Stranieri, Valentina Editrice, 2017
Nota a Stranieri di Francesco Sassetto.
Ancora non mi è chiaro cosa si voglia assemblare parlando di poesia civile. Si sa, ai letterati e ai filologi piace molto definire, incasellare, sistemare. Si sa anche che alcuni poeti non sono disposti a farsi mettere ordinatamente in teca come farfalle morte. Grazie al cielo Francesco Sassetto è uno di questi. Un autore che sa scrivere bene, sia che si tratti di quanto gli succede attorno, sia quando affronta temi più personali. Un quasi coetaneo con cui sento di avere molti punti in comune.
Stranieri è il penultimo lavoro di Sassetto. Edito nel 2017 per Valentina Editore, dopo un po’ di letture mi ha fatto pensare che raramente un autore riesce ad azzeccare e sintetizzare nel titolo praticamente tutti i contenuti del suo libro. In Veneto si definiscono “foresti” tutti coloro che vengono da fuori, senza distinzione di regione o nazionalità. Il foresto è qualcuno che viene da un luogo nebuloso ed estraneo come potevano essere un tempo i boschi attorno ai centri abitati, pieni com’erano di animali pericolosi e malviventi. In Stranieri, Francesco Sassetto ci racconta dal suo punti di vista Venezia, la sua città: una sorta di Cinecittà dove il pur bellissimo e unico al mondo panorama urbano diventa un fondale inabitabile. Un luogo dove tutti, persino i veneziani veri (in verità ridotti a poche decine di migliaia) stanno diventando, o lo sono già, anch’essi “foresti”.
Venezia diventa un non luogo dove tutti sono “foresti”, stranieri, nessuno escluso. Dove il formalismo e la burocrazia appannano e rendono quasi impossibile il lavoro agli operatori culturali come Francesco, che tentano di integrare in un tessuto sociale che non esiste più, i numerosissimi immigrati delle più svariate nazionalità oramai maggioranza numerica in città rispetto agli autoctoni. Il vero dramma che ne esce è proprio questo, l’integrazione è impossibile, perché un tessuto sociale disponibile per l’integrazione non esiste più. Molti veneziani hanno preferito la terra ferma. La città diventa quindi una sorta di ipermercato, dove tutto o quasi si può vendere e comprare. Ai nuovi arrivati basta un po’ di italiano, e il resto non ha nessuna importanza né umana né culturale.
Il libro si articola in tre sezioni Acqua Alta, Altri Annegamenti, Stranieri. Molti brani sono proposti, specie nella prima sezione sia in dialetto veneziano che tradotti in lingua. Su tutto la sensibilità di Francesco Sassetto, il cui dolore si insinua un po’ dappertutto, dolore e pietà non soltanto per la perdita delle radici, ma del territorio stesso dentro cui queste radici affondavano. Dolore e incomprensione che trovano rifugio soltanto nell’intimità personale e della famiglia. Uniche vere vie di fuga per un insegnante che insegna cose a cui nessuno presta più attenzione, ma questo è un altro libro, un’altra storia. (Flavio Almerighi)
*
Manifestazione a Mestre
Hanno chiesto le donne musulmane un orario personale
per nuotare alla piscina comunale
un’ora, la domenica, ad ingresso riservato
l’autorità si è detta ben disposta a firmare l’autorizzazione
in nome dell’accoglienza, dell’apertura alla diversità
il governo cittadino ha detto sì rapidamente e
rapidamente si è defilato.
E ora sfila feroce la manifestazione, le donne velate
armate di verità e concessione istituzionale, i mastini
di Forza Nuova a impedire il passo,
insulti, sputi e derisioni
la polizia pronta a intervenire, la popolazione ha occhi
di stupore, si divide sul torto e la ragione.
S’alzano le grida, cresce confusione e smarrimento
tutto s’annebbia, si spegne la ragione.
Oggi a Mestre è guerra di religione.
S’ingrossa il corteo musulmano e canta in coro e la milizia
di Forza Nuova prende nuova forza,
sfida le truppe dei centri sociali schierate
nella difesa ad oltranza della causa santa.
