Franco Melzi: A spasso per il Novecento

ALIDADA

 
Alidada?

Giovanni Perotti non aveva idea di cosa fosse quell’attrezzo dal nome tanto bislacco. Lui sapeva a memoria le formazioni della Juventus dal 1930 in poi e poteva elencare, senza mai sbagliare, le vittorie del Gimondi al Giro e al Tour. Della Nazionale di calcio ricordava i risultati, le date, anche il nome degli arbitri e, quando era di luna buona, poteva parlare al contrario ma, non distingueva una chiave inglese da una pinza giratubi.
Eppure, senza nozioni di meccanica ma con molta buona volontà, aveva imparato in breve tempo a far funzionare a meraviglia la fresatrice: una portentosa macchina utensile che tra le sue mani inesperte sfornava cerchi d’acciaio come fossero noccioline.
In realtà, il Perotti, questi cerchi d’acciaio grezzo, del diametro di trenta centimetri e dalla sezione rettangolare, li doveva soltanto sbavare nel punto di saldatura. Un’operazione semplice e di scarso impegno mentale, tanto che una volta preso il ritmo egli si permetteva perfino il lusso di seguire il corso dei propri pensieri: cosa che ritarda soltanto l’inevitabile rincoglionimento, ma di sicuro combatte la noia.
Dopo qualche anno di quella pacchia, una mattina di un autunno particolarmente caldo, per una banale quanto intempestiva “mancanza di scorte”, il Perotti fu costretto ad interrompere la lavorazione. L’ufficio tecnico, approfittando di quella pausa forzata, decise di revisionare e approntare delle modifiche alla vecchia, affaticata e obsoleta macchina utensile.
Obsoleta?
Giovanni, temendo il peggio, non osò fare domande sulla natura della misteriosa malattia, ma la tempestività, la qualità dei mezzi e il notevole impiego di manodopera, lo convinsero che doveva trattarsi di qualcosa di molto ma molto grave. L’intervento, tra uno sciopero e l’altro, tra un rinvio e qualche inconveniente tecnico durò molto più del previsto ma, quasi per miracolo, la macchina tornò a nuova vita e, superato il collaudo, il nostro si ritrovò tra le mani un mostro capace di lavorare addirittura due cerchi in una sola volta.
Tempo di lavorazione: un minuto e ventotto secondi netti!
Quaranta pezzi all’ora, trecentoventi al giorno, milleseicento la settimana, circa sessantaquattromila al mese. Più di mezzo milione di cerchi in un anno.
Il Perotti divenne suo malgrado famoso in tutto il reparto ed anche nel resto dell’azienda. Infatti, era impossibile passare dalle sue parti e resistere alla tentazione di soffermarsi per ammirarlo in piena azione. In quei gesti semplici, essenziali e cadenzati, era concentrata tutta l’esperienza, la tecnica, l’alto grado di efficienza tecnologica applicata al lavoro in serie. Un esempio e un modello di funzionalità per l’azienda. Un precedente pericoloso per il sindacato di categoria.
Per qualche mese il caso fu argomento di dibattito nelle agitate assemblee di fabbrica. Ne ricordo una particolarmente affollata, nel corso della quale il Perotti, invitato ad esprimere di persona la sua opinione, fece un discorso meraviglioso parlando sempre al contrario, ma così bello e così convincente da scatenare una vera ovazione e di mettere a tacere anche i più facinorosi che minacciavano scioperi a oltranza.
 
«E poi?» disse Mario, accendendo l’ennesima sigaretta. «Che fine ha fatto il Perotti?»
Raccontai al mio amico tutto ciò che ricordavo ancora di quella storia. Aggiunsi altri particolari e mi soffermai sull’ultima cosa curiosa:
«Adesso non li fanno più i cerchi d’acciaio. L’azienda ha aspettato che andasse in pensione e poi hanno stoppato la produzione.»
«Che storia…» fece Mario, con la voce stanca e trattenendo a stento uno sbadiglio. Poi spense la sigaretta, mise su qualche ruga in fronte, sgranò gli occhi e aggiunse: «Sì, ma si può sapere che minchia è questa *alidada?»
«Alidada?» ripetei, dopo averci pensato un po’ su. «Non so, non me lo ricordo più, è passato tanto di quel tempo che…»
«Eh, ma allora…» brontolò Mario, mollando una sonora pacca sul tavolaccio di legno, «Allora, sei proprio un vecchio arlip!»
 

