Cerchi l’invisibile poltrona
e intanto ti assopisci
mentre mani anonime e sfuggenti
ti fanno incedere
anche appisolato.
Dormi e cammini
sospinto come un santo
in una processione invisibile.
Ma per te che riposi da giusto
mille si affannano.
Per te che sorridi ben nutrito
mille dimagrano e s’adirano.
E bruci infine incredulo capro
del malessere diffuso
compianto e maledetto.
*
Dove non volevamo essere
Siamo
dove non volevamo essere
o appena discosti e pur lontani
dal mobile incrocio del qui e ora.
Tirati per un braccio o attratti
da forze che è inutile cercare
nell’intrico di variabili
o a ritroso nei caratteri degli avi.
Inutile parlare di destino
a cose fatte.
Sbatte la vita in un impasto
denso e indistricabile.
Il sorriso è d’obbligo
mentre si cade o si scompare
in una forma sconosciuta
che non ci appartiene
non ci somiglia.
*
Vai leggero
I tuoi sforzi non saranno vani
conterà più la postura del risultato.
E a forza di rinunce andrai leggero
più poco del poco che già hai.
Hai visto innalzarsi uomini
con facce di cartone
e gli occhi umidi all’occorrenza
capaci di tutto e temibili.
Pochi ne hai visti cadere
in una resa dei conti,
o nella fine di privilegi
che invece restano.
Non c’è vizio né virtù che si dichiari.
Fragili e incoerenti ma capaci
a volte di negare un sorriso
con poche parole e distanza.
Resistere ed opporsi
aperti e grati del breve fiorire
che precede il finire di ogni cosa.
*
Stagione
La bocca sibila parole
le labbra sono nacchere
la gola voragine dove i sospiri
si trasformano in miele
o in sale che brucia.
Presto i minuti si faranno giorni
anni ed epoca, foto di gruppo
in cui non ti ritrovi.
Nessuno ritoccherà l’immagine
sovrapporrà a essa un’altra
d’inoppugnabile esattezza.
Inutile del resto urlare al mondo
ogni suo limite, estenuandoti
in un grido perenne.
Sempre più cose
accresceranno il tuo affanno
trasformandoti in martire o carogna
col calice brindante o gli occhi spenti
sui dolori che incroci.
La pietà si farà vento sulle foglie,
ripulendo la scena, e terra.
*
Cellule
La pagina è rimasta ore
bianca
come luce prima
che il mondo nascesse.
Queste parole
sono sparute cellule
nello spazio immenso,
il vagito di qualcosa
che affiora alla vita;
o i primi passi incerti
su gambe malferme.
Sono cammino che si arresta,
punto o parentesi
sul finire del dire
ogni volta.
*
Scuola Belvedere
Dove c’era una scuola e un asilo
c’è ora un parcheggio.
Poche auto col muso rivolto
alla campagna che digrada
e più a est al porto e al Duomo.
Guardano, i musi silenziosi di lamiera
dove hai guardato per anni.
Sembra ora impossibile che in così
poco spazio vi fossero sei aule
due anditi, i bagni ed il giardino
per centocinquanta bambini.
Pensi alle cose imparate
quasi senza avvedertene,
alle maestre di allora, Andreoli
e Barbarossa, e prima ancora
la signorina Amalia, già anziana,
lenti spesse e camicia bianca
come i capelli raccolti sulla nuca.
Il latte caldo ed annacquato
nei bicchieri, appena si arrivava,
offerto a tutti perché
non fossero diversi, alcuni.
Le buste del patronato
solo per loro, alle elementari
erano un dono che non capivamo.
Ora che tutto è passato
e pochi sono ancora lì a ricordare
– seduti da Gioacchini e da Polenta-
la gioia semplice di un tempo
che andava solo a migliorare,
ti è parso di sentire – tornato lì
coi figli un pomeriggio di giugno –
le voci dei bambini di allora
di vedere i grembiuli i fiocchi
le borse ricomporsi coi visi.
*
Il mare d’erba
Vicino a casa
tra la fila dei palazzi di via Pesaro
e quella parallela di via Fabriano
c’era un tappeto di terra
che in un dato punto sembrava
un mare d’erba;
alte chiome di zizzania e avena
e altre piante che il vento muoveva.
Lì ci tuffavamo da bambini
a peso morto senza alcuna paura
nuotando e capriolando
come in acqua
tra minute cavallette e farfalle
e qualche barattolo e vecchia scarpa.
Da lì guardavamo il cielo
e più sotto i pini, i peschi e i nespoli,
e le finestre affacciate sul mare
che solo noi vedevamo.
Fino all’arrivo di una falciatrice
che tagliò le onde strappando
il mare alla terra
ma non il suo ricordo acquoreo
che ancora resiste.
*
I padri
Li aspettavamo all’angolo
tra via Genga e via Fabriano
i padri che tornavano
per cena dopo il lavoro.
Stanchi e sereni
scendevano dal filobus
alla fermata di via Ascoli Piceno
di fronte a Rampinello.
Nessuna distinzione di censo
operai poliziotti e impiegati
si conoscevano tutti,
e parlavano nel tragitto
che dal centro portava a Posatora
percorrendo la salita
con leggero affanno.
Noi dall’alto in agguato
li attendevamo
per poi saltargli addosso;
fino a quando cresciuti di peso
rischiavamo di farli cadere.
Rivedere le strade semi vuote
i padri ormai nel tempo eterno
come le grida dei bambini: padri
alcuni ora e forse nonni,
altri scomparsi o scasati chissà dove.
