I volti non hanno più nome – Giuliano Ladolfi Editore 2017
Nota a “I volti non hanno più nome” di Bruno Bartoletti
Quando si ha modo di conoscere poeti onesti, uomini di cultura come Bruno Bartoletti, bisogna fermarsi e gustare la fortuna di quell’incontro.
I volti non hanno più nome, uscito nel 2017 per Giuliano Ladolfi Editore non è certo un quaderno di doglianze per un mondo che non c’è più, per la gente persa per strada tra disgrazie e anagrafe: l’autore a modo suo, com’è giusto che sia, attinge al suo talento per costruire un ponte che lo unisca a chi è stato e lo aiuti a congiungersi a loro. E’ ritornare per capire, come scrive lo stesso autore in uno dei suoi versi meglio riusciti e più rappresentativi della raccolta intera. Bruno Bartoletti non pretende di fare scuola, essere innovativo, sedurre ogni suo potenziale lettore. Sa benissimo che la forza della poesia sta nella semplicità e nel vissuto. D’altronde la musicalità che accompagna i versi lungo tutto il libro ha un ritmo convincente, frutto di un background di letture e sobrietà. Il giusto equilibrio è la vera cifra stilistica di questo autore. Il libro è un insieme di volti che recuperano il proprio nome attraverso i versi di Bartoletti, spesso incontriamo le figure dei genitori, ma non soltanto quelle.
La vecchia Guzzi non va giù di giri, ha ancora tanto da ruggire. (Flavio Almerighi)
I volti non hanno più nome
Che qualcosa stesse cambiando
lo capii dalle ore di insonnia
e dalle volte in cui la notte vado al bagno.
A stento fatico a trovare l’uscita,
m’addentro nel buio
barcollo tentando altre porte
a stento ritrovo l’entrata.
Un tempo potevo indicarla bendato
la porta a memoria, senz’ombra,
un tempo nemmeno distante.
E li vedo – le ombre sui muri –
quei volti che tornano.
I volti non hanno più nome.
Giocare a nascondino
Amavo l’ombra, lo spigolo dei muri
e il senso di giocare a nascondino, per paura.
Sapevo che nell’angolo, il più grande, ci si poteva
anche nascondere e nessuno
sarebbe poi venuto a rimpiazzarmi, sapevo
che quello era il posto più sicuro,
per questo la sera me ne andavo
per cercarlo, mi mettevo sul muro
di traverso, con le gambe incrociate
e nell’attesa contavo fino a dieci
come un tempo.
Ma ora non ho più gli anni del gioco,
guardo ancora lontano, son cresciuto
e con gli anni ho smesso di giocare,
ma non so farmene una ragione,
così aspetto
aspetto che qualcuno ritorni per cercarmi.
Era un’alba
Era un’alba come un’altra, perché le albe
sono tutte uguali, ma quel giorno batteva
una luce ovattata da Santo Stefano verso
l’acqua dell’Uso, una luce obliqua
sul cono del fiume. Non c’era nient’altro.
Mia madre portava nel cuore quel sogno,
l’aveva sognato la notte col volto
un po’ triste e il busto tagliato a metà
per dirle in uno stanco sorriso:
«A t salút, Maria, a n s’avdemm piò.»
Mi parve sentire una voce chiamarmi,
lontana, e ancora la sera mi volto:
per anni ho creduto che fosse venuto
mio padre, la notte, a trovarmi.
Una vecchia Guzzi e mio padre
Una vecchia Guzzi e mio padre
– mi sembrava un gigante – sui tornanti.
Mi diceva indicando uno spicchio più azzurro
tagliato lontano tra i monti:
«Vedi? Quello laggiù è il mare».
E aveva un limpido riso da buono
mio padre che appena conobbi
e risento quel dolce sapore
di azzurro tagliato tra i monti.
La vita si inerpica a volte si sfascia,
ma restano sempre i più dolci
ricordi.
Le mani che cercano l’ombra.
