Antonio Sagredo – Osip Mandel’štam e le canzonette napoletane

Osip Mandel’štam e le canzonette napoletane

(dal Corso su Osip Mandel’štam del 1974\75 di A.M. Ripellino)

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Così, con questi versi “dedicati” a Stalin cominciano le disgrazie del poeta Osip Mandel’stam; così scrive lo slavista A.M. Ripellino nel capitolo  “Mandel’štam e Stalin”…

  “  Il capo d’accusa principale era una poesia epigrammatica su Stalin che Mandel’štam aveva recitato a un gruppo di 12 amici. Uno di questi era andato a spiattellarla, ma non si sa a chi. Nadežda Mandel’štam, dice di avere dei sospetti, ma è difficile dirlo. Inoltre c’era nel suo dossier quello schiaffo, di cui abbiamo già parlato, che aveva dato ad Aleksej Tolstoj.     

    Erano quelli i tempi della fine della collettivizzazione agraria e Stalin in quei versi veniva definito assassino e sbaraglia-mužiki; questi versi segnavano l’inizio della tragica fine di Mandel’štam. Lui che aveva sempre riflesso in allusioni, in motivi traversi, mai direttamente; e l’unica volta che scrisse una poesiola  abbastanza futile e superficiale, con piene parole e pieni accenni, incappò subito nella repressione. Era una poesia in cui voleva esprimere chiaramente la sua avversione per il tiranno, mentre il resto della sua opera è sempre, anche quando accenna a fatti politici, lontano da una presa diretta, non è fanfara, né acre satira o bruciante presa come in Majakovskij, ma tutto è sempre riflesso diagonalmente. La poesia è questa:

Noi viviamo senza avvertire sotto di noi il paese,

a dieci passi non si sentono i nostri discorsi,

e ovunque ci sia spazio per un mezzo discorso,

ci si ricorda del montanaro del Cremlino.

Le sue dita grasse sono pingui come vermi,

le sue parole sicure come pesi.

Ridono i baffacci di scarafaggio

e brillano i suoi stivali.

E intorno a lui una marmaglia di capi dagli esili colli,

egli gioca con i servigi di mezzi uomini.

Chi fischia, chi miagola, chi piagnucola

e lui ciarla soltanto e punta il dito.

Forgia ordini uno dopo l’altro come ferri di cavallo:

a chi nell’inguine, a chi fra gli occhi, sulla fronte e sul muso.

Ogni esecuzione è per lui una cuccagna,

ha un largo petto di osseto.*

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*(Gli Osseti erano un popolo della Georgia, vicino al paese dove Stalin nacque, quindi petto di osseto, petto di georgiano)

  Questa è una poesia improvvisata per un cerchio di amici, una poesia da nulla, superficiale [1]38; è quel verso delle dita che è impressionante e che, come vi ho detto, ricorda quanto avvenne a D. Bednyj  (il poeta che Esenin chiamava “Demjan., figlio di lacchè”), famoso poeta di origine proletaria, dell’epoca della rivoluzione, il quale per un certo periodo è sembrato essere l’espressione suprema.

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 (nota 138 ,pag. 49)

Ripellino, , mi pare che dia a questi versi soltanto un giudizio estetico, quando invece ha anche un altissimo valore etico: è un attacco, pare, senza precedenti, contro uno spietato tiranno,  nella storia della poesia mondiale del secolo trascorso!  Ma non è difficile trovare altri e alti esempi nel passato: Mandel’štam amava Andrea Chenier, su cui scrisse le sue Note. Ma pure esempi contrari contemporanei, come p.e.  Montale e Ungaretti che chiesero, supplicando, un sussidio al potere! ///// Tra l’altro A. Wat, il futurista polacco, ci riferisce finalmente il nome di quell’intellettuale russo, Pëtr Pavlernko, che tradì Mandel’štam, che era “proprio un uomo della CEKA, tutti lo sapevano. Questo è un inédit, non ho ancora letto da nessuna parte che fu lui a tradirlo”.(pag. 596)- Lo slavista A. M. Ripellino di certo conosceva il futurista Wat, ma non lesse l’intervista “Il mio secolo”, altrimenti avrebbe menzionato di certo il nome del traditore di Mandel’štam, Pëtr Pavlernko, che fu noto per aver collaborato alla sceneggiatura dell’Aleksander  Nevskij  di Èjzenštejn. ||||| Il mio secolo. Memorie e discorsi con Czesław Miłosz, a cura di Luigi Marinelli, Palermo, Sellerio, 2013.

