Intervista Senza Domande a Emilia Barbato (di Flavio Almerighi)

CAPOGATTO di Emilia Barbato ed. Puntoacapo 2016

Ci sono evidentemente ragioni, ma non le so individuare, per cui le poesie di Emilia Barbato mi si incidono nel cuore e non lo mollano più. E’ un dato di fatto che lo scrivere di Emilia non abbia pensato nemmeno per un momento di gigioneggiare con le parole o ad ammiccare al lettore. Così come non abbia tentato di stupirlo con effetti speciali. Capogatto, la silloge poetica edita nel 2016 per Puntoacapo, è tutta così, ottima poesia, sincera e con uno specifico taglio filmico. Quindi niente lemmi particolari, nessun bisogno di tenere aperta una pagina di wikipedia per capire meglio il significato di riferimenti buttati là, assente la claustrofobia da città di Milano, vera e propria cinta muraria del mondo poetico italiano dove molti poetini, specie i residenti, trovano asilo. Capogatto pensavo fosse un vino, ma non solo. «L’espressione ‘far capogatto’ è impiegata in agronomia per indicare la tecnica di riproduzione delle piante a rami rigidi e inflessibili con cui si conduce un ramo della pianta madre nella terra allo scopo di utilizzare la sua capacità di emettere radici dall’apice». Affascinante. Se l’essere umano fosse un vegetale non metterebbe radici dai piedi, ma dalla testa. Può essere una buona dichiarazione, originale, di intento poetico. La poesia viene dagli occhi e dal cuore, sì, ma anche dalla testa. Emilia la pianta nel terreno buono per farne crescita, coscienza di sé ma anche, affascinante ossimoro, presa di distanza da eventi, gioie, rovesci e desideri che il quotidiano propina in continuazione. E la poesia diventa respiro salvifico contro le asme di ogni giorno, moto di analisi e di speranza. Di questa poesia ho amato fin da subito il suo taglio fatto di inquadrature cinematografiche, il movimento da carrello dell’operatore, specie quello degli occhi. E’ questa la “maledizione del poeta” quella di dovere, malgrado tutto, filtrare ogni attimo, ogni visione, attraverso una sensibilità troppo allenata, sviluppata, per poterne fare a meno: è il doverne scrivere, il dover continuare a scriverne. Siano pulsioni interiori, siano sollecitazioni esterne. Capogatto è un libro che merita di essere letto, un buon lavoro, che ci consegna un’autrice cosciente, uno stile di scrittura accattivante ma non artificioso. Un buon libro insomma, che vale la pena di incontrare.

Flavio Almerighi

 

*

 

 

Brani scelti

 

Quel modo di essere luoghi

Quello che dovremmo recuperare con cautela
è il nostro modo di essere luoghi,
di raccoglierci e languire riflettendo l’aggressiva
decadenza delle cose, delle case, dei muri,
il progressivo franare dei margini delle strade,
dovremmo ammettere di contenere
la popolazione stanca di una baia
e il fastidio della sua aria salmastra, la noia
dei rami, capire di essere la riva dove si ripetono
le acque tristi e la terra, la solitudine
del bastione di Spa House che resta nell’incuria
e nel romanzo di quell’uomo che amava soltanto i bambini.

 

Possibile

Si potrebbe prendere un aereo selezionando
attentamente gli oggetti da portare,
sistemarci sulle teste il bagaglio,
evitando di perdere
dettagli, alloggiare in cabina
e sorridere alle improvvise perdite di quota,
non c’è da temere,
siamo in una poesia del possibile,
al massimo potremmo registrare brevi
cadute di oggetti,
dalla mia borsa per esempio parole,
su questa versione
modificata scopriamo
di essere un volo parabolico, subiamo
l’accelerazione di guardarci negli occhi
e restare in silenzio, schiacciati
contro i sedili, scriviamo un sorriso interminabile,
dopotutto,
siamo in una poesia del possibile
e sperimentiamo l’assenza di peso fluttuando
nei pensieri, potremmo chiudere
gli occhi e tenerci per mano,
osare,
tenere il calore nel reciproco incavo,
su questa versione
è credibile
persino il salvataggio
di una stella o di un sogno aprendo
le mani, del resto,
un minimo corpo livido,
una particola azzurra, cos’è
se non l’inizio di una poesia in una poesia possibile.

 

esercizio

Affondi i denti nella polpa farinosa della mela,
la buccia liscia, lucida, si stacca, cede al morso
succoso della tua bocca, sorridi,
vivo nell’istante che ha l’odore intenso e breve del mare
e con l’umore mutevole di un eroe mi posizioni
la mutilata rotondità del frutto sulla testa
e accordi con un occhio la morte
con l’altro la precisione della balestra.

