malos mannaja: neobarriti nella giungla commerciale

Pasolini, Porcile (1969)

v’invito ad una breve riflessione: “sfidare pregiudizi e stereotipizzazioni”, implica sfidare il pensiero unico e quindi dissentire. non per capriccio, sia ben chiaro, ma perché ognuno di noi (se non è già omologato) dis-sente per definizione, ovvero sente e percepisce le realtà (tangibili e intangibili) in modo soggettivamente diverso. tuttavia, viviamo in un mondomercato che plasma “a sua immagine” fin dalla prima infanzia il nostro modo di pensare, a partire dal linguaggio. l’homo politicus si è involuto in homo consumens, prodotto in serie e consumato a sua volta da bisogni indotti, disposto a morire pur di farsi un lipofilling o un selfie in cima a una cascata. il modo in cui parliamo tradisce la nostra programmazione neurolinguistica legata al consumo: un libro o un’esperienza importante ci *arricchiscono*; per un giusto ideale *spendiamo* almeno due parole; sappiamo che un approccio sbagliato *non paga*; un dato impegno ci *costa* un grande sforzo di volontà; amiamo le poesie *ricche* di significato; ci consoliamo pensando che ci è andata *di lusso*; abbiamo compreso l’importanza del *capitale* umano; cerchiamo le parole giuste perché un pensiero ben espresso *acquista* maggiore credibilità; rinunciamo alla privacy perché è il *prezzo* da pagare per la celebrità, e così via…

bello, eh? ma ancora non basta. nel contempo, oltre che consumatori consumati dai bisogni indotti, siamo anche doppiamente *merci *: in quanto lavoratori siamo merce usa-e-getta svenduta dalle socialdemocrazie (in base al tariffario internazionale imposto dalla deflazione salariale), e in quanto esseri sempre-meno-umani siamo merce che “si vende” da sé (a chi ci offre un salario migliore, ma non solo… anche l’onestà intellettuale ha un prezzo: se lo paghi bene, un angelo bianco come il pane può virare  in demonio panenero e scrivere sul massimo quotidiano italiano per oltre un decennio che la colpa dell’Italia è di non aver ancora tagliato abbastanza la spesa pubblica e lo stato sociale).

anche il mondo dell’arte, da oltre mezzo secolo, è sempre più irretito dalle sirene del mercato: il narcisismo impera e l’obiettivo principale è vendere per esistere, pena l’ininfluenza e l’esilio.

lo scambio dialettico è scomparso quasi ovunque (scarseggia anche su Neobar), prevale la vetrina e langue la coscienza critica. si sono praticamente estinti i commenti motivati dallo scambio di idee: costosi in termini di sforzo mentale e molto più time-consuming di un *like*. Resistono le recensioni, ma solo a margine di un libro-prodotto in vendita. tutto il resto è comunque vetrina più o meno narcisistica.

è vero: siamo sempre più marginali e gravati da un senso di impotenza, ma non rassegniamoci all’autocommiserazione e allo sconforto. ciò che a prima vista appare privazione è invece una liberazione: se viviamo su un’isoletta sperduta e non abbiamo padroni, possiamo dare libero sfogo alla nostra coscienza critica, brandire la verità e sbatterla in faccia al “Potere”. è nostro dovere reagire in quanto persone dotate di intelletto (ancor più che intellettuali), almeno per il rispetto dovuto a chi, come Pasolini, ha dato la vita per noi.

quindi?

quindi vi chiedo… a quale “verità” possiamo fare appello? assoluta? relativa? intersoggettiva e condivisa? possiamo sbattere in faccia al “Potere” il nostro pensiero dissenziente senza essere politici? siamo consapevoli che la verità non solo è mutevole ma è anche in vendita? obbediamo all’ordine costituito del capitale finanziario liberista oppure ai dettami socialisti della nostra Costituzione?

ovvero, in conclusione e in altre parole… quanto vogliamo che suonino stridenti i nostri neobarriti?

ricordo un onesto filosofo che scrisse che c’è un modo rapido e quasi infallibile per capire se il nostro agire/pensare/comunicare è disinteressato e contrario all’ordine costituito regnante, e cioè il fatto di essere prontamente insultati/banditi dalla piazza del mercato in quanto eretici.

