Giancarlo Locarno: Poeti per il Casanova di Fellini

Andrea Zanzotto è stato l’interlocutore privilegiato nella definizione della lingua del film Casanova, che Fellini  voleva fosse “un’estrosa promiscuità tra il dialetto ruzantino e il veneto goldoniano”  che potesse riflettere “il riverbero della visionarietà stralunata che mi sembra di aver dato al film”, così il regista scrive in una lettera a Zanzotto, che a sua volta riporta nel volumetto Filò, edizioni del Ruzante-1976, insieme ai versi scritti per il film.

Nelle sue richieste Fellini si sofferma in particolare su due scene, la prima è quella del rito lagunare all’inizio del film, che sembra sostituire “lo sposalizio col mare”, che il doge celebrava nel giorno dell’ascensione, gettando un anello d’oro nella laguna. Venezia è impersonata da questa testa monumentale  di donna che sorge dalle acque e poi vi sprofonda. Si presenta da subito il tema della donna, che percorre tutto il film, la donna ha sempre una dimensione di alterità, gli uomini sono uomini, magari con un po’ di cipria e qualche stranezza, la donna invece non è naturale, volta a volta è un idolo, una gigantessa, una grande balena e alla fine anche un’automa, è la rappresentazione di come  Fellini vuole che Casanova veda la donna.

Un viaggio intorno alla donna di un’immaginazione maschile che non nasconde le sue pulsioni sessuali, voyeuristiche e nevrotiche, la donna è un insieme di fantasie, magari condite con molta ironia e arguzia, ma non è mai una donna reale.

Al link seguente la scena iniziale del Casanova con il recitativo, del quale riporto il testo.

https://www.youtube.com/watch?v=qU8cNe0Qjf4

Recitativo veneziano

Vera figura, vera natura,
slansada in ragi come’n’aurora
che tuti quanti te ne inamora:
aàh Venessia aàh Regina aàh Venusia

to fia xé ’l vento, siroco e bora
che svegia sgrisoli de vita eterna,
signora d’oro che ne governa
aàh Venessia aàh Venegia aàh Venusia

Testa santissima, piera e diamante,
boca che parla, rece che sente,
mente che pensa divinamente
aàh Venessia aàh Regina aàh Venusia

par sposa e mare, mora e comare,
sorela e nora, fiola e madona,
ónzete, smólete, sbrindola in su
nu par ti, ti par nu
aàh Venessia aàh Venòca aàh Venessia

Metéghe i feri, metéghe i pai,
butéghe in gola ‘l vin a bocai,
incononàla de bon e de megio;
la xé imbriagona, la xé magnona,
ma chissà dopo ma chissà dopo
cossa che la dona!

Mona ciavona, cula cagona,
baba catàba, vecia spussona,
Toco de banda, toco de gnoca,
Squinsia e barona, niora e comare,
sorela e nona, fiola e madona,
nu te ordinemo, in sùor e in laòr,
che su ti sboci a chi te sa tòr.

Questo idolo di  donna gigante che sprofonda a Venezia, Casanova sembra ritrovarlo a Londra, in una gigantessa Veneziana venduta come fenomeno da baraccone, che spia mentre si lava sprofondando in una botte accudita da due nani napoletani. Per questa seconda scena Zanzotto ha composto sempre in dialetto  la “Cantilena londinese”

La gigantessa

CANTILENA LONDINESE

Pin Penin
valentin
pena bianca
mi quaranta
mi un mi dòi mi trèi mi quatro
mi sinque mi sie mi sète mi òto
buròto
stradèta
comodèa–
Pin Penin
fureghin
perle e filo par inpirar
e pètena par petenar
e po’ codini e nastrini e cordèa–
le xe le comedie e i zoghessi de chèa
che jeri la jera putèa
Pin Pidin
cossa gastu visto?
‘Sta piavoleta nua
‘sto corpesin ‘ste rosette
‘sta viola che te consola
‘sta pele lissa come sèa
‘sti pissigheti de rissi
‘sti oceti che te varda fissi
e che sa dir “te vòi ben”
‘ste suchete ‘sta sfeseta–
le xe belesse da portar a nosse
a nosse composte de chéa
che jeri la jera putéa
Pin Penin
valentin
o mio ben,
te serco inte’l fogo inte’l giasso
te serco e no ghe riesso
te serco e no ghe la fasso,
pan e dedin
polenta e nasin–
chi me fa dormir
chi me fa morir
tuta pa’l me amor
chi me fa tornar
coi baseti che ciùcia
coi brasseti che struca
co la camiseta più bèa–
le xe le voje i caprissi de chèa
che jeri la jera putèa
Pin pidin
valentin
pan e vin
o mio ben,
un giosso, solo un giosso,
te serco inte’l masso
te serco fora dal masso
te serco te serco e indrio sbrisso,
chi xe che me porta’l mio ben
chi me descanta
chi me desgàtia
chi me despìra
pan e pidin
polenta e nasin
polenta e late
da le tetine mate
da le tetine beate–
i xe zoghessi de la piavoleta
le xe le nosse i caprissi de chèa
de chèa
che jeri la jera putèa.
 