*
Il Monte [1]
Nelle sere d’estate il Monte
era un anfiteatro da cui godevi
in pace lo spettacolo del golfo:
la stazione ferroviaria sotto
e poco oltre il porto e la costa
che da Falconara risale l’Adriatico
verso la Romagna passando
per Marzocca e Senigallia.
L’afa densa e appiccicosa
fondeva a volte il mare con il cielo
Ancona, alla Jugoslavia e all’Asia.
Tra le navi che attraccavano
gli odori di pesce e di alghe secche
il carburante oleoso
luccicante sull’acqua
non una che portasse in Sardegna.
Il sogno si faceva triste
per chi avendo due patrie
si sentiva lontano da entrambe.
Il fiato della terra e dell’erba
saliva umido e sapido
dopo l’arsura del giorno.
Alle spalle stava il Forte
(la fortezza papalina)
le vecchie scritte incise sui mattoni
rossi delle mura sbrecciate:
“Elvira putana”. “Adelfio recchiò”
Le coppiette più sotto
nascoste dai cespugli
o nelle buche delle bombe.
Più sotto ancora le fornaci
a contenere la collina che smottava
inesorabile negli anni.
Il Monte ora cinto da una rete
e invaso dai rifiuti: vecchio
incontinente lasciatosi andare,
la barba incolta di sterpaglia
le visite sempre più rare.
La memoria soprassiede su tutto
come l’amore; palmo a palmo
ritorna e si cala di nuovo
nelle passate stagioni;
ricorda in eguale misura
i fuochi d’artificio a ferragosto,
le veglie gelate dentro l’auto
sobbalzante per il terremoto.
[1] Il nome che si dava alla collina di Posatora, che dominava il golfo del capoluogo marchigiano.

ci sento echi di tematiche a me molto care, il poeta è un animale sociale, e la poesia una chiave per accendere passioni e voglia di riscatto, ma anche anima del recupero del vero e del bello
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Un mare d’erba e una falciatrice
che taglia le onde increspate
e lascia i ricordi farsi spuma
tra i padri che ci riportano
la serenità
e le borchie delle borse
specchiare i visi
riapparsi
Molto sentito questo tuo “amarcord”, Giovanni
un caro saluto
Maurizio
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in queste poesie non è la fine, ma il mentre del venire meno nell’indistinto o nell’invisibile o nell’inestricabile, non “alto” bensì qui in basso, che ci tocca tutti, quotidiano, perciò è un venire meno che pressa e spersonalizza, ma è presente e appunto pressante. membro di “processione invisibile”, “mani anonime e sfuggenti” “occhi spenti/sul dolore che incontri”, “forma sconosciuta” che non appartiene…e così via, laddove finanche “La pietà si farà vento sulle foglie,/ripulendo la scena, e terra” (molto belli questi ultimi versi) e dove tuttavia ancora qualcosa resiste come quel “ricordo acquoreo”, per, utilizzando di nuovo una bella chiusa, infine “Resistere ed opporsi / aperti e grati del breve fiorire /che precede il finire di ogni cosa. ”
Un caro saluto a tutti.
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Poesia intensa che incede un passo nuovo ai versi di Giovanni Nuscis: limpidi, consapevoli, liberi.
Un caro saluto a Giovanni, un poeta discreto semplice che ricordo con affetto.
E un caro saluto a Abele, e a tutti i suoi ospiti.
iole
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Grazie di cuore, Massimo, Maurizio, Margherita e Iole per le vostre preziose osservazioni.
Ringrazio Pasquale Vitagliano, che ha voluto proporre questi testi, e Abele Longo, per la sua ospitalità.
Giovanni Nuscis
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Ritrovo in questi inediti di Giovanni Nuscis lo spessore e il pacato ma rigoroso discernimento della parola delle precedenti raccolte e, qui ancora più forte, la presenza dei padri “stanchi e sereni”, “il mare d’erba”, i bambini “ora padri, forse nonni”. La vita della memoria che “soprassiede su tutto come l’amore”; è uno sguardo amorevole, ma attento, e quel “soprassedere” non è mai abdicare alla riflessione, né. tanto meno, rimuovere, è porsi da una visuale più elevata, è “ricordo acquoreo che ancora resiste”, che “ritorna palmo a palmo e si cala di nuovo nelle passate stagioni.”
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Ringrazio anch’io Pasquale per la proposta e Giovanni Nuscis per queste poesie dense di vita vissuta, inscritte nelle cose di ogni giorno, in un passato che torna come costante termine di confronto; evocato di fronte al “nuovo”, vuoto non luogo che cancella inesorabile.
un caro saluto a tutti
Abele
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Quando ci si ritrova dove non si voleva essere, lo sconforto può indurre a diventare solo martiri o carogne ma poi il grido perenne si muta in sapienziale, e alla fine vira potente nel lucido ricordo anconetano (che a distanza di anni ora è anche mio, avendo avuto la fortuna – due anni fa – di visitare Ancona, oltre Fano e Fonte Avellana). La voce di Giovanni, in questi nove testi, è insieme sferzante e sommessa, dura e dolcissima. Complimenti.
Un saluto caro all’autore e a chi lo ospita
Antonio
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l grido perenne si muta in sapienziale, e alla fine vira nel lucido ricordo anconetano.
Voce sferzante e insieme sommessa, dura ma anche dolcissima.
Complimenti
Antonio
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“Il sogno si faceva triste
per chi avendo due patrie
si sentiva lontano da entrambe.
Il fiato della terra e dell’erba
saliva umido e sapido
dopo l’arsura del giorno.”
….
sentirsi lontani da due patrie è doppia nostalgia, doppia lontananza
doppia poesia…
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Ringrazio ancora Abele e Pasquale, e Antonio e Cristina per i loro commenti.
Un saluto caro a tutti gli intervenuti.
Giovanni
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