
Perché
Perché, mi chiedo, allorché sono sul punto di finire un articolo, ho voglia di fare altro, di dedicarmi a qualcos’altro, di scrivere d’altro? Succede sistematicamente, succede ogni qualvolta sono sul punto di finire di scrivere qualcosa. Succede e non so farne a meno: a tal punto che penso di amare lo scrivere proprio perché m’impone una deviazione; lo amo, forse, lo scrivere, per avere il piacere di interrompere. Scrivere, non finire, deviare piacere della sospensione? Succede anche questa volta. Succede come sempre. Sono, per esempio, adesso, sul punto di terminare un articolo su emozioni e epidemia, ma ho tanta voglia di deviare su altro per prolungare il piacere del non finire. Le ragioni profonde? Ce ne saranno! Potrebbe essere – suppongo, in via ipotetica, rimanendo nel dubbio che amo tanto – che io non sia incline a porre la parola fine al divenire in corso e abbia invece voglia di continuare nel processo di scrittura e, così, del vivere. E, dedicarmi ad altro, mi consente di prendere tempo, mi consente di porre a distanza lo spettro dell’epilogo, di continuare a vivere nel processo. Questa, suppongo, credo sia pure la ragione per cui amo riflettere in genere, più che sul risultato – il punto finale che consente di andare a capo – sul processo in corso e sul divenire che, magari, trasforma soggetti e oggetti ma non si arrende alla certezza della conclusione. Mi piace privilegiare l’incertezza? Sicuramente, amo dubitare, farne l’elogio, dire che faccio ipotesi, più che giungere – irrisoluto – a conclusioni che potrebbero essere potenzialmente sbagliate. L’elogio del dubbio è, ovviamente per me, quello fondato sull’esercizio della misura. Oppure, ancora, come dicono Berger e Zijderveld, il mio elogio del dubbio è teso a mettere in atto una politica della moderazione che tiene conto della condizione umana di fallibilità innanzitutto (Berger, Zijderveld 2011). Soprattutto, per quanto riguarda il mio intimo, non vorrei mai andare a capo, ma continuare all’infinito, forse cambiando direzione, pur sempre nella proiezione nel presente. Questa mia predilezione per un posizionamento sul/nel divenire è pure la ragione per cui amo molto produrre atti – e pensare su argomenti – in apparenza molti diversi tra loro. Per esempio, amo passeggiare e un filosofo come Deleuze, i postmodernisti in antropologia e lo stream of consciousness. Certo, quello che dico non è scontato: i collegamenti potrebbero essere molteplici o, al contrario, si potrebbero privilegiare le differenze, più che le similitudini. Che hanno a che vedere, infatti, gli uni con gli altri? Che c’entra la passeggiata con lo stream of consciousness? E cosa ha a che vedere Deleuze con gli antropologi postmodernisti? Diciamo che la passeggiata, solitamente, è un’azione che non presuppone un fine anteposto: se si passeggia, lo si fa per distrarsi, variare, rilassarsi. Se si passeggia, non ci pone nell’ottica della programmazione di un fare che tenderebbe, invece, verso un fine posto preliminarmente, preconfezionato, in qualche modo previsto. La passeggiata non ha niente a che vedere con la rigida programmazione: la passeggiata, diversamente dalla programmazione, non ha una forma di regolarità precostituita e non contempla nemmeno un ruolo unilineare del soggetto, compartimentato una volta per tutte. Infatti, come scrive Landowski a proposito di programmazione: “Ognuno adempie al suo ruolo, segue il suo programma o esegue il suo progetto d’azione per proprio conto e al proprio posto” (Landowski 2010: 25). Vogliamo fare un esempio per intenderci meglio? Se, mettiamo modo, devo andare a lavorare, la programmazione del mio fare è tesa, attraverso azioni preposte e calcolate, a condurmi verso quella che è l’azione prevista principalmente: mettermi a lavorare. E, allora, che cosa sono ‘costretto’ a fare per portare a buon fine il mio fare? Punto la sveglia, mi sveglio, impreco un paio di volte, prendo un caffè, faccio la doccia, mi vesto e, finalmente, vado a lavorare. Se passeggio, invece, è tutt’altra cosa. Mi lascio andare alle tentazioni e ai piaceri del momento: decido, per strada, di