La legge, l’autorità è assente, la gente boccheggia,
si dice qua e là di incontro di civiltà,
tolleranza e integrazione
uomini e donne di buona volontà.
Qui si appresta la prova generale
il preludio del massacro che si farà
globale nel rispetto vintage di ogni cultura,
nell’ossequio vile ad ogni pensiero, credo e religione
qui si dà ragione per pigrizia e comodità
si benedice l’orrore che verrà.
*
Intervista senza domande a Francesco Sassetto
1) L’acqua domani salirà di nuovo a centotrenta (pg. 24)
E’ uno dei versi di chiusura della poesia Aqua alta, che apre la raccolta. Il testo originale è in dialetto veneziano (come molte altre poesie del libro) perché io ho sempre parlato indifferentemente in italiano e in veneziano, e amo il dialetto veneziano. In poesia può essere un formidabile strumento espressivo perché è la lingua più vera, quella, per dirla con Dante, del “pappa” e del “dindi”, una lingua arcaica e viscerale. Uso il dialetto per esprimere la realtà più intima, lo smarrimento, il disagio, le domande assidue sul senso – o l’assenza di senso – dell’esistenza. L’italiano è la lingua del discorso, della razionalità, il dialetto sgorga dal profondo, è la lingua dell’anima. E poi c’è l’alta marea, l’acqua che cresce, malgrado ogni previsione, un’alta marea che è presente, credo, in tutte le poesie del libro. Qui l’ho messa in parallelo alla sparizione di Gigi, un barista che conoscevo da anni. Di Gigi, malato gravemente e poi mancato, nessuno dice più nulla, nemmeno lo nomina. Il proprietario ha assunto un altro al suo posto e tutto procede “normalmente”. E l’acqua sale e sommerge Gigi e tutti noi. Credo infatti che l’umana compagnia di leopardiana memoria, la civitas, si sia oggi polverizzata in una miriade di monadi, di schegge distanti e diffidenti. Domina l’indifferenza, l’estraneità, il menefreghismo nei confronti di tutto ciò che non ci tocca personalmente. Sembra che il “non mi riguarda” abbia invaso ogni aspetto e momento della vita quotidiana, in una miscela di egoismo, solitudine e paura.
2) E gli spritz, i calici di prosecco gli danno coraggio, uccidono la tristezza (pag. 32)
La poesia, anch’essa in veneziano, parla di Mario, un giovane tabaccaio che conosco da anni, lasciato dalla moglie. Mario da tempo trascorre le giornate in calle, a bere con conoscenti occasionali, finti amici, avvicina le ragazze dei negozi, le corteggia, ride e scherza, così, dalla mattina alla sera. Si porta dentro una solitudine, un vuoto enorme, incolmabile. Credo che chi scrive versi debba anche raccontare le storie, le vite delle persone, perché fanno parte di una realtà in cui siamo tutti immersi, ci riguardano, e il poeta ha, a mio avviso, il dovere morale di dire, innanzitutto, la realtà. Dirla da testimone attento e partecipe, senza giudicarla. E sento necessario utilizzare il verso lungo, usato spesso in questa raccolta e nelle mie precedenti, proprio per il bisogno di raccontare, di descrivere e, quindi, un verso narrativo, ampio mi è indispensabile per disegnare una geografia poetica, costruire un fondale, un paesaggio, che non siano mero elemento decorativo, ma scenario su cui balzano in primo piano le mie figure, le storie, gli incontri che acquistano una più marcata consistenza, un senso di verità umana più pieno. Questa poesia parla quindi di solitudine che oggi sembra quasi un “valore”. Non è forse un caso che un termine come single circoli frequentemente, ad indicare spesso una scelta libera di vita. E può ben esserlo. Tuttavia, tradotto, significa “solo”. E la solitudine non è la condizione naturale dell’uomo. Ne consegue una spasmodica ricerca di illusori ed effimeri “rimedi” che si risolvono nell’adesione ai modelli ed ai riti collettivi inculcati dalla pubblicità e dal bombardamento massmediatico. Ma l’ottusa adesione a mode, modelli e comportamenti omologati provoca uno stordimento, un’assuefazione che non solo non colma il senso di vuoto interiore, ma anzi, lo amplifica, lo rende ancor più doloroso. L’incapacità di essere se stessi, accettare dolori e sconfitte, alla fine, scoperchia quel vuoto, quella povertà interiore che si è cercato di occultare. E il sentimento di solitudine si fa ancor più lancinante. La malattia, forse, incurabile.
