Prodotto squisitamente artigianale, nel senso suggerito dal termine greco “poiein” che accomuna l’arte dell’aedo a quella del vasaio, entrambi intenti a plasmare una materia fluida per conferirle una forma. Ed in effetti la tensione tra flusso e forma costituisce l’asse tematico di questa raccolta di Marina Minet, il filo ideale che congiunge le generazioni che si susseguono nel corso dei tempi: il legame di radici, sangue e respiro fra madri e figlie che saranno madri. Come in due tempi avviene la creazione negli antichi miti cosmogonici, dalla Bibbia al Timeo platonico, così la lettura di quest’opera va fatta in due tempi: una prima volta tutta d’un fiato e una seconda soffermandosi sulle riprese e variazioni tematiche, e sull’intricata rete di rimandi.
Curatissima nella fattura, suggestiva nei disegni stilizzati, arcaici, quasi rupestri di Roberto Matarazzo: icone atemporali di quella terra madre che poi viene cerimonialmente scavata dal vomere dei versi. La sinergia di segno e disegno risulta qui decisiva per comprendere in pieno il senso del testo, la sua dominante iconica. I versi vi appaiono infatti (fin dall’epigrafe iniziale che indica l’“imperfezione” dell’amore come il tratto fondante della silloge) brevi e folgoranti o lunghi e ipermetri, incisi ed esondazioni dell’amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, onde lunghe che si acquietano in una finale risacca. La struttura del testo fa perno sulle insistite iterazioni e sulla variazione del punto di vista che fa della madre, volta a volta, soggetto o oggetto del discorso. I suoi nuclei tematici principali sono: quello dell’imperfezione, appunto, dell’amore cosmico, intesa come tensione tra forma e flusso. La costante equivalenza fra testo e territorio, da cui discendono quelle tra vento, linfa e sangue, tra svolta e scavo, pieghe e piaghe, nonché la comunione di madre terra e madre lingua. La reciprocità di preghiera e perdono che culmina nella memoria del nome della madre che è anche madre del nome, “sottratto” e sotteso, palindromo generatore dell’intero testo.
Le belle tavole di Roberto Matarazzo, come ho accennato, costituiscono parte integrale del testo. Ivi le madri-figlie sembrano quasi giocare a palla con la terra: le aeree contorsioni di corpi femminili e una sfera che fluttua nei dintorni, le mani delle madri, danzatrici del tempo, che si allargano e si stringono quasi a sfiorarla, come in un balletto siderale. E per contro una scultura votiva, statica, grezza, stilizzata: un’erma femminile, un segnavia degli incroci di flusso e stasi, abbandono e resistenza, che poi costituiscono il filo conduttore di questa coreografia di versi e disegni che dall’inizio cattura l’attenzione del lettore, sottolineando proprio la tensione irrisolta tra discorso e figura: l’enigma persistente di come la parola poetica generi dal proprio grembo figure vive che poi prendono ciascuna la propria strada, pur facendo schiera, aleggiando a sciame intorno a un nucleo tematico costante, creando l’aura dell’opera, la sua unicità, la quint’essenza di ciò che di essa può essere tramandato (Benjamin). Ecco: questo processo inerente a ogni testo poetico, viene qui subito messo a tema e a fuoco, attraverso la felice sinergia dei versi e delle tavole: queste ultime fungendo da casse di risonanza, da lunghe pause animate tra un blocco di lessie e l’altro, come a raccogliere l’eco delle parole in conchiglie fossili, in urne che custodiscono il balsamo vitale del silenzio, dando un respiro più ampio al verso e invitando il lettore all’ascolto e all’attesa di ciò che è da venire. Così in effetti l’intero poema è un trascorrere lento e ritornare sempre da capo tra passato e futuro, tra madri e figlie che saranno madri, nelle alterne vicende di concordia e dissidio, abbondanza e mancanza creaturale, che segnano, tra macro e microcosmo, le stagioni della vita e il loro effimero riflesso nella coscienza.
Così recita l’epigrafe alla I sezione: “Anche le querce oscillano, talvolta/ (come le madri)/ reggendo per le foglie la strage che riassume le stagioni / loro,mai incapaci, ferite senza carni e indifferenti/ come le pietre e gli astri”(11). Che annuncia il profilarsi del tema generativo del testo con le sue variazioni: “Il grembo prodigioso è delle madri / È vento stagionato… è delta e causa eterna/…Ed è tensione e miele”(13). In un intricato va e vieni fra testo e territorio, nonché fra Chronos e Aiòn, una trama punteggiata da gemme diversi come questi: “Offrimi la fiducia delle spine per credere al dolore”, (31) o “Sotto la nebbia, stordendomi le mani/…fermando un altro inverno come istante/Ancora sono madre/…Ora che il tempo si compie nel ritardo/ e tutte le clessidre si voltano da sé”(32).