———————————– posegue Ripellino:

    Secondo il racconto di Nadežda Mandel’štam, il poeta fu chiuso alla Lubjanka, dove gli fecero le cose abituali in quel tempo, cioè interrogazioni notturne, iniezioni di scopolamina (per confondere la sua memoria), lampada accecante negli occhi, liquido abrasivo negli occhi quando guardava nello spioncino, cibi salati, mancanza di acqua da bere, ecc

Anna Akhmatova

L’Achmatova racconta che:

  Una mattina telefonarono a Nadežda e le proposero se voleva andare col marito; e, in questo caso, di essere dopo due ore alla stazione di Kazan’. Nina Ol’ševskaja-Ardova ed io (l’Ol’ševskaja era un’amica della Achmatova) andammo a raccogliere un po’ di soldi per il viaggio, e ci diedero molto. La moglie dello scrittore Bulgakov cominciò a piangere e mi ficcò nella mano tutto quello che conteneva il suo borsellino. Andammo in due alla stazione con Nadežda, ma prima passammo alla Lubjanka, per prendere i documenti. Il giorno era chiaro e luminoso, da ogni finestra ci guardavano i baffacci di scarafaggio. E alla stazione fecero incontrare Nadežda e il marito e partirono insieme sorvegliati da due gendarmi della NKVD per il confino.

Nadezhda Mandelstam

Dice la moglie, Nadežda:

    Se Mandel’štam fosse stato mandato al canale sarebbe morto nel ’34 e non nel ’38.

   Quindi descrive tutti i cambi di treno. A Sverdlovsk sotto scorta; poi sul treno Sverdlovsk-Solikamsk nella regione degli Urali. Lui già malato e con una specie di delirio. Da Solikamsk poi sul battello all’ospedale di Čerdyn’ dove Mandel’štam tentò di uccidersi saltando dalla finestra, ma cadde su uno strato d’argilla dissodata; gli rimase l’omero fratturato e a lungo non poté muovere il braccio destro, che poi gli fu curato nel soggiorno a Voronež . Čerdyn’, dove furono assegnati, era una cittaduzza sul fiume Kama, che entrava nel sistema dei lager del NKVD (c’era tutto un sistema che Solženicyn ha descritto nell’ Arcipelago Gulag).

    Era una cittaduzza di quelle scelte dalla polizia politica per i condannati, una delle tante della rete dei lager. Mandel’štam infermo, soffre di allucinazioni auricolari in seguito alla prigionia alla Lubjanka, allucinazioni in conseguenza degli interrogatori notturni (Mandel’štam, come ha detto Il’jà Erenburg, era un uomo che aveva paura del dentista). Sente voci minacciose che gli comminano tutte le pene possibili, sente soprattutto una voce lontana di donna; ha angoscia che vengono a prenderlo, ha parossismi di terrore, e insieme accessi di asma.

Quando più tardi nel ’36 si incontreranno a Voronež, l’Achmatova scriverà:

  Egli mi ha raccontato che in un accesso di pazzia si mise a correre per tutta Čerdyn’ e che cercava il mio corpo fucilato e ne parlava a voce alta a chiunque incontrasse; e aveva scambiato i festoni, posti in onore dei marinai della Čeljuškin (cioè quelli della spedizione al Polo Nord della nave Čeljuškin, che tornarono come eroi), che li considerava  in onore del mio arrivo.

     Ed ecco a Čerdyn’, dopo tre mesi, lo raggiunge la commutazione della pena voluta da Stalin (in seguito all’intervento di Bucharin). Stalin gli permetteva di scegliere, tranne dodici escluse, una qualsiasi località, ma c’era un elenco di altre nelle quali poteva stare in soggiorno obbligato, e Mandel’štam sceglie Voronež. (Voronež allora era un luogo di confino).

   Sembra che Mandel’štam l’abbia scelta a caso; curiosamente a Voronež era uscito un suo articolo sull’Acmeismo, in una rivistina.  Era una città tetra in cui scarseggiava il pane; piena di ex-kulaki (i contadini ricchi) che erano degli sbandati e giravano per il paese, non ancora deportati oppure fuggiti dai kolchoz, che chiedevano l’elemosina; poi case fatiscenti, sovraffollate, col pericolo della denuncia dei vicini, dei padroni di casa, in un clima di sospetti, di parassiti, in convivenza con gente crudele, sospettosa.

    I Mandel’štam cambiarono più volte casa, perseguitati dai proprietari. In fondo essi non avevano mai avuto una casa propria, tranne quel periodo a Mosca, in quell’appartamentino e senza alcun diritto, sempre sotto la minaccia di un nuovo arresto.

