Michela Zanarella, “Quell’odore di resina”. Nota di lettura Giovanna Albi

Michela Zanarella, Quell’odore di resina, Castelvecchi 2024

Nel marzo 2024 è uscito per i tipi di Castelvecchi il primo romanzo di Michela Zanarella, più conosciuta come grande poetessa con più di una decina di opere all’attivo tradotta in tredici lingue. Siamo quindi a contatto con una donna già  molto navigata nell’ambito della letteratura anche oltralpe e la poesia resta senz’altro la sua vocazione. Benché non si debba spiare dal buco della serratura dei poeti, la sua opera prima in prosa, Quell’odore di resina, in cui si dipana la storia della giovane Fabiola, veneta, ci dà opportunità di conoscere più dà vicino Michela, nei suoi punti di forza e di fragilità, nelle sua ricerca della identità più profonda, nelle difficoltà lavorative e quindi di trovare la giusta collocazione anche sociale.

Il romanzo di formazione autobiografico scava in un flusso di coscienza novecentesco nella vita di Fabiola alle prese con problemi lavorativi costretta al duro lavoro in un mattatoio, certo più agevole per i maschi. Il trauma di questa esperienza lavorativa sicuramente segna la vita della giovane e necessita di essere elaborato dalla parola. Ma c’è quell’odore di resina del pino padovano dietro la sua casa di origine che le dà la forza e la sostanza di stringere i denti e non demordere. Il pino piantato a terra con il suo tipico odore è il ristoro e la metafora della resistenza.  Il pino salva e passa il testimone alla parola: la parola che cura. Del valore terapeutico di questa non si hanno dubbi. Ricordate la parola di Lacan? La cosa profetica? Ebbene, la parola di Michela cura la poetessa/ scrittrice e arriva al lettore netta e pulita. La parola non risolve, le ferite restano, ma cateurizza. Così come resta il trauma dell’incidente in bici per cui resta qualche mese in coma. E miracolo: al risveglio si scopre poetessa, secondo la legge di compensazione dei Greci per cui Omero cieco fu il massimo poeta

Devo essere sincera: non ho grande simpatia per le opere di puro flusso di coscienza, che non hanno una vera trama. Qui tutto passa attraverso lo sguardo e il cuore della protagonista. Mi devo ricredere in parte. La Zanarella, nel narrare di sé, tocca temi importanti come la condizione della donna e la precarietà del lavoro, il privilegio dei maschi in un patriarcato che non muore ma miete vittime quasi quotidianamente, la pesantezza del trauma che non passa ma talora consola, il valore palingenetico del verbo, l’ eterno approdo, il miracolo montaliano: la poesia. Si tratta in realtà di un prosimetro, vista la presenza anche di poesie, in cui Michela conferma il suo ambito privilegiato

 La tenacia, la fede, l’ amore in senso lato e in senso stretto la sete di conoscenza, quell’ odore di resina riparatore, e in primis la fiducia incrollabile nella parola che cura approdano alla costruzione di una personalità potente e  risolta che conosciamo sotto il nome della quarantenne Michela Zanarella.

Estratti:

Sentivo ancora forte l’odore della resina di abete. 

La Punto nera mi stava portando lontano, ad alta velocità; lontano da quel posto dove ero nata. 

Non ero io alla guida.

Già alla prima curva avevo capito che la tranquillità mi stava entrando nelle ossa e nelle viscere. 

Tutto quello che mi stava intorno aveva le ali in libertà.

Le voci dei familiari erano ormai sfumate, come lo erano anche le preoccupazioni per il mio futuro.

Tenevo gli occhi sgranati e fissi al finestrino posteriore; i riflessi di quell’ultima scena domestica svanivano a ogni chilometro. Davanti a me si parava un orizzonte infinito.

Angelo era riuscito a conquistare la fiducia dei miei genitori: sapeva essere molto rassicurante, furono felici di affidarmi a lui.

Il giorno prima avevo salutato Vittorio, il mio datore di lavoro. Come sempre si trovava nella cella frigorifera a meno venti gradi, intento a spostare le mezzene di vitellone francese, marchiate, messe ordinatamente in fila.

Nel mio ufficio arrivavano gli echi delle incitazioni degli addetti al piano delle ghiacciaie mentre spingevano, a fatica, le carcasse, in catena. Il cigolio dei ganci vecchi, si confondeva con il rumore della sega sulle ossa delle bestie. Immaginavo alla fine una nuvola bianca spandersi, dissolversi per poi riprendere la consistenza della neve sul sangue.

Quell’acre odore di morte mi prendeva la gola.

Al macello avevo imparato il significato della vita, il sacrificio duro del lavoro. Passavo intere giornate a controllare documenti e bovini, e timbri e marchi, affiancata dai veterinari e dagli operai.

Eravamo una famiglia, una famiglia crudele. Trascorrevo più di dieci ore al giorno con loro.

Era tutto freddo e gelido. L’umidità di quel posto mi penetrava nei tendini. Non c’era luce, non c’era sole, non c’erano né stagioni né ore.

Giovanna Albi

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD). Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato diciotto libri. Giornalista, si occupa di relazioni internazionali. Collabora con diverse testate e redazioni. Le sue poesie sono state tradotte in oltre dieci lingue. È tra gli otto co-autori del romanzo di Federico Moccia “La ragazza di Roma Nord” edito da SEM. “Quell’odore di resina” è il suo primo romanzo.


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