mariacristina e il lettore impreparati. Ci aspettavamo forse che a cedere sarebbe stato lui, invece è Mariacristina che, come dice malos, “regredisce” e comunque, come suggerisce ceglie, “qualcosa di buono è successo”.

    "Mi piace"

    1. io non saprei dire… anzi, forse da “pessimista comico” d’istinto tendo ad immedesimarmi maggiormente nel clown. ciò non toglie che nello specifico di questo racconto *l’errore* che impedisce alla relazione tra i due protagonisti di svilupparsi in modo “complementare”, ovvero benefico per entrambi, è la rigidità solipsistica del clown, il suo sorriso rotondo e dispotico. un sorriso amaro e fragile (in una sola parola “umano”) avrebbe più facilmente innescato un vago senso d’empatia evitando l’escalation simmetrica ben descritta nel racconto.

      "Mi piace"

Lascia un commento