In una sorta di ciclica reincarnazione della matrice: “Sono nata troppe volte/…La prima volta saggiai il respiro/ dentro i polmoni vergini/ e mia madre m’iniziò dolcemente le braccia/ La seconda, sono nata dopo aver/ scordato l’odore della morte” (37). In una comunione di vita e di linguaggio, come si diceva, dove la madre diviene madrelingua: “Io ti ricordo, madre/ come una fortezza di parole/ da espugnare” (39). Dove infine, come in preghiera, nella reciprocità del perdono, la poesia appare come il dar voce ai silenzi che hanno scandito, nel corso del tempo, il rapporto tra madri e figlie: “Ti chiedo perdono, madre/ per l’attesa che ha composto il mio silenzio/ questo osare a malapena le parole come i gesti/ quando il tempo ci pioveva nelle/mani concimando le stagioni insieme ai lutti” (40). E così tra il ricordo e l’attesa, tra la fiducia e la domanda si rinforza questo vincolo di memoria e di sangue nel corso delle generazioni: “I ricordi/ questi baccelli eterni/ legati alla coscienza/ altro non sono che il passo/che ci sposta e il nervo che ci scalda/…cercando in ogni giorno una risposta/ o un pianto che sia santo/ quanto gli occhi di una madre” (41). Sempre procedendo nella reciprocità dell’amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, sull’orlo dell’aridità e della desolazione, fra tempo ed eternità, fra gesto e parola: “Quanti misteri intorno alle parole/ e i gesti dietro al verbo…e il margine del tempo/ vedrà la meta fredda/…In fondo siamo pane/ mangiandoci l’un l’altro in sacrificio” (43). Mentre le frequenti iterazioni ribadiscono il tema del ritorno piegando la linea del tempo all’inerenza di taglio ed orizzonte (Um/Riss) che costituisce lo stile di una poesia, il suo grembo e terreno di coltura, la sua crepa madre, l’oscura ferita da cui scaturisce: “Neve a settembre/sotto il sole infilzato che raggela/piegata su un utero negato/…Neve a settembre/ inerte intorno al ventre/come terra arresa al contadino/fra giri d’orologi senza tocchi”(45). Liturgica, ancestrale, panica; ritagliata tra figura e fondo, tra caso e destino, facendo i conti col male del mondo e con la mancanza creaturale, emerge alfine la figura della madre primordiale: “al taglio obliquo/della clemenza china/…il vino e il pane, in comunione/ ne innaffiano l’accordo/…penzoloni le gambe/… a stringere preghiere senza croci/…Neve a settembre/ fra cambi di sfondi accidentali” (46). Nella sua statuaria, immemoriale resilienza, in una sempre rinnovata cognizione del dolore: “La tenacia del nulla ci sorregge talvolta/ Questa stanchezza indenne alla morte/come una ferita imbalsamata/” (48). Nella incondizionata accettazione delle vicende e dei cicli della natura e della storia: “Lascia che venga il giorno ordinato/ la luna piena senza l’imprudenza/… Lascia che venga il fuori posto/… se il tempo ancora è a momenti/ Tanto passa uguale la storia/ e il principio scava sempre la fine” (49).
Fra testo e territorio, fra oscillazione e permanenza, dove si incontrano la torsione dei corpi e la piega dei versi, nel dissolversi delle tracce, tra scoramento e speranza: “Memorie sotto i passi,tramonti abbandonati/ la fiaba dell’attesa è la speranza/ scontenta eppure andante/ caparbia nelle sere, che portano del cielo solo l’ombra” (51). Riecheggia così alla fine la similitudine evocata dai versi dell’epigrafe iniziale: “Anche le querce oscillano talvolta/(come le madri)/ reggendo per le foglie, la strage che riassume le stagioni” (52). Nell’impercettibile costante incurvarsi della linea del tempo, nella pulsante reciprocità dell’apprendere che costituisce il nocciolo della poetica di Marina Minet. In una mai risolta ricerca di senso, nella nostalgia del ritorno, si lascia la terra madre per mettersi in viaggio portandosi dentro insieme suolo e sangue, vento e radici: “La mia terra è un vento informe/ e mi scorre nelle vene/ come il sangue di mia madre” (55).
