Han Kang, “La vegetariana”, Ed. Adelphi
La scrittura della prima parte, ispida, barocca, iconicamente aspra e sconcertante, non mi aveva del tutto convinta. Ma, avanzando nella lettura, ho compreso la necessità del preludio narrativo: è in esso che la storia di Yeong-hye prende le mosse da un sogno, la dimensione ‘altra’, razionalmente smembrata, misteriosamente simbolica e tuttavia più vera della profondità della psiche. La rinuncia progressiva verso il cibo (anche, in seguito, quello offerto dal regno vegetale) rappresenta il tentativo di Yeong-hye di dematerializzarsi, liberandosi da sovrastrutture sociali, ruoli, confini, ipocrisie etiche, fino a coincidere con la muta eternità ciclica della Natura, con la sua libertà di essere consonante al ritmo del respiro universale.
Il corpo di Yeong-hye, sempre più leggero (metafora di un processo di metamorfosi simile a quello del bruco che diventa farfalla d’impalpabili ali destinata a sua volta ad una rapida dissoluzione) esercita un fascino misterioso e coinvolgente sul cognato, che, trasformando il corpo di lei e il suo in superfici sature di fiori coloratissimi e steli sinuosi, in un trasporto estatico, trasforma l’ atto sessuale in qualcosa di oniricamente rapinoso.
Anche la sorella di Yeong-hye viene travolta dalla forza di un corpo che, ormai sulla soglia della morte, possiede una forza comunicativa che la spinge ad esaminare l’aridità della sua vita, l’obbedienza senza gioia ai suoi doveri, fino al delirio, fino alla morte del suo passato.
Le pagine più riuscite, sono, a mio parere, quelle in cui i personaggi di questo romanzo si scontrano con il loro sé più autentico attraverso un affondo analitico straziante. Ogni umana creatura, di fatto, annaspa nel suo tragitto terreno, se non riconosce che il vero scandalo è la verità e che la morte è la vita che si vive senza viverla appieno.

Il romanzo è un grido che reclama l’autenticità, la fertile disobbedienza, la libertà, l’uscita fuori da, anche a prezzo della follia.