andare a destra invece che a sinistra, mi ficco in una libreria senza averne avuto l’intenzione precedente l’atto stesso, poi mi annoio, vado via e decido di appollaiarmi su un gradino, fare qualche foto, e così di seguito senza seguire un piano prestabilito all’origine. Anche lo stream of consciousness è legato allo svolgersi disordinato degli eventi che prendono luogo nella testa di un soggetto: è talmente disordinato – proprio come nella vita, direi – che un autore come Joyce fa a meno della punteggiatura proprio per mostrare lo scorrere, quasi senza fine, disordinato, delle idee. Per molti aspetti, la successione disordinata dei pensieri di un soggetto è simile alla passeggiata: ambedue non si pongono il limite di un fine preposto; ambedue insistono sulla volatilità e casualità dell’evento. Non è un caso che nei testi di Joyce e Woolf si trovino tante belle passeggiate. Uno dei flussi di coscienza più interessanti è quello concepito da Joyce nell’Ulisse, un romanzo in cui si parla di una sola giornata vissuta a Dublino da Leopold Bloom e da vari altri personaggi. Joyce cerca di entrare nella “testa” dei dublinesi attraverso il loro flusso di pensiero. Ecco, a titolo di esempio chiarificatore, un frammento del soliloquio di Molly Bloom:
“Sì perché non l’aveva mai fatto di chiedere la colazione a letto con due uova dai tempi del City Arms Hotel quando faceva la scena del malato là steso che neanche un re con la vocina per incantare quella befana della Riordan ma lei neanche un soldo ci ha lasciato tutto per le messe per lei e l’anima sua una spilorcia così mai vista giuro le veniva male a tirar fuori 4 soldi per l’alcool metilico mi raccontava i suoi mali sempre a cicalare sulla politica e i terremoti e la fine del mondo ma sant’Iddio godiamocela un po’ se tutte le donne fossero come lei contro costumi da bagno” (Joyce 2013: 922).
Non tutto è chiaro? Non tutto è comprensibile? Perché, per caso, lo è il flusso dei pensieri che si svolge nella nostra stessa testa? Non procediamo, forse, allo stesso modo disordinato quando pensiamo in libertà e non dirigiamo intenzionalmente il nostro pensare? Perché tutto sia più chiaro, dunque, è necessario l’intervento sintattico della scrittura che gli dà un ordine e ne stravolge comunque l’essenza di scompigliato procedere. Bene, allora, per quanto riguarda la passeggiata e lo stream of consciousness! E per quanto riguarda Deleuze? In che modo si lega questo filosofo del divenire a ciò che ho precedentemente detto? Deleuze è chiaro e risolutore a riguardo: “Non sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo” (Deleuze 1998: 44). E io cosa faccio? Sto nel mezzo, mi guardo bene dal finire, dall’arrivare a un punto. Per quanto riguarda i postmodernisti, ci sarebbe tanto da dire, ma terrò soltanto conto, qui, di un paio di cose: dell’improvvisazione e della ricerca sul campo. In Cultura e verità, Rosaldo definisce il posto dell’improvvisazione in antropologia. In questo volume, che raccoglie diversi suoi saggi, Rosaldo attribuisce un grande valore all’improvvisazione e ne parla non soltanto in riferimento alla cultura ilongot da lui studiata ma, anche, in ambito più occidentale. Più in generale, scrive Rosaldo: “il carattere opzionale, la variabilità e l’imprevedibilità rappresentano altrettanto qualità positive dell’essere umano, piuttosto che delle zone analiticamente negative di casualità” (Rosaldo 2001: 174). Questa affermazione la fa, Rosaldo, anche in virtù del fatto che varie definizioni di cultura mettono l’accento sull’organizzazione strutturata della società e lui, invece, è molto critico a questo riguardo. Per quanto riguarda la ricerca sul campo – solitamente vista come un progetto programmatico da portare a termine in consonanza con una questione di partenza elaborata spesso prima ancora di arrivare sul posto – è molto pertinente cosa dice Dwyer in Marocco: non ho “l’intenzione di portare a compimento un progetto di ricerca concepito in anticipo, né, all’opposto, di fare vani tentavi di ‘trasformarmi in nativo’. Avrei semplicemente […] cercato di essere sensibile alle mie esigenze e alle