
Meno male che c’era lo zio Sergio con le sue trovate a portare un po’ di fantasia creativa nel cortile. Una volta ha comprato la batteria, l’ha sistemata in garage e la suonava tra i fulmini che gli scagliava mia nonna e in controcanto alle sue giaculatorie imprecative. Un’altra volta i dischi per imparare lo spagnolo, poi è venuto il magnetofono, una magia, come ci divertivamo a sentire la nostra voce registrata sul nastro che cantava una canzoncina. La domenica andava dietro ad un pittore, voleva imparare a dipingere en plein air, e portava anche me. Ma tutte queste attività duravano poco, perché non aveva nessun incoraggiamento dal resto della famiglia. Veniva criticato come se sperperasse le energie, secondo loro doveva lavorare e poi riposarsi per poter lavorare ancora, al tempo libero veniva tutt’al più concessa la sedia del trani nel faietto, in una lunga estenuante e noiosa attesa della morte; per questo dopo un po’ di iniziale euforia subentrava inevitabilmente lo scoraggiamento.
Questa volta aveva portato a casa un libriccino di Trilussa :”Acqua e vino – Ommini e bestie – Libro muto”, forse un oscar Mondadori. Mi ha detto che era molto bello, e che me l’avrebbe fatto leggere. Io avevo sette o otto anni, e facevo le scuole elementari.
A casa non avevamo libri, e devo dire che mamma non ha mai letto un libro in vita sua. Vivevo con mia nonna che era uguale. Lei diceva che siamo una famiglia di ignoranti. Ogni tanto mi raccontava di quando era piccola, aveva fatto cinque anni di scuola, tre di prima e due di seconda, perché doveva curare i fratellini. A dieci anni aveva cominciato a lavorare in una filanda dove già c’era sua mamma. Una volta mi ha anche detto, malcelando una certa malinconia, che era diventata vecchia senza aver mai visto il mare, questo ha fatto sentire anche me un po’ infelice, anch’io non l’avevo mai visto, però capivo di avere più futuro per poterci andare, prima o poi. Ci ricordava che nostro destino era quello di andare a lavorare il prima possibile, appena finita la scuola dell’obbligo, che allora era la terza media. Ma tutti i vaticini di mia nonna per nostra fortuna non si verificavano quasi mai, come sibilla non valeva un granché.
Comunque il libro l’ho letto tutto, era un dialetto romano comprensibilissimo anche da un bambino come me, l’avevo trovato bellissimo, parlava di situazioni e di persone che avrei potuto osservare nel mio paese. Aveva come la capacità di estrarre i loro pensieri nascosti, e mi bastava uscire dal cortile per farmeli trovare davanti appiccicati alla faccia del macellaio o del pollivendolo.
C’era poi quella poesia, la trascrivo a memoria: “mentre bevo mezzo litro\ de frascati abboccatello\ Guardo er muro der tinello\co le macchie de salnitro\ Guardo e penso certe vorte \ com’è buffa la natura\ che prepara na figura\cor salnitro e co la muffa…”, che mi riguardava, perché nella camera dove dormivo con mia nonna tra le travi di legno del soffitto, prima di addormentarmi, vedevo anch’io quelle figure che si formavano con le macchie, così vivide e ogni volta diverse. Era bello sapere che non ero solo io a fare quell’esperienza. Avevo trovato anche una cosa che ci accomunava.
Ho chiesto a mio zio se me lo poteva regalare, ma lui ha detto che lo doveva restituire, me l’avrebbe lasciato ancora per un po’ di giorni. Ho pensato allora di ricopiare qualche poesia, ma non avevo quaderni oltre a quelli della scuola, non avevo nemmeno una penna biro, perché alle elementari si scriveva col pennino e l’inchiostro, la penna biro si sarebbe usata dalle scuole medie. Come carta pensavo di staccare un paio di pagine dal quaderno a righe, anche se era un misfatto non se ne sarebbe accorto nessuno, ma purtroppo avevo già superato con la scrittura metà quaderno, e la cosa era ormai diventata impossibile. Ho pensato ad un’altra soluzione, quella di utilizzare la carta che avvolge il salame. Così ne ho conservati tre fogli.
