Domenica Luise: Gelosie di artisti

Domenica Luise

La mostra di beneficenza avrebbe aperto i battenti in serata. Tutti gli animali aspettavano l’arrivo della grande artista, che doveva inaugurarla, ed intanto passeggiavano nel salone osservando i quadri esposti. Piano piano si formavano dei crocchi dove si chiacchierava animatamente.

Il sindaco, che era un tacchino rubizzo con la fascia tricolore, seguito dai vari politicanti del pollaio, era rimasto scandalizzato dalle opere, se così si potevano chiamare, astratte donate dalla pavonessa Miama. Cosa volevano significare tutti quei colori sbattuti a casaccio sulle tre tele? Blu oltremare, carminio, verde smeraldo, giallo oro, azzurro cobalto e magenta, imbrogliati l’uno nell’altro. Ogni tanto, poi, c’erano colpi di bianco assolutamente assurdo. E dire che aveva pure il coraggio di intitolarli Volo n.° 1, Volo n.° 2 e Volo n.° 3.

Intanto la pavonessa Miama, attorniata dalla sua solita corte di maschi ringalluzziti, procedeva a piccoli passi. Si era messa i tacchi alti e un reggiseno a balconcino , che le faceva salire il cuore in gola. Non avrebbe perduto per nulla al mondo quell’occasione di trovare marito. Emanava a distanza un forte profumo di “Blu pavone“. Fece osservare , alla sua corte osannante, le alteluci che facevano vibrare la superficie delle proprie tele, la fantasia dei colori armoniosamente accostati, le sapienti velature e tutto quello che le venne in mente. Dopo si fermò davanti al quadro donato dal sindaco, uno solo, ma davvero grosso. Le scappava da ridere, disse. Intanto il titolo così prosaico: “Granturco”. E poi, una superficie sproporzionata, coperta di tanti granellini tutti arancioni, di uguali dimensioni, una cosa assolutamente realistica, senza fantasia né vitalità.

Intanto i gatti criticavano i quadri dei cani e viceversa, le lumache litigarono con le lepri, gli scarafaggi la presero contro le farfalle e dalle parole passarono ai fatti quando il canguro, sdegnato, mollò un pugno e, per caso, ficcò una zampa nell’occhio al tricheco.

In quel momento arrivò la grande artista o presunta tale, del resto l’unica che avesse accettato di inaugurare gratis la mostra. Era una pecora nera buttata fuori dal gregge per le sue assurde idee di purismo artistico. Aveva perfino osato proclamare che le poesie ed i quadri dovevano essere tutti originali, cavati dall’animo e non copiati a dritta e a manca e spacciati con la propria firma. Portava il vello con una messa in piega semplice, appena ondulata e scintillante di riflessi rossi molto di moda cinque o sei anni prima. Si chiamava Mimmina Beehhhlla.

I contendenti smisero di azzuffarsi e si accusarono a vicenda.

Incominciò la pavonessa, che puntò contro il sindaco la propria manina guantata:

<Ha detto che ho buttato i colori a casaccio sulle mie tele>.

<E lei ha detto che nelle mie opere non c’è un briciolo di fantasia>.

La lepre accusava la lumaca: <Mi vuoi dire cosa significano tutte quelle corna che dipingi ?>.

La lumaca, agitata, mosse le corna: <E’ un autoritratto cubista> affermò, <tu, piuttosto, cosa volevi rappresentare? Quando mai s’è vista una lepre a strisce verdi e marroni ?>.

<Anche quello è un autoritratto. Il verde è l’erba, il marrone è la terra, io mi mimetizzo con la terra>  declamò la lepre convinta, <è un’opera surrealista>.

In quanto ai cani accusavano i gatti perché facevano una pittura di parte dipingendo soltanto gatti, nello stesso tempo i gatti miagolarono forte le loro ragioni contro i cani, essi facevano una pittura di parte, affermarono, dipingendo solamente cani.

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La pittura delle farfalle era sentimentalistica e abbagliava gli occhi  con colori fosforescenti, protestavano gli scarafaggi, che avevano presentato certe tele piene di mostri neri; ognuno puntava il dito contro l’altro : <La vostra pittura è troppo brutta ed è statica> dicevano le farfalle agli scarafaggi, <La vostra pittura è troppo bella ed è agitata> rispondevano gli scarafaggi. In quanto al canguro, che aveva la crisi d’identità, aveva dipinto tanti topolini naïf in fila, il che provocava le risa del tricheco, che pur guardando con un occhio solo poiché l’altro gli era diventato blu, gonfio e dolente, diceva di divertirsi anche troppo: <Grande e grosso come sei, mi vai a dipingere topolini! Topolini !>.

<E tu, allora, anche tu sei grande e grosso eppure hai dipinto una specie di foca a cui si contano le costole>.

Il tricheco si imbronciò e tacque. In effetti egli sperava di dimagrire e quello era un proprio autoritratto, ma ritenne inopportuno confessarlo perché aveva visto nelle vicinanze un giornalista del famigerato settimanale “Il Pettegoliere“  e temeva che lo sentisse.

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La grande artista sorrise dolcemente e mosse appena la zampa. Tutti, all’improvviso, tacquero. Era una fanciulla, ma non proprio tanto giovane, un pochino curva e sembrava stranamente stanca. Osservò i quadri uno per uno. Lodò i colori fantasiosi della pavonessa e quelli realistici del sindaco, l’autoritratto cubista della lumaca e quello surrealista della lepre, i quadri specializzati dei gatti, che esaltavano i felini e quelli specializzati dei cani, che esaltavano i canidi, la bella pittura danzante delle farfalle e gli strani mostri ieratici dell’inconscio presentati dagli scarafaggi, disse che i topolini naïf del canguro erano come un armonioso motivo musicale dolcemente ripetuto e trovò una parola buona perfino per consolare il tricheco, al quale faceva ancora male l’occhio: <Non avevo mai visto un personaggio così trasparente dipinto in un quadro> affermò mentre tutti la guardavano a bocca aperta perché, davvero, non credevano di essere stati tanto bravi e di avere donato qualcosa di buono.

Ella aggiunse, con una specie di tenerezza materna, che in ogni essere vivente è calato un artista diverso ed improvvisamente tutti gli animali smisero di essere gelosi gli uni degli altri. La grande artista era convinta del loro valore. Sostava da un quadro all’altro pensosa, senza fretta. Il pubblico affluì per comprare opere di così alto significato e si fecero tanti soldi, coi quali si ricavarono borse di studio per artisti poveri.

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