   Il ’35 e il ’36 è un’epoca di estrema povertà per loro. Egli fa piccoli lavori a Voronež; all’inizio fa il direttore letterario del teatro locale, e lavorò anche per la radio locale, facendo delle brevi introduzioni per trasmissioni musicali, in particolare per Orfeo e Euridice di Gluck; tradusse persino canzonette napoletane (148) per una cantante e fece piccole trasmissioni per i bambini; soprattutto lo aiutavano gli artisti locali in gran parte esiliati che avevano dato vita a questo teatro.

   Nadežda di tanto in tanto compiva dei viaggi a Mosca per trovare aiuti, soprattutto da Šklovskij e da Pasternàk, oltre che dai parenti. Mandel’štam in questo periodo ha una stagione di straordinaria fioritura artistica, i versi gli colano a fiotti. Scrive un immenso numero di poesie, che la moglie subito imparava a memoria per paura che andassero perdute.

   Come se sentisse l’avvicinarsi della fine, aveva fretta e furore di lavorare, anche perché aveva molti attacchi di angina pectoris in questo periodo. Per qualche settimana, raccolti un po’ di soldi, andarono a Tambov, ma tornarono subito a Voronež. 

   Immaginate la difficoltà di lavorare in stanze strette, sempre con altri nella stessa stanza; la moglie racconta che si accovacciava nel letto, fingendo di dormire perché egli potesse lavorare. Quindi isolamento completo in queste tane di Voronež, con questi aiuti degli amici di Mosca e con una sempre crescente malevolenza della gente che guardava male questi esiliati. Gli unici che lo aiutassero erano gli attori e gli artisti del teatro locale. Siamo nel periodo in cui si avvicinavano i grandi processi del ’36, 37 e ’38. Alla fine del ’36 il teatro fu abolito a Voronež e svanì anche il lavoro del giornaletto che pubblicavano.

nota 148, pag. 54

(148)  Perché Mandel’štam  si interessa di canzonette napoletane?. Già nel cabaret Il cane randagio che Mandel’štam frequentò si cantavano queste canzonette; lavorava infatti come cantante Grigorij Fabianovič Gnesin di origine ebrea (i cui fratelli fondarono l’Accademia Russa di Musica). Ritornato in patria dall’Italia “pubblica alcune canzoni napoletane con delle traduzioni dei testi in russo: è il primo divulgatore della canzone partenopea in Russia ”[°]- Entra in contatto col critico K. Čukovskij, con Repin e con Mejerchol’d; viene arrestato nel 1937 e fucilato poco dopo. Suo fratello Michaíl Gnesin lavorò con nuove musiche [°°] al Revisore di Mejerchol’d  del 9 dicembre 1926. Ma le prime collaborazioni col regista risalgono al periodo “1913-1916 negli Studi teatrali di via Povarskaja e via Borodinskaja a San Pietroburgo”[*]. È assai probabile che Mandel’štam e Grigorij Gnesin si siano incontrati al cabaret Il cane randagio; o che ne abbia solo sentito parlare di Gnesin;  Mandel’štam ne fu attratto, e forse  così si spiega il suo interesse per le canzonette napoletane. [°- A. Gullotta, La memoria, il terrore, il terrore della memoria”, in: eSamizdat, 2010]; [°° A.M.Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia,op.cit. p. 139]. – Riferisce Nadežda Mandel’štam in  L’epoca e i lupi, op. cit. 1971, p. 221, che Mandel’štam ”…aveva  ascoltato alla radio Marian Anderson [ soprano americana (1897-1993)]  e il giorno precedente era stato a visitare un’altra cantante, espulsa da Leningrado. Per lei Mandel’štam aveva fatto una traduzione libera di certe canzonette napoletane, da cantare poi  alla radio, dove in quel periodo tutti e due riuscivano a guadagnare qualche soldo”. Di certo la poesia di Mandel’štam del 12 febbraio 1937 “Sono affondato nella  fossa dei leoni” ,che è l’ultima del Secondo quaderno di Voronež, è stata creata dopo quell’ascolto. /////  [*] in:– Lezione del 24/03/2010 – di Dmitry Trubochkin.  ////// Si deve sottolineare che, a proposito di canzoni napoletane, la celeberrima  O sole mio fu composta in Russia, ad Odessa nel 1898, da Eduardo Di Capua (1865-1917) su parole di Giovanni Capurro. Il  Di Capua si era imbarcato su una nave da crociera come pianista; durante un soggiorno a Odesssa  si narra che, guardando dalla finestra dell’albergo il sole ucraino nascente  riflettere sul Mar Nero, sentisse nostalgia del sole di Napoli, e allora cominciarono a sorgere in lui le prime note di quella canzone, che poi sarà universalmente conosciuta in tutto il mondo.