3) comandanti che tacciono per paura, interesse (pg. 54)
Questa ed altre poesie simili costituiscono una sorta di j’accuse alla mia città, Venezia, una città diventata “prostituta”, dove conta solo il denaro, le categorie “forti” hanno vinto, ed un turismo fuori da ogni controllo – ma necessario ad alimentare enormi e incontrollati guadagni di pochi – ha assunto dimensioni distruttive. La poesia è Riva S-ciavóni, cioè la Riva più importante di Venezia, che si allunga da Piazza San Marco a Sant’Elena. Là si stende un’immensa casba di venditori di paccottiglia turistica, stazi di gondole, motoscafi privati, lancioni granturismo. Queste sono le categorie che comandano veramente. Sindaco e Giunta comunale sono, invece, i “comandanti” che tacciono per paura, interesse, pigrizia. E la cancrena è, a mio avviso, esattamente qui, nell’assenza e nel “lasciar stare” del Governo cittadino, dell’autorità preposta a vigilare ed applicare leggi e regolamenti che pure esistono. Questo tema tornerà ancora nella raccolta. Nell’ultima sezione, dedicata ai migranti, dichiaro ancora l’assenza dell’autorità, la mancata applicazione delle leggi, il coraggio di assumere decisioni e provvedimenti. Uno sfacelo che da Venezia si allarga all’Italia. Sempre acqua che continua a salire, dunque.
4) La Partigiana sta là, abbandonata, (pg. 60)
Un verso della poesia, in veneziano, 25 aprile 2015. Ricordo che, fin da bambino, andavo con i miei genitori, la mattina del 25 aprile, in Riva Schiavoni dove, all’altezza dei Giardini napoleonici, si trova il monumento alla Partigiana. Una statua in bronzo di Augusto Murer, che raffigura una donna distesa sull’acqua, posta su un basamento ideato da Carlo Scarpa. Un’opera splendida, realizzata nel 1961 per ricordare il movimento partigiano veneziano. Ad ogni 25 aprile là si raccoglieva una folla di persone, molti ex partigiani, silenziosi e commossi, con le bandiere dell’ANPI e i fazzoletti rossi al collo. Gente che aveva rischiato la pelle e ricordava bene. In prima fila, tutte le autorità cittadine. I discorsi non erano di circostanza, interpretavano un sentimento comune, condiviso. E io respiravo quelle parole, quegli sguardi. Ora sono tornato più volte, nello stesso punto. E non ho trovato più nessuno se non qualche turista. Una tristezza infinita. Penso che questa odierna perdita di memoria, la mancanza di solide figure di riferimento, di padri e guide ormai scomparsi insieme ad ogni sentimento autentico di appartenenza, di collettività, di solidarietà e civiltà non possa che renderci più deboli, soli e smarriti.
5) si dorme, si mangia, a volte si fa l’amore (pg. 69)
Il verso è tratto da una poesia, Natale 2104, della seconda sezione del libro intitolata Altri annegamenti. Ho cercato di esprimere, quasi in un elenco, la meccanicità, la ripetitività intrisa di abitudine e stanchezza, che segna tanti momenti della nostra quotidianità, trasformando, a volte, anche le occasioni di gioia e pienezza in una sorda e abulica obbedienza ad una ritualità meschina che ci restituisce infine insoddisfazione e tristezza. L’infelicità attuale credo consista in una sorta di anestesia collettiva della sensibilità, un intorpidimento dell’anima, un’assuefazione al “potrebbe andare peggio” che sembrano impregnare l’aria stessa che respiriamo. Un’afa che soffoca la vita. Le cause di questa infelicità sono ovviamente molteplici e non sta certo ai poeti trovare soluzioni. I poeti possono tuttavia indicarle, farne materia dei loro versi, in una volontà di re-azione, di resistenza che, se non salva la vita né cambia il presente, genera forse almeno consapevolezza, risveglia coscienze assopite, spinge a pensare, ad un “sentire insieme” che di un cambiamento può costituire la premessa.