Nella ricognizione conclusiva dei mutevoli profili del dolore, ciascuno una ferita e una sorgente, nella solitudine dell’esserci e nell’accettazione dell’altro, fra laico disincanto
e religioso rendimento di grazie al nome della madre, si nutrono così la memoria e l’attesa: “Ciò che non dimentico è la cura che ringrazio/l’intenzione del domani come incognita promessa / e il tuo nome ripetuto come un salmo” (58) Sicché infine nell’unisono di segno e disegno, nella coreografia del testo, i corpi danzanti e le mani di tutte la madri-figlie-madri pare quasi si tocchino a chiudere il cerchio: quasi, non fosse che per un leggero scarto nel piano cosmico, che lo sfalsa a spirale, non fosse che per quel soffio che ancora ci attende e per cui sempre ancora ci manchiamo.
Giuseppe Martella
Anche le querce oscillano, talvolta
(come le madri)
reggendo per le foglie la strage che riassume le stagioni
loro, mai incapaci, ferite senza carni e indifferenti
come le pietre e gli astri (…)
Marina Minet
Leghe
Potrei farmi pianto
pelle
la tua culla eterna malriuscita
…
potrei farmi cieca
decadenza sporca con la pioggia
Vivermi avvizzita
Sdebitarmi il cuore lisciandoti la rabbia
fino all’alba
Potrei dire mai, ora, perdere, marcire
pesarmi le mancanze con la gogna
scendendola a veduta su di te
e dissetarmi, figlia
bermi il sangue intatto che ora ho fermo
per ogni tuo respiro fino a me
E potrei farmi piaga
vena inabissata sotto il fango, e ossa
e misera bandiera
rinchiusa e sbriciolata come sabbia
per darti nel ricordo la mia impronta
*
Di Madre
Di madre s’apprende il tatto
il timbro dei suoi fianchi
su perimetri al fiato dell’istinto
linee e curve
nutrite già di pianto
sfasando caos e accenti di frontiere
S’apprende battito sbocciato
frugando labbra e lune assenti
per farne ascolto
fra talco e fasci
imbevuti a suoni muti
e il fiuto allo sfinirli
per farne meta viva
Di madre s’apprende il canto
e il non bastare su notti spesse d’ansia
dure come briciole
fra palpebre sfiancate
S’apprende il senso che cerca e mai si scova
rosolato nel ricercare all’infinito
quel che già c’è, eppure
schiva vanto
Di madre s’apprende artiglio
neon screziato
volto a finestre chiuse
su lamenti sopiti a gelo degli inverni
Corolle e steli di stupori a briglia sciolta
su tele nude in pasto a ingegno da incitare
Di madre s’apprende angoscia
di grida scandite come rosari
Invidie annidate su occhi a parte
E vagito di lupa
striato a sfascio
di quel che fu
su ventagli aperti
chiusi a croce in un istante
Di madre s’apprende il cuore
la falda eterna che si corona
al primo cenno
dietro motivi stranieri ai casi
Di madre s’apprende il nome
e il non bastare sangue a darle ode
il tramonto del suo volto
lasciandone memoria che non muore
*
Prima di partire
Ho visto franare i muri delle case
prima di partire
e mi sono chinata per sfiorare
il pianto di chi ho amato
e le mie radici antiche
È il bagliore di quel mare che mi manca
La battigia come abbraccio della sera
e l’odore dei ricordi
quel trovare tutti insieme una risposta
come indomita speranza
La mia terra è un vento informe
e mi scorre nelle vene
come il sangue di mia madre
*
***
Roberto Matarazzo è nato nel ’53 e vive e lavora in Benevento; si è laureato a Napoli in architettura, presso la cattedra di progettazione architettonica e, contestualmente, esercitando ricerca universitaria con i docenti A. L. Rossi e D. Mazzoleni. Accanto al lavoro di architetto, svolto presso la pubblica amministrazione, da anni lavora attorno ad un ideale “cosmopolitismo delle idee” fissato tramite la elaborazione di fogli colorati in cui racchiudere le proprie esperienze sensoriali provenienti dai territori culturali i più disparati e/o i più diversificati; attraverso la elaborazione delle speculazioni letterarie di James Joyce, filtrate da una propria sensibilità percettiva, accanto ad una sorta di frequentazione immaginaria della scuola della Bauhaus, studiando i testi teorici dell’ala goethiana della medesima istituzione, ovvero P. Klee, W. Kandiski, J. Itten, è pervenuto ad un sofisticato sistema intellettivo in cui le strutture disciplinari e del pensiero si materializzano in poetiche e progressive proposte di fogli colorati stesi nei tempi creativi.
Molto belli questi versi potenti e ieratici dal ritmo serrato e incalzante.
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