al giorno d’oggi, gli strumenti in mano al “Potere” e ai suoi più o meno consapevoli sudditi/chierici, sono molto più infidi ed efficaci, potendo disporre di strumenti ben più raffinati: shadow-banning, Digital Service Act, autocensura e cultura della paura, media di proprietà del Potere, decontestualizzazione e frammentazione della realtà/verità, ibridazione cronica tra realtà e finzione, cointeressenza di esperti/tecnici/scienziati col sistema di Potere, e via così…

le tre colonne portanti (sorveglianza, censura e propaganda) del controllo autoritario Orwell-style viaggiano a pieno regime e, conseguentemente, il dissenso e il pensiero critico al giorno d’oggi diventano per se disinformazione o complottismo, se non un vero e proprio psico-reato.

TINA e fine delle trasmissioni?


6 risposte a "malos mannaja: neobarriti nella giungla commerciale"

  1. Vero, malos, “lo scambio dialettico è scomparso”, scarseggia anche su Neobar, come dici giustamente. Bisogna chiedersi perché anche commentare è diventata una fatica e si preferisce mettere un like o semplicemente leggere velocemente, immagino, il post, come uno tra i tanti che giornalmente offrono la blogsfera e i social. Eppure, l’idea del luogo d’incontro, dell’agorà, ha caratterizzato Neobar fin da subito. Io, ad esempio, devo a Neobar l’aver conosciuto, letto e discusso con scrittori, poeti artisti che mi hanno arricchito, offerto stimoli e sollecitazioni e con i quali si è lavorato, creato insieme. Forse a un certo punto ci siamo un po’ più chiusi e dispersi allo stesso tempo? Per quanto riguarda la tua domanda: “quanto vogliamo che suonino stridenti i nostri neobarriti?”, l’importante è comunque barrire, ruggire e finanche ululare ma fare, leggere, scrivere al di fuori dal gregge e fare di quest’isola più che una specie protetta (le teche narcisistiche di cui parli) una fortezza d’impegno, un “impegno che si muti in dovere”. Nel segno di Pasolini, senz’altro! A mo’ di incoraggiamento per un rinnovato impegno ti e mi dedico, ringraziandoti, una poesia di Danilo Dolci, che apre la raccolta “Il limone lunare”, ovvero la raccolta  con cui dopo vent’anni riprende a scrivere poesia:

    Se l’occhio non si esercita, non vede,

    se la pelle non tocca, non sa,

    se l’uomo non immagina, si spegne.

    Quasi ho pudore a scrivere poesia
    come fosse un lusso proibito
    ormai, alla mia vita.
    Ma ancora in me il ragazzino canta
    seppure esperto di fatiche e lotte,
    meravigliato dei capelli bianchi
    d’essere ancora vivo,
    necessitato d’essenzializzarsi:
    e al varco d’un malanno scrive versi
    come una volta
    quando il silenzio diventava colmo
    futuro, chiarore che bruciava
    la fatica del fare successivo.

    Nel mio bisogno di poesia, gli uomini,
    l’acqua, il pane, la terra,

    son diventati le parole mie:
    Non importano i versi
    ma in quanto non riesco a illimpidirmi
    e a illimpidire, prima di dissolvermi,
    invece di volare come un canto
    l’impegno mi si muta in un dovere.

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  2. Una critica marxista la tua, il lavoro è mercificato e i mezzi di produzione sono in mano a poche persone, e questo è un problema per l’umanità, estendi poi questo concetto ad un valore universale, tutto è mercificato, anche ciò che non è lavoro, anche quello che dovrebbe essere passione o arte. Per quanto riguarda l’uso che si fa dei social media nel campo che ci interessa, quello letterario posso parlare della mia esperienza. C’è un aspetto positivo di ampliamento dei contatti umani in generale, sono sempre stato appassionato di poesia e di arte fin da ragazzo, adesso ho sessantotto anni, prima della rete facevo fatica a trovare persone con le mie stesse passioni, capitava di incontrarle   a qualche festa dell’unità o in altre iniziative del genere, i rari contatti erano spesso via lettera, e dopo un po’ si perdevano.