6) È stato un incrocio balordo di incontri, una musica (pg. 75)
Anche questa è una poesia, Riflussi, della seconda sezione. Penso che a molti sia capitato di incontrare nuovamente, a distanza di tempo, persone con cui si sono intrecciate relazioni brevi, ma intense, trascinanti. Sono riflussi di un’acqua che strappa argini e appigli, acqua di forza/che turbina e azzanna. Un’acqua che può trascinare a fondo. Concludo la poesia invitando, per primo me stesso, a star saldi al riflusso dell’onda che s’alza e travolge, a non smarrire la rotta. Tener ferma una condotta etica coerente, mantenere una fedeltà a persone e scelte che si sono compiute, credo sia il solo modo di vivere con dignità, per non diventare, anche nei rapporti interpersonali, burattini infantili, eterni, inaffidabili e ridicoli adolescenti.
7) Sentila, sentila bene anche tu la bufera che viene, (pg. 83)
E l’aria già odora di guerra: questo è il verso conclusivo de La bufera che viene, una poesia di cui citi il verso iniziale. Pessimistico, certo. Forse troppo pessimistico, me lo auguro per primo. Ma è proprio la guerra l’esito – storicamente più volte registrato – della paura. Perché la guerra esiste ancora, il traffico delle armi sostiene in modo determinante l’economia di moltissimi Paesi. Le guerre si combattono, a centinaia, ogni giorno, guerre ipertecnologiche e battaglie medievali. Lontano da qui, da casa nostra, ma sappiamo che, nel villaggio globale, termini come “vicino” e “lontano” significano poco o nulla. I Signori della guerra esistono ancora, come e reggono le sorti di paesi, popoli, economie. E, prima o poi, la guerra potrebbe riguardare anche noi. Il pensiero di un attimo, un brivido gelato alla schiena.
8) dopo il banchetto occidentale (pg. 91)
Il verso è tratto dalla poesia C.t.p. che apre la terza, ultima sezione, intitolata Stranieri, dedicata agli “stranieri” in senso stretto, ai migranti. E sull’immigrazione odierna ho la fortuna di poter dire da un “osservatorio” privilegiato, dato che da tcinque anni insegno italiano a stranieri
di ogni età e paese presso il Ctp (Centro Territoriale permanente per l’Educazione in età adulta) di Mestre, struttura istituita nel 1997 per il conseguimento della Licenza Media attraverso un percorso abbreviato. E gli immigrati, provenienti da vari Paesi europei, africani ed asiatici ed appartenenti a diverse culture, etnie, religioni, costituiscono oggi più del 90% dell’utenza dei Ctp.
Vivendo quotidianamente il rapporto con lo “straniero” ho modo di toccarne “con mano” la difficoltà e complessità. E cercare di fare ciò che posso fare, cioè scrivere poesia. Poesia che deve muoversi con estrema cautela, soprattutto non deve giudicare e nemmeno “spiegare” . Suo compito è, a mio avviso, osservare, testimoniare, raccontare, scoprendo la vuotezza dei molti stereotipi, dei luoghi comuni, dei pregiudizi attraverso le quali lo “straniero” è spesso visto e giudicato.
Le poesie di quest’ultima sezione costituiscono quindi il tentativo di esprimere in versi aspetti e momenti di quella che a me appare la problematica realtà del fenomeno migratorio in atto, destinato inevitabilmente a crescere nel prossimo futuro.