Non volevo sapessero quello che stavo facendo, allora l’ho fatto la sera, prima di cena, quando alla televisione trasmettevano “Non è mai troppo tardi”. Mia nonna voleva sempre che lo guardassi. Di solito gli dicevo che sapevo già scrivere, e che le a e le b forse era meglio che le studiassero lei e il nonno. Rispondeva che ormai erano troppo vecchi, io gli ribattevo che se “non è mai troppo tardi” non lo è anche per voi, solo che non ne avete voglia. Mia nonna in realtà sapeva leggere, e scriveva delle lettere a sua sorella a Bergamo, io allora pensavo che Bergamo fosse abbarbicata su una montagna altissima in capo al mondo. Cominciavano sempre con “Carissima sorella”, così se volevo canzonare nonna la chiamavo ridendo carissima sorella.
Mi raccontava che suo papà, che ci guardava da una foto in cucina e a me sembrava Peppone, era analfabeta, ma ha voluto imparare a leggere e scrivere a cinquant’anni suonati per poter votare. Quindi alla fine non era poi vero che siamo una famiglia di ignoranti.
Insomma, mentre facevo le mie prove loro pensavano che mi stessi esercitando scrivendo quello che il maestro dettava. Ma dopo ripetuti tentativi ho dovuto rinunciare, né con il pennino né con la matita riuscivo a scrivere, la carta era troppo oleosa non rimaneva nulla di leggibile. A questo punto l’unica cosa che potevo fare era imparare un po’ di poesie a memoria, così ho fatto, tanti versi me li ricordo ancora oggi, e poi ho dovuto restituire il libro. La cosa più incredibile se ci penso è che non mi era passata minimamente per la mente la soluzione più semplice, quella di chiedere a papà di comprarmi un quadernetto, sicuramente non me l’avrebbe negato, magari mi avrebbe solo chiesto a cosa mi serviva, ma forse, perché nella mia mente il quaderno era collegato e riguardava solo la scuola, ad un uso al di fuori di quello allora non ci arrivavo nemmeno col pensiero.
Un altro libro è piovuto dal cielo l’anno successivo. Il dottor U. aveva lasciato in eredità a mio nonno una cassapanca di legno piena di libri. Il dottor U. e il nonno avevano cementato la loro amicizia nelle trincee della prima guerra mondiale, mio nonno era un ragazzo del novantanove, e in quella circostanza era l’attendente del dottor U., che era un ufficiale medico ed era molto più anziano, questo legame cameratesco nato in guerra è rimasto poi saldo per tutta la vita. Nonno era un socialista, per un litigio i fascisti gli hanno bruciato la casa, la famiglia ha perso tutto, le cose e gli animali. Per questo suo padre si è impiccato. In più mio nonno ha dovuto nascondersi, e si è nascosto per due anni proprio nella casa del dottor U., il figlio del quale era una personalità del partito fascista, e quindi era un posto sicuro, nessuno si sarebbe sognato di cercarlo proprio là.
Tornando ai libri, nonna non era contenta, diceva che avrebbe dovuto conoscerci, poi la solita solfa dell’ignoranza e del fatto che noi non leggiamo i libri, e che sarebbe stato meglio se ci avesse lasciato una stoffa o qualche mobile o qualcosa di più utile.
Nonno invece, baltrascanandola un po’ sù e tirandogli dietro anche qualche saracca, difendeva l’amico, diceva che se gli ha lasciato i libri aveva le sue ragioni, e andava bene così. Ho provato a dire a nonna che io e i miei fratelli saremmo presto diventati grandi, e avremmo potuto avere bisogno di quei libri. Ma non c’è stato verso, la cassa sarebbe stata data a una cugina di mamma che aveva studiato da maestra, a noi non servivano perché non eravamo “sciuri” e non servivano per lavorare.
E così venne fatto. Io però rovistando nella cassa avevo trovato un libro che mi piaceva e l’avevo “rubato”. Parlava della guerra dei topi e delle rane, mi ricordo ancora dei passi a memoria. Solo molti anno dopo ho capito che era “Paralipomeni della batracomiomachia” del Leopardi, e questo è stato il primo libro che ho davvero posseduto.