Intervista Senza Domande a Bruno Bartoletti
- ritornare per capire (pg. 11)
Sono sempre stato convinto che ciò che noi siamo dipenda in gran parte da ciò che siamo stati, perché “immortale è l’infanzia”, scriveva Mario Luzi. Le nostre radici incidono profondamente nel nostro essere e ne condizionano lo sviluppo futuro. La ricerca della verità in fondo consiste in un movimento a ritroso nel tempo. Il tema, non a caso messo come primo componimento, vuole essere un itinerario che si sviluppa lungo le pagine del libro. Il ritorno a Bisanzio vuole rappresentare la meta di questo viaggio verso il porto per “ritrovare i giorni e per capire”. Diventa estremamente attuale ciò che scrive Eliot: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine / e finire è cominciare. / La fine è là donde partiamo”. Come attuale ritorna il mito di Sisifo, secondo l’interpretazione di Camus, Sisifo non viene sconfitto, ma proprio nella sua consapevolezza di sconfitto sta la sua rinascita e la sua vittoria.
- ci si innamora sempre troppo presto (pg. 17)
L’Amore visto come ingresso nella maturità, e la maturità arriva sempre troppo presto. Restare bambini rappresenta sempre il topos in cui si identifica e da cui parte la poesia. Ma è anche il segnale del vuoto che porta quando l’amore non è vissuto, quando le storie sono solo raccontate.
- aspetto che qualcuno ritorni per cercarmi (pg. 20)
Giocare a nascondino rappresenta la metafora dell’infanzia, ma diventa anche metafora della ricerca della propria identità. Dall’altra parte è il segnale di uno smarrimento o di una perdita. In fondo siamo tutti alla ricerca di noi stessi o stiamo tutti aspettando Godot che non arriva mai. Ridiventare bambini e farsi piccoli, quasi nascondersi dietro i paralumi o negli angoli più bui, scomparire “come il sole dietro la nuvola e non dirlo alle foglie”, scrive Agostino Venanzio Reali.
- “Non ha età la poesia, è eterna” (pg. 30)
La poesia è sempre contemporanea e sempre, in ogni età, si apre per raccontare e parla. È stato scritto che la poesia non termina mai con la parola “fine”, pertanto si apre sempre alle interpretazioni, alle scoperte, ha un rapporto stretto e vitale con il lettore che la deve leggere e in qualche modo riscriverla, come afferma Dacia Maraini. La poesia non muore mai, la vera poesia dice sempre la parola che salva ed è sempre attuale.
- In fondo alla tomba si vede il mare (pg. 40)
Sappiamo che non sono mai stati trovati i corpi di Osip Mandel’ŝtam, Marina Cvetaeva, Gracia Lorca. Il mare ha questa funzione, da una parte sommerge e annulla, ma dall’altra diventa ricordo e testimonianza, a volte anche denuncia, simbolo di un viaggio che non ha ritorno. Scrivere il proprio nome sull’acqua ha questa funzione di eclissamento e di leggerezza.
- E stava là, ignara in un sorriso (pg. 42)
Una donna, Anna Achmàtova, la poetessa russa che ogni giorno per 17 mesi è andata sotto la finestra del carcere dove era stato rinchiuso suo figlio e che si sentì impegnata a scrivere quel dolore, viene ad identificarsi con la figura della madre, anche lei martire di un dolore tuttavia accettato e con funzione consolatoria. In questo sorriso c’è l’ironia tragica di tutta una vita.
- così mi piego incredulo al mistero (pg. 54)
La morte rappresenta sempre un mistero inspiegabile, specialmente quando la morte colpisce le persone più care. I versi sono stati scritti in occasione della morte di Monsignor, Pietro Sambi, caro amico e Nunzio Apostolico. Inspiegabile quando chi viene colpito è anche Ministro del Signore. E di fronte al mistero della morte la grande domanda sul senso della vita.
- ognuno si accosta all’altro, ciascuno con la sua pena (pg. 75)
Scriveva Paul Celan di non trovare nessuna differenza tra una stretta di mano e una poesia e indicava con questo la strada che doveva percorrere la poesia.