 

 

1) una credenza apparecchiata di paure (pg. 13)

da bambina facevo un sogno ricorrente, entravo in una casa luminosa in compagnia di un familiare. La cucina dell’appartamento, bianca, aveva sulla superficie piccoli oggetti di cristallo e porcellana, mi soffermavo a guardarli, le statuine intrappolavano la luce e mi illuminavano le mani. Spostandomi nel corridoio il mio stato d’animo cambiava e io sentivo nell’aria che qualcosa di terribile poteva succedere, il parente scappava ed io restavo sola ad affrontare due occhi verdi provenienti da una stanza buia, i ninnoli lasciavano il posto a quei due fari ripugnanti, unica fonte di luce nella notte. Il sogno finiva così perché il mio terrore era talmente incontenibile da indurre la mente a porvi fine. Penso che le più grandi paure e i disequilibri nascano nel cuore della casa.

 

2) dopo avermi prestato gli occhi (pg. 15)

se mi chiedessero di indicare quale parte del corpo umano si avvicina di più ad una soglia certamente risponderei, indicandoli, gli occhi. Custodi dei nostri segreti ci permettono di comunicare con l’altro e di entrare in lui, così come ci arricchiscono consentendo al mondo di attraversarci. Come un estuario gli occhi fanno fluire l’universo fuori e dentro di noi . L’attimo prima di un bacio, il momento più bello, è quando ci avviciniamo agli occhi del partner e ci riflettiamo, quando per un istante le iridi sembrano unirsi in un’unica, liquida, sostanza.

 

3) ne sorridere alle improvvise perdite di quota, (pg. 21)

mi piace pensare alla poesia come a qualcosa che insegue e non dà tregua sin dalle origini dell’uomo, la poesia eterna, stabile, per certi versi assoluta malgrado i mutamenti del linguaggio e delle sue forme nel tempo, è come se attraverso la poesia l’uomo esprimesse la sua essenza in tutte le forme. In una poesia tutto è possibile perfino registrare brevi cadute di oggetti e le perdite di quota di un volo parabolico, dopotutto, sperimentavo un gioco mentre scrivevo l’inizio di una poesia in una poesia possibile.)

 

4) nessun uomo può arrestare il vento (pg. 23)

L’ineluttabile talvolta è freddo e spietato come una folata di vento in inverno e nessun uomo può arrestare il vento.

 

5) I vecchi cercano. (pg. 25)

Si alza dalla poltrona, fruga nella madia, le mani si spostano freneticamente, i gesti si fanno silenziosi, sequenze mute di mani tra le tazze, un dejà vu di mani convulse, mani che finiscono e poi riprendono, movimenti imprecisi, come quelli di sua madre. I vecchi cercano. C’è sempre un vecchio intento a frugare nella storia e le immagini che li restituiscono interi sono pure. Poetiche inspiegabili, nessuna regia, nessuna volontà di chiarimento, il cielo si nasconde dietro le nuvole, i vecchi frugano, le onde si ripetono, il cuore trema, il tempo si consuma lentamente come le mani scheletriche dei vecchi, i colori del sole, la memoria della spuma sulla sabbia. Si registrano fatti, senza desiderarne la ragione.

 

6) dammi la forza di continuare a tenere (pg. 30)

Santuario è stata scritta per Festivart della follia, pertanto è totalmente avulsa dalla raccolta, è come l’albero bianco della malattia che rappresenta, è un vortice di parole che ruota nel suo uncino senza muoversi, senza invadere le altre pagine. Mi soffermo però sul verbo tenere considerando l’opportunità che mi è stata offerta. Si tiene a una persona, a una cosa, ci si afferra a qualcuno o a un appiglio. Credo che tenersi sia difficilissimo per questa ragione reputo che richieda sempre una preghiera.

 

7) nella forza centrifuga di provincia, (pg. 34)

Quando ho scritto inverno vivevo in provincia e il solo modo utile di raggiungere la liberazione era chiudere la porta di casa restando sola con le mie fantasie, tutto il resto era una inutile centrifuga disgregante, al riguardo, mi viene in mente l’inizio del film velluto blu di David Lynch, i volti sorridenti, le strade pulite, i vestiti domenicali, i prati curati delle case e i papaveri ai cigli delle strade, ma nella terra tutto il tramestio, il brulichio degli insetti, il vocio e le chiacchiere.

 

8) traccio la sacralità in cui mi innesto. (pg. 46)

La sacralità dell’amore in un rito pagano, un’incisione a forma di croce nella corteccia o sulla pelle, segue l’innesto.

