Poeti del Lunedì: Fino all’ultima sillaba dei giorni di Francesco Marotta (alla cara memoria di un Poeta)

*

Il dieci luglio scorso ci ha lasciato Francesco Marotta. Era nato settantuno anni fa a Nocera Inferiore ma ha vissuto in provincia di Milano dove ha insegnato storia e filosofia. E’ stato un poeta e un traduttore raffinato. Ha animato uno dei primi e più autorevoli blog letterari, La dimora del tempo sospeso. La sua ultima opera è Polvere, pubblicata da Anterem un anno fa.

*

scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore
la spina amorosa di chi non lascia niente alle sue spalle
perché essere cenere, sostanza di vento
è inciso da sempre a lettere di fuoco
nelle pupille dei segni che trascina – un canzoniere
infimo, un breviario di passi senza orma
tracima sillabe d’innocenza e memoriali di sabbia
dalla brocca silente che disseta il labbro,
quando parole malate d’aria si staccano dalle mani
precipitano nell’impercettibile abisso
di una pagina –
scrivere è un’ora covata dal destino
la spina che costringe il corpo in reticoli d’albe in piena notte
e punge fruga ricuce orli slabbrati lacera la carne
fino a che sanguinano anche i sogni,
fino a che l’immagine fiorisce in echi di sorgente
gli alfabeti rappresi dentro un grido

(sono queste le voci che mancano a una pietra
per sentirsi un arco lanciato verso il cielo,
sono questi gli accenti
che scortano il seme alla sua tomba di luce – al precipizio ardente
dove la morte è presagio di stagioni,
oracolo dei frutti e del ricordo)

*


5 risposte a "Poeti del Lunedì: Fino all’ultima sillaba dei giorni di Francesco Marotta (alla cara memoria di un Poeta)"

  1. Quello che più mi colpisce è il carattere corporale che questa poesia attribuisce alla poesia e più in generale al discorso.

    E’ qualcosa da custodire e covare come un uovo uscito dal corpo.

    Esce dalla carne lacerata e fa sanguinare anche i sogni.

    È una spina che fa parte del corpo e lo tortura il corpo.

    Gli alfabeti rappresi in gola marcano la differenza tra noie i sassi, per i quali la morte non esiste.

    Piace a 1 persona

  2. mi spiace molto, nel mio piccolo mi aggrego all’accompagno.

    non conoscevo Francesco di persona, ma l’ho incontrato “virtualmente” più di qualche volta. per come l’ho letto, oltre ad essere persona di notevole cultura, mi ha sempre comunicato un fondamento di schiettezza naturale/naturalistica (in un certo qual senso financo *rurale*, materia che le sensibili antenne di un nano di campagna captano subito).

    anche in questa lirica c’è molto di concreto e di “terreno”.

    il poeta ara la pagina, viviseziona le parole (sillabe come zolle), scava solchi tra un verso e il successivo, scruta le viscere della profondità e interroga l’abisso di silenzio (annidato nella terza dimensione del foglio). il poeta semina e attende con pazienza il germinare esplosivo di allegorie e metafore, lavora il terreno con fatica e ostinazione sfidando il tempo (improba sfida, dato che il tempo tiene ben stretto il coltello)…

    (dalla parte del manico).

    ricordo che mio nonno falegname amava dire “la poesia è il lavoro d’intarsio del contadino”. ed è anche – aggiungo io – il modo più efficace per lottare contro la *desertificazione* delle pagine, per scardinare il terreno e riportare alla luce preziosi lembi d’ombra (o anche, per dirlo in modo più autoironico, per “trarne fiori i fuori”, così da alleggerire leggermente la solennità di Francesco).

    nella lirica qui riproposta da Flavio Almerighi, i due corsivi ricollegano le trame del pensiero in modo transitivo, nonché biunivoco mettendo insieme scrivere, tempo e destino. (“scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore” e “scrivere è un’ora covata dal destino”).

    le “ore” (plurale) sono numerose, sono tante, sommano anni vita. l’“ora” (singolare) assume una valenza più stringente (è l’ora fatale, è l’oracolo che svela il destino, è il tempo che si compie in modo inevitabile in punto di morte).

    quindi “scrivere” è tutto: assume la doppia valenza di *vivere* (nel primo corsivo) e di *morire* (nel secondo corsivo). una vertigine di fine che ci precipita nel nulla, ma che non cancella.

    (le nostre tracce). il “ricordo”.

    viviamo seguendo tracce, e nel farlo lasciamo tracce in larga parte sovrapposte: difficile sbrogliare la matassa, trovare capo e coda, indovinare un dove, raggiungere una meta, la retta via… è tutto un labirinto senza fine.

    (alcuno).

    forse però, la meta è proprio ritrovarsi in questa rete.

    (neurale).

    comprendere che siamo qui a covare

    (ultime sillabe dei giorni). 

    Piace a 1 persona

Lascia un commento