La mia biblioteca si è arricchita di un secondo libro in prima media, l’ho ottenuto da un compagno di classe in cambio di qualche Zagor, era: “Il mistero di Sherlock Holmes” di Pier Carpi. Da una parte è stato una delusione, perché mi aspettavo che sviscerasse il personaggio di Sherlock Holmes, come fosse una persona reale.
Era invece era una biografia di Conan Doyle, parlava della sua vita, delle guerre e dei romanzi scritti che non centravano niente con Sherlock Holmes. Però una cosa me l’ha insegnata: che esiste l’autore. Prima non ci avevo mai pensato, forse perché i libri che conoscevo erano quelli di scuola, e non si è mai parlato del fatto che il sussidiario o il libro di matematica avessero un autore, era come se si fossero fatti da sé. O forse erano nati perché qualcuno si era preso la briga di trascrivere quello che sapevano tutti, come afferrare le cose che giravano nell’aria e fermarle nel libro. Invece tutti i libri hanno il loro autore e per l’autore di questo libro, accidenti, sembrava una cosa importante.
Alla fine dell’anno scolastico, ho ricevuto una lettera che mi diceva di aver avuto in premio un abbonamento alla biblioteca di Gallarate. Ero contento, però qualcosa non mi quadrava e mi rodeva, nessun’altro dei miei amici l’aveva ricevuto, allora ho chiesto a mamma: “Mamma, mi danno l’abbonamento perché siamo poveri?, Sanno che non abbiamo libri e allora ci fanno prendere quelli della biblioteca?”.
Mia mamma mi ha tranquillizzato rispondendo: “Guarda che non siamo così poveri come puoi pensare, siamo una normale famiglia di operai, come quella di quasi tutti i tuoi amici, è vero che io e papà non leggiamo libri, ma il premio te l’hanno dato perché vai bene a scuola”.
Mi sono fatto spiegare dov’era la biblioteca, ho preso la mia bicicletta e sono andato fino a Gallarate. La biblioteca è un edificio austero, nel ventennio era “la casa dei Balilla” . Si viene accolti da un grande atrio che incute un certo timore e rispetto, in fondo all’atrio un bancone al quale si affacciavano due bibliotecari. Ho mostrato la lettera, e mi hanno fatto la scheda. Un mio amico mi ha detto che suo fratello andava in biblioteca e si faceva dare degli Urania, e io ho fatto la stessa cosa, per prendere un po’ di confidenza, ho chiesto degli Urania. Me ne hanno portati una bella pila, tra i quali ne ho scelti tre, quelli che pensavo di leggere in un mese; perché i libri presi in prestito dovevano essere restituiti entro trenta giorni. Così ho fatto per diversi mesi.
Non rinnego certo gli Urania, con i quali ho scoperto tanti autori interessanti, prima di tutti Asimov, ma anche Sheckley, Bradbury e Vonnegut, che leggo ancora con piacere, ma ad un certo punto volevo leggere i libri che decidevo io. Come primo mi sarebbe piaciuto leggere “L’ultimo dei Mohicani”, così sono andato al bancone e l’ho chiesto. Il bibliotecario mi ha risposto che non si fa così, lui non può trovare a memoria i libri, dovevo scrivere sulla scheda l’autore, il titolo e le coordinate per individuare la posizione del libro. Non avevo la minima idea di come trovare quei dati, soprattutto le coordinate. Così rassegnato ho chiesto ancora un pacco di Urania, e sono tornato a casa un po’ scornato ma pensando ad una strategia per arrivare a capire come funzionava la biblioteca.
Il mese successivo non vado direttamente al bancone, ma mi fermo all’inizio dell’atrio, aspettando che entri qualcun altro, ci vuole tempo, la biblioteca è quasi sempre vuota. Dopo un po’ arriva un ragazzo, di qualche anno più grande di me, vedo che apre un cassettino e fruga dentro con le mani. Mi avvicino: “scusami” gli chiedo “puoi dirmi come trovare i dati dei libri, non so proprio come compilare la scheda e trovare le coordinate, è la prima volta”.