La poesia ha il grande compito di comunicare, di mettersi in relazione, di comprendere ed è anche strumento di lotta che unisce. Queste persone tutte unite nei loro dolori sono tutte in attesa del grande salto, ombre che aspettano nel grande palazzo che prelude alla morte, come nel canto “Il focolare” di Giovanni Pascoli. Anche in questo caso solo la poesia le può salvare ed è canto.
- Solo una donna incontro nella nudità dei giorni (pg. 78)
Chi è questa donna? Il simbolo della vita che avanza, donna e madre, vittima di un possesso che vorrebbe essere d’amore, ma anche donna sterile quando la guerra taglia e avanza. I versi sono stati scritti in memoria dei tanti caduti vittime di olocausti, di ingiustizie, di crudeltà. Così i giorni sono diventati nudi e il treno è in partenza con il suo carico di morte. Ma l’incontro con una donna vorrebbe esprimere ancora questa speranza verso una rinascita che tarda a venire.
- E il sorriso che spegne ogni storia (pg. 84)
Sono versi scritti in omaggio a Federico Fellini. Il libro dei sogni è il libro che mi era stato regalato dai colleghi e che riproduce le memorie del regista: bozzetti, schizzi, disegni, persone, treni in partenza, autoritratti. Il sorriso sui volti è un sorriso strano, enigmatico, ironico, come di chi la sa lunga sul mistero della vita. Le storie non finiscono mai, non si chiudono, ma lasciano sempre una porta aperta all’interpretazione e si sviluppano attraverso i simboli che bisogna andare a scoprire. In quel sorriso c’è forse la certezza che qualcosa di sconosciuto sta ancora nel profondo.
Risposte molto brevi, come vedi. E ancora molto ci sarebbe da dire. Sarebbe bello poter incontrare gli studenti e parlare con loro sulle funzioni della poesia. In fondo non dimentico mai di essere un insegnante e mi sento ancora un insegnante la cui funzione non è solo quello di trasmettere cultura, ma soprattutto quella di essere un punto di riferimento, un àncora a cui aggrapparsi. Oggi più che mai, perché sembra che non la cultura sia il parametro di riferimento, ma il successo. Non credete che ai nostra ragazzi si debbano soprattutto trasmettere questi valori partendo in primo luogo dalla famiglia e che a volte l’insuccesso, una sconfitta può solo far bene e aiuta a crescere?
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Bruno Bartoletti nasce a Montetiffi, una piccola frazione del comune di Sogliano al Rubicone (FC), dove tuttora risiede. All’età di 8 anni perde il padre, morto in un incidente in miniera in Francia, tragedia che lo segnerà per sempre.
Laureatosi nel 1967 in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Genova con una tesi su Giovanni Pascoli, nel 1974 è nominato assistente ordinario alla cattedra di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Torino, nomina a cui rinuncia per dedicarsi all’insegnamento negli istituti tecnici dove svolgerà dal 1981 la funzione di preside. Uomo di scuola e promotore culturale, presso l’Università di Aix en Provence ha svolto un dottorato di ricerca d’Etudes Romanes con un lavoro su Dino Campana. Si è sempre dedicato alla poesia fin da ragazzo, ma solo in età matura ha cercato di dare ordine e sistemazione al suo lavoro. Nel 1997 pubblica il suo primo volume, Trasparenze – Frammenti di memorie, nel 2000 Le radici, nel 2001 Parole di Ombre, nel 2005 Il tempo dell’attesa, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», nel 2012 Sparire in silenzio ritrovando il vento delle strade, Youcanprint Self – Publishing, nel 2017 I volti non hanno più nome, Giuliano Ladolfi Editore.
Numerosi i premi ricevuti e le pubblicazioni in riviste di settore.
Nel 2017 esce il saggio È sempre lunedì «Voglio ringraziarmi tutti per avermi concesso di insegnare», Youcanprint Self – Publishing, in cui affronta i principali temi culturali e scolastici di questo tempo.
Presiede l’Associazione culturale “Agostino Venanzio Reali” e l’omonimo premio nazionale biennale di poesia.
Quando ti accorgi di avere di fronte anzitutto un galantuomo, il lavoro viene in discesa
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