 


3 risposte a "Antonio Sagredo – Osip Mandel’štam e le canzonette napoletane"

  1. 22 ottobre 1938

    Osja, amico mio lontano! Mio caro, non trovo le parole per questa lettera che tu, forse, mai leggerai. La scrivo allo spazio. Magari tu ritornerai e io non ci sarò già più. Questo allora sarà l’ultimo ricordo di me.

    Osjuša, la nostra vita da bambini, che felicità è stata! I nostri litigi, i nostri battibecchi, i nostri giochi e il nostro amore. Ora non guardo nemmeno più il cielo. A chi dovrei mostrare le nuvole che scorgo? Ricordi quando trascinavamo i nostri miseri banchetti alle nostre povere case randagie, da nomadi? Ricordi com’è buono il pane quando cade dal cielo e lo si mangia in due? E l’ultimo inverno a Voronež. La nostra felice miseria e le poesie. Ricordo: tornavamo dalla banja, avevamo comprato delle uova, o forse delle salsicce. Passò un carro di fieno. Faceva ancora freddo e io m’assideravo nella mia giacchetta (forse è il nostro destino: so quanto freddo hai tu). E quel giorno mi si è impresso nella memoria: ho sentito, chiaro da far male, che quell’inverno, quei giorni, quelle disgrazie erano l’ultima e la migliore felicità che avevamo in sorte.

    Ogni mio pensiero è rivolto a te. Ogni lacrima e ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, amico mio, mio compagno di viaggio, amata, cieca guida mia… Come cuccioli ciechi sbattevamo l’uno contro l’altro, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante e tutta la follia, con la quale scaldavamo i nostri giorni. Che felicità era e come abbiamo sempre saputo che proprio quella era la felicità.

    La vita è lunga. Com’è lungo e difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi, inseparabili, tocchi questo destino? Noi, cuccioli, bambini… tu, angelo, l’hai forse meritato? E tutto va avanti. Io non so nulla. Eppure so tutto e, come in un delirio, vedo ogni tuo giorno, ogni tua ora nitida e chiara.

    Sei venuto da me in sogno ogni notte e io continuavo a chiederti cosa fosse successo e tu non rispondevi. L’ultimo sogno: sto comprando del cibo nel lurido bar di un lurido albergo. Con me ci sono dei completi sconosciuti e io, dopo aver comprato tutte queste cose, capisco che non so dove portarle, perché non so dove sei tu. Quando mi sono svegliata ho detto a Šura: Osja è morto.

    Non so se tu sia vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove tu sia. Puoi sentirmi? Sai quanto ti amo? Non ho fatto in tempo a dirti quanto ti amo. Non riesco a dirlo nemmeno ora. Dico soltanto: per te, per te… sei sempre con me e io – selvatica e cattiva, che mai ho saputo semplicemente piangere – io piango, e piango, e piango. Sono io, Nadja. Dove sei? Addio.

    Nadja

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  2. prezioso documento, letto d’un fiato. grazie.
    pensavo… buffo che sovente sia più potente la poesia della Poesia! emblematico in tal senso il commento di Ripellino: “l’unica volta che scrisse una poesiola abbastanza futile e superficiale, con piene parole e pieni accenni, incappò subito nella repressione”. curioso rammarico… saremmo qui oggi a parlare di Mandel’štam se non avesse scritto i versi sul montanaro del Cremlino? a veggenti e sensitivi l’ardua sentenza.
    : )
    vieppiù, pensavo… una moglie che “subito impara a memoria le poesie del marito per paura che vadano perdute”, ecco, questo sì che è amore!!! ghh… invidia… mia moglie si suiciderebbe piuttosto che imparare a memoria anche una sola neurodelirica (e come darle torto!)
    eniuei, sebbene razzolasse male, Mandel’štam predicava bene: cari poeti, l’unica opzione possibile è sempre quella, come recita la morale della Girella, e cioè fuggire “a una stazione, ad un binario, dove nessuno ci possa trovare”.
    in ogni caso, Stalin era davvero un principiante: abolire il teatro a Voronež è poca cosa… molto più efficace abolire direttamente ogni forma d’arte, no? (mercato globale docet)

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