Lui ha avuto un sobbalzo e mi ha guardato come si guarda un somaro. Ma poi mi ha spiegato : “ Guarda questo cassetto, è pieno di schede, una per ogni libro, e qui” puntando col dito “ci sono anche le tue famose coordinate”
Una spiegazione di trenta secondi ha totalmente e improvvisamente cambiato la mia percezione della biblioteca, quello non era un atrio ma un enorme schedario. Ho aperto anch’io qualche cassetto e devo dire che mi sono ambientato subito. Non sapevo chi fosse l’autore dell’ “Ultimo dei Mohicani”, allora ho preso “I miserabili” di Victor Hugo, perché in quel periodo trasmettevano in televisione l’omonimo sceneggiato che mi aveva tanto interessato.
Eh beh, è stata una lettura entusiasmante quel fluire delle frasi come onde, mi ricordo ancora il canto di Gavroche sulle barricate, e in francese. Il mese dopo ho preso “Nôtre Dame de Paris”, poi, a poco a poco tutti i narratori francesi, a scuola studiavo il francese, Balzac, Flaubet, Zola, anche Laclos, e perfino qualcosa di Restif De la Bretonne, e questo nell’edizione francese, perché così se anche ai miei genitori venisse voglia di vedere cosa leggevo non avrebbero capito niente.
Questa visita alla biblioteca era diventata un appuntamento irrinunciabile, per tutte le scuole medie e le superiori. Dai francesi ero poi passato ai russi, credo di aver letto tutto quello che ha scritto Dostoevskij, esauriti i quali ho cominciato con gli americani, cito solo il bellissimo Babbit di Sinclar Lewis e i romanzi di Dos Passos, ma c’erano anche tutti gli altri, alla fine l’unico che non ho mai letto è stato giusto l’Ultimo dei Mohicani.
L’ho lasciata a malincuore, come si lascia una fidanzata, durante l’università. Per i miei studi, non c’era più niente che potesse servirmi, i libri di matematica e fisica che aveva erano ancora quelli dell’ottocento, allora forzatamente ho dovuto frequentare le biblioteche di Milano.
Avevo cominciato poi a dare lezioni di matematica e potevo permettermi di comprare qualche libro, c’era la vecchia edizione della Bur, quei libri con la copertina grigio-topo, costavano pochissimo e vi si trovava di tutto.
Ma c’è un’altra cosa che ho imparato in quelle frequentazioni, mi hanno insegnato che i libri come le chiavi possono aprire o chiudere, e possono anche scacciarci.
Una volta avevo preso il saggio “Leonardo omo sanza lettere” di Giuseppina Fumagalli, in esergo aveva una frase di Leonardo: “ Non mi legga \ chi non è matematico \ nelli mia principi”. Ho visto papà che ha aperto il libro, ha girato una pagina e, improvvisamente si è fermato, come avesse preso una sassata in faccia, ha chiuso il libro e se n’è andato.
Papà aveva letto l’esergo e si è sentito respinto, non era un matematico, aveva la quinta elementare, era come se il libro gli avesse detto “vattene, non sei degno di leggermi!”. Sono intervenuto, facendo finta di niente, gli ho detto che era un libro facile, sulla vita di Leonardo, non servivano particolari conoscenze, e se voleva glielo prestavo. Ma non c’è stato niente da fare, quel libro non ha più voluto aprirlo.
Ho avvertito in lui un mare di amarezza. Un senso di esalazioni sulfuree come quelle che ribollivano nel mare di pece della V bolgia dell’inferno.
A proposito di mare, riprendo il fatto che mia nonna non l’aveva mai visto, solo all’inizio degli anni ottanta avevo i soldi, le ho allora proposto di andare ad Alassio, l’hotel Columbia era proprio sulla spiaggia, ci si poteva passare qualche giorno. Ma lei mi ha detto che non se la sentiva, era stanca, e anche il mare, e tante altre cose, ormai non le interessavano più, erano diventate come foglie morte che si staccavano giorno dopo giorno dal suo ramo.