*Alidada: regolo mobile imperniato su un cerchio o semicerchio graduato, che serve a misurare, ruotando, l’ampiezza degli angoli (https://dizionari.repubblica.it/Italiano/A/alidada.html)

 

LA SOLITA MINESTRA

 
Di quella volta che la mia mano finì tra le ganasce di un laminatoio, di quei minuti terribili e interminabili impiegati per estrarmi l’arto dall’ingranaggio, della vertiginosa corsa sull’ambulanza, e delle facce smunte di chi mi stava intorno ho sempre avuto un ricordo molto vago. Ricordo invece perfettamente l’arrivo al pronto soccorso. L’odore intenso del disinfettante, l’improvviso silenzio, le mani energiche che mi frugavano, che mi tastavano ovunque, e tutto questo mentre avrei voluto gridare: «Ehi voi, teste di cazzo – Che state facendo? – Lasciate in pace la mia mano, non la toccate… guai a voi se la tagliate!
No, non me la tagliarono la mano. Me la ricucirono per bene, ma così bene che a militare non si accorsero di nulla e mi fecero artigliere.
«Che culo!» disse il mio amico Mario, laconico come sempre, mentre osservava da vicino le cicatrici sulla mia mano destra. «Ti è andata proprio di lusso.»
Mario in fondo aveva ragione. Lui la chiamava fortuna, mia madre divina provvidenza, spiacevole inconveniente per la direzione della fabbrica che, premurosa nei miei confronti, pensò bene di consolarmi con un passaggio repentino dalla forgia alla fonderia. Io ero così convinto di essere in credito con la fortuna, che accettai la nuova destinazione senza protestare.
«Dalla padella alla brace!» fu il commento di Mario, meritandosi un altro bicchiere di quel bianchetto che gli piaceva tanto. «E poi?» aggiunse, predisponendosi ad ascoltare il resto della storia.
Raccontai al mio amico, con dovizia di particolari e senza tralasciare nulla, di quel giorno che a casa arrivò la lettera del tribunale. L’udienza era prevista in un’aula del Palazzo di Giustizia, proprio quello che ancora oggi si vede sovente in televisione, il procedimento riguardava il mio recente infortunio e il mio nome, a chiare lettere e in stampatello sulla busta verdolina, il presagio di una sentenza già scritta.
Nel trambusto generale qualcuno in famiglia osò pronunciare la parola licenziamento e mia madre si affrettò ad accendere un lumino a Padre Pio; mentre mio padre, fuori della grazia di Dio, voleva sapere in che pasticcio mi fossi cacciato e minacciava perfino di tagliarmi i capelli. Sosteneva con forza che qualunque cosa avessi mai fatto, non potevo presentarmi davanti al giudice con i capelli lunghi.
«Capellone?» esclamò Mario, alludendo alla mia zucca spelacchiata.
Gli rammentai con santa pazienza che, nel Sessantotto e dalle mie parti, eravamo un po’ tutti conciati così e, per evitare altri commenti sgradevoli, passai al resto della storia.
Davanti al giudice non ero solo quella mattina. Accanto a me una coppia di capoccioni della direzione in doppio petto, un capo reparto stralunato e incravattato, e quattro poveri cristi del mio calibro con la paura dipinta sul volto. E tutti, ma proprio tutti, accusati di avere in qualche modo ignorato e trasgredito anche le più elementari norme antinfortunistiche.
Non era ancora il processo, ma il giudice voleva vederci chiaro prima di procedere, pertanto interrogò i presenti con l’intenzione di ricostruire con precisione le cause dell’incidente. Però, la cosa più curiosa, è che mentre tutti parlavano, anche quando non erano interrogati, lo facevano come se io non fossi seduto in quell’aula, e raccontavano una storia nella quale io stesso stentavo a riconoscermi.
«In che senso?» domandò il mio amico, dimostrando ancora una volta di essere stato attento.
«Nel senso che raccontarono tutti un sacco di balle! Io ero l’unico a conoscere la verità, ed ero pronto a dire tutto, ma proprio tutto al giudice. Però, stranamente, durante l’intero dibattimento, nessuno mi diede mai la parola.»
Mario scolò il bicchiere prima di aprire bocca. Si stropicciò il naso con il dorso della mano, quindi spense la sigaretta nel portacenere, ci pensò ancora un po’ su e poi disse:
«Perché?»
«Non lo so» risposi in tutta franchezza. «Forse perché ero ancora minorenne? Forse perché ero l’unico non indagato? Il dubbio ancora oggi mi assilla, ma il mio cruccio maggiore resta quello di non aver mai potuto raccontare tutta la verità su quella faccenda.»
Mario era di nuovo pensieroso. Gli lasciai tutto il tempo per riflettere. E mentre lui pensava ordinai altri due bicchieri di quel nettare.
«Minchia!» esclamò, ringalluzzito per l’imminente arrivo del cicchetto. «Ma si può sapere che cos’è un laminatoio?»
Non mi aspettavo una domanda del genere, davo per scontato che tutti sapessero cosa fosse un dannato laminatoio, così gli portai ad esempio il comune attrezzo da cucina per stendere la pasta e fare le tagliatelle.
«La macchinetta per fare la pasta?» esclamò incredulo.
Gli dissi di sì, che il concetto era lo stesso e che invece delle tagliatelle si potevano plasmare oggetti di varia forma: laminati tondi, lisci, nervati, e travi in acciaio ad H, ad U, ad I, e perfino rotaie per binari ferroviari, e…
«Vuoi che ti faccia un altro esempio?»
Mario si era assopito, colpa del bianchetto che gli piaceva tanto, e impiegò qualche istante per ricomporsi e dare una risposta.
«Sì, volentieri, ma non oggi.» disse, in tono cordiale. «Forse un’altra volta. Oggi s’è fatto tardi, a casa mi spettano e la cena si fredda.»
 