9) si viaggia tutti a batticuore, tutti ignoranti (pg. 96)
Il verso è alla fine della poesia Autobus n° 7, autobus che mi porta ogni giorno alla sede del Ctp, attraversando via Cappuccina di Mestre, un’arteria fitta di migranti, delle loro attività economiche e abitazioni. A bordo si respira davvero, a volte, la paura, sentimento che attraversa, credo, tutti i testi dell’ultima sezione. Una paura diffusa, sottile, spesso irrazionale. Una sensazione di generale precarietà e assenza di difese forti, politiche, legislative, di ordine pubblico, alimenta timori e ansie. E, insieme, il desiderio inconscio di qualcosa o qualcuno che protegga, rassicuri e garantisca adeguata difesa. La paura ha bisogno di un pericolo. E colui che, più di ogni altra cosa, mette a repentaglio beni e sicurezze è lo “straniero”. L’assenza o la pochezza degli interventi governativi finalizzati ad una seria gestione del complesso fenomeno migratorio attraverso un difficile ma necessario equilibrio tra apertura e dialogo e severità e sanzione verso chi viene meno ad un patto (perché esiste un vero e proprio “Accordo di integrazione”) genera smarrimento e timore che sfociano facilmente in ostilità ed avversione. E lo straniero, che spesso – non sempre – fugge da guerre, povertà, violenze, percepito attraverso stereotipi e semplificazioni abilmente alimentate da alcune forze politiche, è quindi l’”invasore”, il nemico. E la paura appare giustificata, legittima. Si chiude così un cerchio perverso con conseguenze inimmaginabili.
10) La legge, l’autorità è assente, la gente boccheggia (pg. 111)
Si tratta di un verso della poesia di chiusura della terza sezione e del libro, Manifestazione a Mestre. Il fatto è accaduto qualche anno fa. Una delegazione di donne musulmane aveva chiesto due ore, la domenica, di accesso riservato alla piscina comunale, pubblica. Richiesta subito accolta dalla Giunta comunale in nome dell’”integrazione”, tra mille polemiche e discussioni. Poco dopo si è avuta, prevedibilmente, una manifestazione assai composita. Le donne musulmane in corteo, con canti e balli, militanti di Forza Nuova di fronte a loro, separati da cordoni di polizia, e militanti dei Centri sociali a sostegno degli “stranieri”. Grande assente, come dice il verso che hai riportato, le Istituzioni firmatarie della concessione. Da qui confusione, smarrimento e perplessità della cosiddetta “gente comune”. Personalmente, non ho voluto giudicare, scrivendo questa poesia, l’operato di nessuno, ma mettere in guardia da una malintesa “apertura alla diversità” e dalla riluttanza della classe politica a prendere decisioni ed assumersi responsabilità, in genere ben più propensa a discutibili e pilatesche concessioni in nome di un’astratta e fumosa “integrazione”, più facile da invocare che da saper e voler concretamente realizzare e gestire.
Ho cercato, in conclusione, di trasmettere emozioni attraverso poesie che scuotano, che spingano a pensare, ad accendere reazioni e riflessioni, senza temere di dire cose sgradite, senza alcun ossequio al politically correct. Perché credo sia questo un dovere della poesia. Esporsi, rischiare, essere voce “fuori dal coro” che non cerca ad ogni costo l’approvazione, il consenso o l’applauso.
*
Francesco Sassetto risiede a Venezia, dove è nato nel 1961. Si è laureato in Lettere nel 1987 presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia con una tesi sul commento trecentesco di Francesco da Buti alla Commedia dantesca, pubblicata nel 1993 dall’editore Il Cardo di Venezia con il titolo La biblioteca di Francesco da Buti interprete di Dante.
Ha collaborato in qualità di cultore della materia alla cattedra di Filologia Dantesca ed ha conseguito nel 1998 il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e Tecniche dell’Interpretazione”. Insegna Lettere presso il C.t.p. (Centro territoriale per l’educazione in età adulta) di Mestre.
