I morti si rallegravano
vedendo fra sé e la luce i loro corpi trapassati
ridevano della loro ombra e la osservavano
come se davvero
fosse la loro vita trascorsa.
La Maison Des Morts
Guillaume Apollinaire
A braccetto con Guillaume
sfioravo le lastre
strofinando i volti
sviscerando calore
speravo che di lì
a poco
li avrei avuti con me
attorniarmi di un nuovo
odore.
Mentre Guillaume
svaniva scivolando
dal mio braccio
qualcuno mi batteva
sulla spalla ticchettando
di vuoto –
non appena girato
riconosco mia madre
dall’eterno sorriso
per il resto spolpata,
morta ormai da dieci anni,
i capelli sembravano
in ordine
come quando era in vita.
Maurizio!, urlò abbracciandomi,
vieni da mamma,
e la strinsi tra sbuffi
di polvere
scricchiolii di ossa
come mai forse
in vita.
Ora arriva papà, aggiunse,
lui c’è da poco
si perde tra questi viali
lo conosci, non gli piacciono
le feste.
Mauri’, che si rice,
Marisa
hai visto che è venuto?
Così mio padre
non appena mi vede
col suo accento napoletano;
non è cambiato molto
in cinquantatre giorni,
era cambiato molto di più
negli ultimi tre mesi di vita.
Gli manca solo qualche
parte a una guancia
la pancia è piatta
l’aspetto di vita sparito
per quello di spirito
lo rende più certo
ai miei occhi, di quella certezza
durevole,
loro sono lì per sempre
solo per noi:
siamo prigionieri
della vostra memoria,
mormorò mamma,
stacchiamo croste all’aria
sotto una luce
che non mostra niente.
Camminando tra loro
tenuto sottobraccio
penso a come potrebbero
svagarsi nell’assenza
della nostra memoria
liberarli dal nostro peso
vitale.
Mamma mi guarda
elegante nonostante
dinoccolante, e mi dice,
come avessi pensato a voce alta,
oggi è il mio compleanno
non lasciare che smetta
di compierlo.
2 novembre 2012
L’ha ripubblicato su Intermittenze. Scritture di Anna Leone .
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anche qui, la polvere (eh, sono allergico, ma amo la polvere) nell’intensità straniante dei versi “la strinsi tra sbuffi / di polvere”, seguita dall’amarezza beffarda e quasi tautologica di “come mai forse
in vita” (davvero da incorniciare). poco più avanti, mi ha colpito lo “stacchiamo croste all’aria /
sotto una luce / che non mostra niente” per il riverbero di memoria sotteso a ferita/crosta/staccare/sangue/ferita/crosta/staccare e così via, all’infinito, senza mostrare niente oltre al nitido loop ululante alla luna (non c’è scampo dalla memoria, diceva Borges, anche se qui la forza del discorso si rinnova virando in flusso biunivoCoco).
che aggiungere? un abbraccio fraterno pensando a “C’era due volte il barone Lamberto” di babbo Gianni e un accenno al fatto che (a me dà conforto, ma forse è solo un delirio post-disneyano – prima “Coco”, ora il “Re leone II” – innescarto da visioni e rivisioni infinte, figlio dopo figlio) genetica e ambiente implicano che, ine-vitabilmente che lui/lei vive in te.
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Grazie, contraccambio l’abbraccio fraterno, caro Malos.
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Un atteggiamento poetico \ psicologico che è il contrario di quello Foscoliano delle urne dei forti. Versi brevi, spezzati, colloquiali. Un bello scherzo del cervello che trasforma chi non c’è più in un nucleo affettivo che rivive ancora, capita anche a me col ricordo di mio padre e di mia nonna. La famiglia non viene spezzata nemmeno dalla morte. Quando ero bambino, al cimitero si vedeva qualche signora (poche in verità) che si portavano la sedia e facevano anche la calza parlando col marito.
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Eh sì, caro Giancarlo, il cimitero è il luogo dove il senso di appartenza è più vivo, “la casa dei morti” è il senso dei vivi.
Un abbraccio
mm
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