Tonino Guerra è invece l’autore del testo della Grande Mouna, la grande  balena nella quale un imbonitore invita ad entrare, Mouna deriva dalla “mona” veneta, parola che indica il sesso femminile, ma anche uno stupido: “un mona”.

Questa scena mi sembra rappresenti un viaggio a ritroso intorno alla donna da parte di uomini incuriositi e spaventati che si conclude col rientrare alla fine nell’utero, e mi richiama anche tutte le balene letterarie, quella di Giona, di Pinocchio e anche la balena bianca di Melville, che forse hanno lo stesso senso regressivo.  L’interno della Mouna è tappezzato coi disegni di Roland Topor proiettati da una lanterna magica, dai chiari significati sessuali che amplificano l’interpretazione precedente.

L’imbonitore (con uno strumento in mano, chiamando la folla): The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita ad entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna…
La Mouna è una porta che conduce chissà dove,
un muro che devi buttare giù. (ride)La Mouna è una ragnatela, un imbuto di seta,
il cuore di tutti i fiori. (ride)
La Mouna è una montagna bianca di zucchero,
una foresta dove passano i lupi,
è la carrozza che tira i cavalli.
(ride ancora; con lui ridono le donne sull’altalena) La Mouna è una balena vuota,
piena d’aria nera e di lucciole,
un forno che brucia tutto.
(volto di donna guerriera, dall’aspetto terribile) La Mouna, quando è ora,
è la faccia del Signore;
è la sua bocca. (ride ancora)
(uomini salgono la scaletta che porta all’interno della balena)
E’ dalla Mouna che è venuto fuori il mondo
con gli alberi, le nuvole, gli uomini;
uno alla volta, di tutte le razze:
dalla Mouna è venuta fuori anche la donna…
Evviva la Mouna, la Mouna, la Mouna… (ripete più volte, sfumando)

Un altro testo che vale la pena di ricordare è la cantata “Il cacciatore di Württemberg”

di Carl A. Walkon, che viene eseguita nella stanza degli organi, quando Casanova incontra la donna meccanica. Di questo autore, a me sconosciuto,  non ho trovato nessuna informazione, riporto il testo originale e una traduzione “di puro servizio”.

Der Jäger von Württemberg

Coro: Denken. Dusle, immer etwas denken !

           Wird man denn Soldat aus Liebeswut?

           Nacktfrösch, du schufst Babeli Bedenken,

           nicht triebst du ihr unerwecktes Blut.

Solista: Dachte im Traum ihrn hellblonden Zopf .

Coro: Schwärmer, Schwabe, stankst, du Wiedehopf!

Solista: So geht es zu. O heilger Christ!

Coro: Hunde haben Aktaion zerrissen,

           der Artemis splitternackel sah —

           denn die Göttin hatte ihr Gewissen

           nicht zur Hand, doch Hunde waren da.

Solista: So geht es zu. O heilger Christ!

Coro: Seelen auf w ärts, Leiber in das Erdreich.

Solista: Erdreich presst ein, der Himmel nicht.

Coro: Denken, Dusle, immer etwas denken !

           Wird man denn Soldat aus Liebeswut?

           Nacktfrosch, du schufst Babeli Bedenken. nicht triebst

           du ihr unenvecktes Blut.

Solista: Dachte, im Traum ihm hellblonden Zopf.

Coro: Schwärmer, Schwabe, stankst, du Wiedehopf!

Il cacciatore di Württemberg

Coro: Pensi, Dusle, tu pensi sempre a qualcosa!

           Può mai un uomo diventare soldato per rabbia d’amore? Ranocchio, ti sei

           creato una Babele di pensieri, ma non hai saputo

           risvegliare in lei sangue mai acceso.

Solista:  Pensavo in sogno alla sua treccia biondissima.

Coro: Sognatore di Svevia, puzzi come una puzzola.

Coro: Cani hanno azzannato Àtteone,

           ohe aveva visto Artemide completamente nuda –

           la dea era ignara, ma c’erano i cani.

Solista: Così succede, oh Cristo Santo!

Coro: Anime elevate, corpi in terra.

Solista: La terra imprigiona, il cielo libera.

Coro: Pensi, Dusle, tu pensi sempre a qualcosa!

           Può mai un uomo diventare soldato per rabbia d’amore? Ranocchio, ti sei   

           creato una Babele di pensieri, ma non hai saputo

           risvegliare in lei sangue mai acceso.

Solista:  Pensavo in sogno alla sua treccia biondissima.

Coro: Sognatore di Svevia, puzzi come una puzzola.

Da ultimo, non posso dimenticare  “ La mantide religiosa”, testo di Antonio Amurri, interpretato da

Daniel Emilfork Berenstein.


Una risposta a "Giancarlo Locarno: Poeti per il Casanova di Fellini"

  1. Grazie Giancarlo! Grande il contributo di Zanzotto con il suo “petèl”, lingua giocosa e vezzeggiativa dell’infanzia magica e misteriosa, che si sposa a meraviglia con la continua (ossessiva) e struggente ricerca felliniana di archetipi femminili.

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