loro” (Dwyer: 1982, xvi). Per altri aspetti, questa dichiarazione è mostra di grande apertura, da parte di Dwyer, verso la cultura studiata, se non altro perché contiene una tendenza dialogica che mette avanti un simmetrico diritto di parola tra l’antropologo e i nativi. Ciò comporta, rispetto a un’idea di progetto da portare rigidamente a termine, un inevitabile grado di disordine e di improvvisazione. Ma, come si è capito, a me piace il disordine. Mi piace riflettere sul disordine. Direi che ce n’è sempre traccia nelle foto e, soprattutto, negli articoli miei, in varie forme. Mi interessa il disordine perché mi pare che ci sia nel genere umano la tendenza, anche concettualmente, a risolvere un disordine in ordine che, difficilmente, può rimanere tale. In sostanza, c’è dialettica tra disordine e ordine anche laddove non lo si vuole ammettere apertamente. Pur non essendo un posmodernista, un antropologo (francese) che ha messo bene in evidenza la dialettica costante tra ordine e disordine è Balandier (Balandier 1991). Lo fatto senza risolvere la dialettica in maniera netta né per l’uno né per l’altro polo semantico. Lo ha fatto, in definitiva, in modo simile a Rosaldo, senza trascurare la pertinenza del disordine come elemento creativo. In fatto di disordine, inoltre, una tendenza antropologicamente interessante è che il disordine per eccellenza è sovente quello degli altri, delle altre società o degli altri individui. Per quanto mi riguarda, ho una predilezione per il movimento. E ciò, forse, motiva ulteriormente il fatto che io dia un posto importante al disordine nelle mie letture e riflessioni. Come afferma Balandier, disordine e asimmetrie consentono il movimento del pensiero (e una migliore riflessione su di esso). Ma non è finita qui. Credo, in ogni caso, che il problema sia anche d’ordine culturale, non soltanto individuale. Secondo Jullien, per esempio, la trasformazione continua di cui parlano i cinesi ci sfugge perché, in Occidente, siamo più inclini a pensare in termini di categorie discontinue e oppositive; ciò vale per Platone che si attiene a un rigido prima e dopo; ciò vale per Aristotele il quale, pur pensando il cambiamento, ricorre a fasi intermedie ricostitutive del punto di partenza e di arrivo. Per Jullien, la “transizione apre letteralmente un buco nel pensiero europeo, riducendolo al silenzio” (Jullien 2010: 22). Con qualche concessione: la fluidità della trasformazione concepita dai cinesi è prossima alla ‘lunga durata’ di Braudel. È pur vero, però, che la ‘lunga durata’ di cui parla Braudel rimane intrappolata all’interno della metafisica occidentale perché fa leva sulle nozioni di struttura o di modello. In questo senso, secondo me, Deleuze sarebbe in controcorrente rispetto ai fondamenti essenziali della cultura occidentale perché mette, da parte sua, l’accento soprattutto sul divenire e sul processo. Ecco i vari perché. Ecco perché amo la passeggiata, Deleuze, gli antropologi posmodernisti, lo stream of consciousness, ma anche il disordine e l’improvvisazione. Ecco perché, dopo questa galoppata sul perché amo questo e quello, devo anche ammettere che volevo parlare d’altro all’inizio. Non mi sono attenuto all’ordine originale che avevo pianificato. Cos’è successo? Semplice: mi sono lasciato andare al processo dinoccolato dei miei pensieri e ho ceduto alla loro forza in divenire. Ogni tanto è bene cedere. Ogni tanto è benefico lasciarsi andare. L’ho fatto. Ho ceduto.
Stefano Montes
Un bel perché quello di Stefano Montes. E credo che siamo in molti a condividere il ritmo lento del passeggiare, metafora anche del muoversi continuo, dell’eterno non finire. Ricollegandomi a Deleuze, allargo il discorso all’anima barocca, che Stefano, da palermitano, ha nel suo DNA: “Il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all’infinito.”… “Un labirinto è detto molteplice, in senso etimologico, poiché ha molte pieghe. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma è anche ciò che risulta piegato in molti modi”(Gilles Deleuze, La piega – Leibniz e il Barocco).
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