    Oggi i contatti sono di una facilità estrema, però la possibilità moltiplicata di interagire, e le possibilità facili di pubblicare ad esempio un libro (a pagamento), o delle cose su un blog porta tante persone ad illudersi di essere poeti e scrittori, quindi portate a pensare che una volta scritto qualcosa il proprio lavoro è finito, sta agli altri, al pubblico, commentare etc.

    Però se sono tutti così (i frequentatori di blog) vuol dire che non c’è più “pubblico” e quindi non ci sono più critiche o commenti.  E questo si manifesta come narcisismo imperante come dici tu. 

    Per quanto mi riguarda, il mio primo post pubblicato su neobar è del 2010, il mio modo di partecipare è quello di condividere quello che sto facendo o leggendo in quel momento, sono cose che farei lo stesso senza neobar o altri blog, cerco poi sempre di metterci del mio, il mio passo è un po’ lento ma costante. Sostanzialmente mi considero un lettore appassionato, scrivo delle poesie o racconti, ma non mi è mai passato per la testa di considerarmi scrittore o poeta, così come sono appassionato d’arte e mi piace disegnare, ma non mi considero certo un pittore. Sono cose che faccio nel tempo libero, non ho mai pensato di fare carriera e guadagnare in questo campo, queste ultime cose le riservavo al mio lavoro.

    Penso che il modo migliore di emettere i neobarriti in mezzo agli “infidi ed efficaci” strumenti di potere sia quello di rilasciare solo quelli che ci appaiano necessari e naturali, si fa quello che si deve fare, e poi di non aspettarsi niente, di non preoccuparsi della loro sorte, come insegna la Bhagavad gita.

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  3. “eravamo 4 amici al bar”, cantava Gino Paoli. qui la musica è quasi la stessa: siamo 4 amici al Neobar. eh, basterebbe trovare altri quaranta gatti e possiamo marciare su Roma in fila per 3 col resto di 2 !!

    : )))

    ergo replicherei a Dolci con una vecchia mannajata:

    .

    mi cola il naso e ho gli occhi molto rossi

    probabile che sia l’ininfluenza

    mi guardo intorno e mio malgrado vedo

    .

    che a stanutire forte il vento poco cambia

    illimpidito o meno il canto è già svanito

    che io ci sia, sia stato, o che non sia

    .

    (esistito)

    .

    ma bando alle ciance! vogliamo fare la rivoluzione o no?

    @Abele: pare un’antitesi (Pasolini smette di scrivere poesie quando “si rende conto che”, …invece quando l’impegno vira in “dovere morale” Dolci si rimette a scrivere poesie). interessante… e Pasolini lo ammazzano, mentre Dolci no. vorrà pur dire qualcosa?

    @Giancarlo: no, marxista in senso stretto direi di no… per Marx l’oppio era la religione (non aveva capito molto, in proposito) e immaginava un’internazionale socialista (risibile). l’oppio, in massima evidenza è lo spettacolo (come già evidenziato dagli imperatori romani) e lo confermano Marcuse, Debord, Baudrillard e così via. la dimensione più favorevole al lavoro e al lavoratore è quella nazionale (e infatti per il capitale finanziario è vero l’esatto opposto). d’accordo sul fatto di emettere solo neobarriti “necessari e naturali”, anche se, per quanto io ami la corporeità della mente, confido anche nella mentalità del copo. voglio dire, necessari e naturali sono i nostri bisogni corporali, ma possiamo costringerci ad essere anche più di una bella pisciata e di una sana cagata, no?

    : ))))))

    ergo, non corriamo il rischio di neobarrarci dietro alla pigrizia della spontaneità. sforziamoci di essere più dissenzienti e più politici. al massimo ci uscirà un’ernia.

    @Mariella: un super abbraccio! e circa la mia esistenza, ti rimando alla risposta data ad Abele

    vi voglio bene: r’esistiamo!!

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  4. Il nano malefico non nacque in’vano, il n’ano è il nano, una spanna sul petto del bonobo, un’altra spanna sotto il silverback, insomma irrinunciabile come …..? Un voodoo.

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