Mario se ne andò col sorriso sulle labbra e come sempre, senza pagare il conto. Ma, del resto, anche se aveva il buon gusto di non lamentarsene, io sapevo che la sua casa era la panchina in piazza e che per cena intendeva la solita minestra della mensa dei poveri.
 
Frame (Franco L. Melzi)
indirizzo: melzifranco@gmail.com

Sono nato una settantina di anni fa a Milano, dove ho studiato, lavorato e messo su famiglia. Da molti anni vivo in Abruzzo e nella vita ho fatto molti mestieri, (operaio – disegnatore meccanico – albergatore – ristoratore – barman – libraio – operatore turistico – allevatore – coltivatore), ma mai quello che volevo fare. Scrivere.
 
 


4 risposte a "Franco Melzi: A spasso per il Novecento"

  1. Il novecento è stato anche il secolo della fabbrica, delle grandi e piccole storie operaie, che qui rivivono con ironia, dolore e verità, e ben si ritroveranno quelli come me che hanno lavorato quarant’anni in un’azienda.

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  2. passo narrativo schietto e avvolgente: l’umanità dei personaggi ne esce tridimensionale.
    nel primo racconto impossibile non provare un moto di affetto per il Perotti e per un mondo “antico” dove, nonostante l’avanzare del tritacarne capitalista, le assemblee erano ancora “affollate” ed esisteva ancora un minimo di rispetto verso il lavoro (l’azienda attende che il Perotti vada in pensione per stoppare la sua produzione *artistica* in serie nonché il suo gesto atletico *obsoleto*). nel secondo racconto, invece, vanno in scena le prove generali del nuovo millennio: la coppia di capoccioni in doppio petto e il capo reparto indagati raccontano al giudice “un sacco di balle” per pararsi il culo e il lavoratore minorenne *tocca con mano* l’orrore dell’ingranaggio liberista (il lavoratore-merce come automa/strumento muto da usare in forgia o in fonderia – in base a ciò che più fa comodo alla produzione – o da rottamare e “lasciare in panchina” come un Mario improduttivo).
    e mi permetto anche una chiosa crudamente filosofica: è probabile che per *essere* scrittori (ovvero per *essere* storie che valga la pena di condividere) più che brandire una penna e dedicarsi alla scrittura, siano fondamentali le mani callose di chi ha lavorato una vita.
    un abbraccio e un grazie di cuore a Frame (Franco L. Melzi), che **proprio perché** ha fatto molti lavori sa “Scrivere”. plauso incondizionato.

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  3. La fabbrica dal significato sia letterale che allegorico, la grande industria, o meglio: i suoi risvolti umani, così ben descritta anche da Vittorio Sereni nella poesia “Una visita in fabbrica”, pubblicata nel 1961. L’esperienza vissuta, dice bene anche Malos qui sopra, rende la comunicazione letteraria (anche nel caso di Sereni che lavorò alla Pirelli come impiegato), viva, piena di stimoli, di riflessioni. Oggi, quasi, possiamo parlare delle fabbriche con un misto di romanticismo, come una sorta di “oggetto archeologico”.
    Nella scrittura di Franco Melzi le lezioni di Calvino ci sono tutte, compresa la leggerezza, così rara e poco premiata nella letteratura italiana. P.S: Gesualdo Bufalino pubblicò “Diceria dell’Untore” all’età di 61 anni. Non è mai troppo tardi. Per fortuna scrivere non è come fare la velina. Non hai data di scadenza.

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