Scrive componimenti in lingua e in dialetto veneziano che hanno ricevuto numerosi premi e segnalazioni.
Ha partecipato a presentazioni, incontri e pubbliche letture di testi poetici, anche in ambito scolastico. Suoi testi sono presenti in numerose antologie e riviste ed ha pubblicato le raccolte di poesia: Da solo e in silenzio (Milano, Montedit, 2004) con prefazione di Bruno Rosada, Ad un casello impreciso (Padova, Valentina Editrice, 2010) con prefazione di Stefano Valentini, Background (Milano, Dot.com Press-Le Voci della Luna, 2012) con prefazione di Fabio Franzin, Stranieri (Padova, Valentina Editrice, 2017), con prefazione di Stefano Valentini, Xe sta trovarse (in dialetto veneziano) (Samuele Editore, Pordenone, 2017), con prefazione di Alessandro Canzian.
Hanno scritto sui suoi testi: Flavio Almerighi, Marco Baiotto, Claudio Bedussi, Fabrizio Bianchi, Alessandro Canzian, Elisa Davoglio, Ivan Fedeli, Fernanda Ferraresso, Mauro Ferrari, Fabio Franzin, Lucia Guidorizzi, Gianmario Lucini, Angioletta Masiero, Luciano Nanni, Alfredo Panetta, Laura Pierdicchi, Paolo Polvani, Bruno Rosada, Francesco Tomada, Stefano Valentini.
Collabora con la Rivista Le Voci della Luna; suoi testi sono presenti nelle riviste online Versante Ripido e Sagarana, in alcuni blog e siti web.
Felice di avere incontrato, letto, intervistato Francesco
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Felice io di aver conosciuto Flavio, ottimo poeta e amico generoso e sincero che ha dedicato ai miei versi un’attenzione ed una passione fortissimi, a cui non posso che dire un grazie di cuore. Nelle parole di Flavio mi riconosco completamente, parole che centrano pienamente il “nocciolo” di questo libro. Io ho poi semplicemente cercato di dire qualcosa su questi versi, cosa mi ha spinto a scriverli, sperando di riuscire a comunicare qualche emozione e riflessione. Solo così le nostre scritture possono avere un qualche senso, non essere del tutto inutili. Grazie quindi a chi vorrà passare di qui e lasciare una sua traccia. Per chi fa “poesie” è il dono più prezioso. Un caro saluto a tutti
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Benvenuto a neobar Francesco e grazie a Flavio, per l’introduzione e l’intervista che ci ha dato modo d’avvicinare motivazioni e dinamiche poetiche di libro e autore. Credo che un filo comune vi unisca, attenti alle voci che bussano alla vostra porta di poeti, generosi nel fornire loro parole, luoghi, personalità, dimora. Quasi rimanere sottotraccia per meglio captare le necessità comuni, gli appelli da sottolineare in altra forma che non sia pura sorda didascalia da quotidiano ma bensì sensibile pellicola, capace d’azione infiltrante, pervasiva, finalmente agente…
un caro saluto a entrambi
Doris
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Mi unisco al benvenuto di Doris e grazie a Francesco e Flavio. Si sente spesso, dice Flavio, il bisogno di “assemblare”, di dare delle etichette e può perciò sembrare fuorviante definire i versi di Francesco semplicemente come poesia “civile”. Questo perché la poesia civile ha assunto oramai accezioni negative. Fa pensare inevitabilmente a qualcosa di retorico o studiato per servire una o la propria causa. Forse perché poeti autenticamente “civili” ne abbiamo sempre di meno. Eppure, in questo caso, “civile” mi sembra il termine più adatto per una poesia in cui il proprio percorso esistenziale ha come centro l’impegno etico, l’aprirsi e comprendere l’Altro, il saper interpretare gli eventi abbattendo i luoghi comuni. Una poesia che nasce come necessità e bisogno, e per questa ragione intima, che non si erge a giudicare ma smuove e provoca. Una poesia che parla di ciò che si conosce, che si tocca con mano ed è parte intrinseca del proprio vissuto.
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