La magia delle biblioteche e la fortuna di imbattersi in figure magiche come lo zio del racconto di Giancarlo. Io devo molto a una signora che aveva scelto di andare a vivere in pensione nel mio paesino del Sud, dopo che per anni aveva avuto un lavoro di grande responsabilità nella Montecatini, storica azienda chimica. Regalava a me e a mio fratello immancabilmente per ogni festività dei libri in brossura molto belli che leggeva prima lei (per quanto nuovi e fiammanti trovavo dei piccoli segni a matita che sicuramente faceva lei come segnalibro). Viveva in una casa piena zeppa di libri (e già questo era di per sè magia ai miei occhi). Tra i libri che ci regalò: Piccoli uomini, Pel di carota, La freccia nera, Le tigri di Mompracem, I pirati della Malesia, Il conte di Montecristo, I tre moschettieri, Ventimila leghe sotto i mari, Viaggio al centro della Terra, L’isola misteriosa, La capanna dello zio Tom, Zanna Bianca….
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Ricordi, questi versati nel bellissimo racconto di Giancarlo Locarno, che richiamano a molti di noi l’infanzia, con i doni per me graditissimi di libri di narrativa, tra cui tutti quelli citati da Abele, che zii e nonni facevano a noi ragazzini. Poi cosa bellissima era lo scambio matto che facevamo tra amici, barattando magari cinque fumetti con un romanzo, e ricordo l’attesa dell’uscita, mi pare settimanale, del Corriere dei Piccoli, che ci litigavamo tra fratelli e sorelle, con i fascinosi romanzi di Giulio Verne a puntate… Allora nel mio paese del sud non esistevano biblioteche, ne fu istituita una molto dopo la mia adolescenza, quando ormai sapevo che la lettura, e poi la scrittura, sarebbero state compagne costanti nel mio futuro. Sono stata dunque fortunata per avere avuto intorno questa sensibilità e consapevolezza del valore della lettura, ma so che spesso basta un solo libro, capitato tra le mani per caso o donato da persona che intravede nel bambino una futura possibile passione, a determinare una scelta fondamentale di vita. E’ per questa ragione che i miei doni a bambini e ragazzi sono solo e sempre libri.
Il mio grazie a Giancarlo e ad Abele per questo post
Annamaria
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Come nei labirinti per bambini, i libri ci catturano e ci guidano lungo un segno da A a B, da B a C… inconsapevolmente.
Bel racconto
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Ringrazio tutti per la lettura, molto bello il brano “Lo zio” di Paolo Conte, non lo conoscevo.
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Quanti bei ricordi ! La lettura, soprattutto nell’infanzia, stimola il pensiero laterale. Io ricordo come formativi “Il piccolo principe”, lettura in classe a 10 anni e tutte le favole di Gianni Rodari (meno le filastrocche che non mi piacevano). E poi le montagne di Topolino, scritti e disegnati in modo geniale. Un bel tuffo nel passato (quasi remoto, ahaha…). Grazie Giancarlo
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che bel racconto e che spessore nella narrazione.
vedi, come volevasi.
qui scopro che ti abita una santa trinità di nomi (Sheckley, Bradbury e Vonnegut).
leggendo è stato come quando (cadi per caso nello specchio insieme a tuo fratello e trovi aria di famiglia)
: ))
però, per completare i moschettieri (eh, come cantava il Cetra “moschietter del re che chissà perché sono sempre quattro e non sono tre” https://www.youtube.com/watch?v=Qcg7XqtiG2Y) tremila volte Philip Dick rispetto ad Asimov.
: )
nel mio piccolo, non solo – come te – non oso rinnegare i libricini Urania, ma voglio esagerare e vado oltre. col tempo, mi sono persuaso che la “fantascienza” (specie nei casi in cui la fanta e l’uomo sopravanzano la scienza), non solo è marcatore *biunovoco* di grande umanità, ma è anche l’ambito che più mantiene in vita il senso ultimo dell’arte letteraria (con buona pace dei seriosi cattedratici che sniffano la povere di tomi impolverati e poi dispensano bollini blu).
in casa mia, due genitori laureati, ma nessuno che leggesse o che invogliasse alla lettura.
devo la vita ad una antologia gigante a costa nera, libro di testo delle medie, che leggiucchiavo un po’ per noia al dopo-scuola, finiti i compiti per casa. e sfoglia che ti sfoglia trovo il ponte.
di Kafka.
era novembre e, da quel giorno, non sono più stato lo stesso. dopo, ricordo che riuscivo a immaginare storie scritte pure sulla carta… che avvolge il salame.
: )
un abbraccio forte.
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