 

9) l’urlo di queste tredici apparenti primavere , (pg. 47)

le prime tredici settimane di cassa integrazione guadagni ordinaria (tredici apparenti settimane di stasi) misurano i decibel di un urlo, l’urlo forte di chi è costretto e ibernato in tanta inattività, di chi ha sentito pronunciare il proprio nome o si è visto recapitare una lettera come primo segnale, di chi a metà del suo cammino sa che questa primavera sbagliata lo eradicherà.

 

10) vivo nell’istante che ha l’odore intenso e breve del mare (pg. 52)

il brodo primordiale da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna, il mare, l’acqua metafora di ciò che ci origina, che ci moltiplica e che conteniamo, simbolo eterno del mutamento, l’acqua che veicola i nostri umori, tremori, l’istante breve dell’accoppiamento in cui si possiede l’altro e il suo amore, la sua vita prima della morte.

 

11) il rigore di un assedio (pg. 58)

una società così fluida che consuma indiscriminatamente tutto, beni e persone, parla un uguale codice e sottostà a leggi di livellamento dei singoli minando la cura dei gesti e il dettaglio. La tecnologia facilita questo scempio, l’indisciplina, il libero accesso alla carne, la mattanza. L’amore invece richiede lentezza, un pareggiamento continuo delle dissonanze, una morsa vera e un fuoco serio. Il rigore di un assedio.

 

12) poi desideravo tenerti in una serie di pagine (pg. 68)

in un capolavoro di letteratura postmoderna si trova ogni forma di bellezza, la descrizione minuziosa di una città inesistente, l’ombra e il respiro delle foglie di un olmo che dà su una casa, una cadillac gialla, la figura di una donna in ascolto colpita dagli impulsi elettrici della voce dell’uomo che la chiama, un telefono analogico, il muro di lui, la luce della sua cucina che illumina la notte dalla finestra e tutti gli imbarazzi del non detto sono il soggetto giusto di un quadro  di Hopper e la mia raffigurazione poetica dell’amore.

 

*

 

Biobibliografia

Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971. Laureata in Economia ha pubblicato diverse antologie con Fusibilialibri, Ursini, Aletti, Fondazione Mario Luzi Editore e le raccolte di poesia Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011), Memoriali Bianchi (Edizioni Smasher, 2014), Capogatto (Puntoacapo Editrice, 2016) I classificato al concorso nazionale di poesia “Chiaramonte Gulfie – Città dei musei”.


3 risposte a "Intervista Senza Domande a Emilia Barbato (di Flavio Almerighi)"

  1. Poesie molto belle quelle proposte e condivido perfettamente la recensione. Ho percepito una scrittura lucida che chiude il cerchio ogni volta. Come fosse il risultato di una curiosità molto razionale che si insinua nell’ignoto della realtà per cercare di carpire anche un minimo lembo di senso laddove è possibile. Credo che dove non riusciamo a spiegarci o a comprendere qualcosa la soluzione migliore sia evocare l’esperienza di ciò che si contrappone a quella incapacità. In questo la poesia è privilegiata perché può permettersi di rappresentare i tentativi più intensi trasformandoli pure in vortici di parole frantumate. Qui non succede e questi versi così nitidi sono di certo un approccio ammirevole. La poesia “Possibile” non so perché, magari per il tema del viaggio e il gioco possibile/impossibile, mi ha ricordato l’inizio di un testo del grande Panella che però è più ermetico: “Prendiamo una carrozza anacronistica, aggiornandola in quanto inesistente.” Complimenti all’autrice.

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  2. molto azzeccata l’introduzione di Fabio Almerighi: la poesia di Emilia Barbato è un fascio di parole essenziali che penetra la sostanza quanto un pensiero-a-raggi-X.
    mi piace l’idea di recuperare “il nostro modo di essere luoghi”, peculiarità che almeno in parte è complementare al nostro essere tempi (ovvero al “languire”). devo ammettere che lo spazio-tempo soggettivo è un’entità fisica che mi ha sempre affascinato, come pure trovo che comunichi un “parabolico” incanto la poesia del pensiero e di tutti i nostri modi di esistere (distanti, vicini e d’istanti)…
    : )
    perla di saggezza quel “le più grandi paure e i disequilibri nascano nel cuore della casa” e parimenti innegabile è il dato di fatto che “nessun uomo può arrestare il vento”, cosa a cui talvolta mi ribello – da bravo pessimista comico – osando liberare un peto (chiedo scusa, ma come tu stessa ammetti “credo che tenersi sia difficilissimo”)…
    : )
    comunque, l’essenza di fondo dell’amore non cambia: il fuoco brucia (serio o sorridente che sia il nostro modo di parafrasare sensi e cose umane).

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