Olivia Balzar
Là dove finisce il mondo
prefazione di Ilaria Palomba
postfazione di Cecilia Lavatore
Ensemble, 2024
Nota di lettura di Giorgio Galli
Là dove finisce il mondo è tecnicamente un prosimetro, ma è più giusto definirlo un flusso: un fiume di parole che si raggrumano ora in canto ora in modo più disteso, con improvvisi “spari”, improvvise verticalità che spezzano il tessuto testuale traverso dolorose dissonanze: ed è, in effetti, un libro doloroso, dominato dalla precarietà, l’attraversamento di un mondo dopo il suo crollo, un viaggio kerouackiano fra scaglie e lacerti di paesaggi e di storie, senza una direzione precisa, in cui il gusto della “bussola che va impazzita all’avventura” è l’unico gusto possibile, non per scelta ma per sopravvivenza, per l’energia vitale che comunque spinge a procedere.
Se rastrelliamo tra gli scritti in prosa, troviamo: “Di notte viaggiavamo di giorno dormivamo in posti sempre diversi, bevevamo vino e cercavamo di non aver paura dei fantasmi. Davanti a noi il deserto e il canto dei suoi spiriti”; “In questo luogo le strade sono strette, ripide, i tramonti striati di ogni colore. Quando scende la sera il buio dilaga e avvolge la valle. I passi rimbombano per i viottoli deserti. C’è solo la luce della luna e qualche vecchio lampione. Da qui si vedono le costellazioni. Il cielo è così limpido da caderci dentro. La notte il bosco ulula, le fronde degli alberi le muove il vento e in casa si sta caldi solo col camino acceso. È un mondo fermo ad un’altra epoca. Quella notte i canti liturgici della processione pasquale si intersecavano con la superstizione. Il suono dei sonagli scaccia i demoni, dicono. Nessuno verrà portato via stanotte. Eppure sentivo un brivido lungo la schiena. Dormivo nella casa di un’altra persona. Li chiamano Air b&b, ma sono solo case di altre persone, i muri pregni dell’energia di tutte le vite che l’hanno abitata”, dove spiccano la continuità e il contrasto tra il mondo ancestrale e il linguaggio della vita contemporanea. C’è, forte, la presenza dei morti, di un mondo arcaico fatto di mistero e di magia, di una notte che aleggia o che incombe e non si schiude mai: “Li avete sentiti anche voi i sussurri? Non sono grilli o cicale, sono voci antiche perse nel vento”. C’è il senso di un destino cieco a cui non si può sfuggire, che ti si stringe addosso intrappolandoti: “Ci abbiamo creduto per qualche istante che la provincia potesse lasciarci andare, ma dal grigio non si sfugge”. E il senso di un tempo che, nel suo scorrere, prosciuga d’illusioni e lascia soli con l’evidenza delle vite non vissute: “Questa bambina è molto creativa, farà grandi cose, dicevano tutti. È così che ti fregano. Inizi a sperarci e poi finisci nel tritatutto. E ti chiedi come hai fatto. Ti chiedi che fine ha fatto quella bambina e i suoi mondi. Crescere è una trappola. Questo si sono dimenticati di dircelo”. Il mondo appare come un assedio: “Da soli, d’estate si sta meglio. Si possono contare i giorni che separano dalla fine senza che nessuno ti giudichi. Si può sperare in un acquazzone o in un cielo nuvoloso che ti dia tregua da tutto questo sole spietato”.
Se passiamo ai versi, troviamo il senso di una vita evanescente: “Tu hai paura di esistere, / io ho paura di svanire. / Godiamoci l’inganno finché dura. / Sarà eterno”; “L’orgasmo inganna la morte. / L’attimo di eternità / è già passato. / Tutte le assenze diventano vertigini”; “Vorrei essere tutto ciò che conta. / Ma sono un porto che accoglie fantasmi / e nutre chimere”; “Sotto i nostri occhi / le conseguenze dell’estasi, / la decostruzione del mito, / la corruzione del sogno. Ringraziamo gli dei / per averci risparmiato l’esilio”; “Mi specchio nei volti degli altri / senza trovare il mio posto. / Esisto negli istanti”. Il mondo di Olivia Balzar è popolato di spettri, ma anche i morti non sono sereni: sembrano cercare qualcosa che hanno perduto, si aggirano inquieti in un reale che, prima di escluderli, ha voltato loro le spalle: “Avete visto i fantasmi? / Si affollano lungo la costa, / si tengono per mano / e osservano il futuro / degli altri”; “Di notte a Via Margutta tornano i fantasmi”; “Non parlate coi morti, / mi dice una donna con la mano che trema / e gli occhi di chi ha visto l’eterno”. Addirittura “Dalle crepe sgorga il sangue dei genocidi”. Numerose figure, oltre l’io lirico, tentano di sopravvivere non solo alla morte, ma a una vita che è un continuo sfiorire, cercano di proiettarsi nell’eterno e in tal modo di esistere: “L’immortalità esiste, dice, / basta diventare luce per vivere l’eterno / nella memoria degli astri”; “Mi nascondo tra le pieghe del tempo / per sfuggire al mio riflesso / ma tu cercami, / trovami / e non perdermi”; “Negli occhi ha l’abisso e niente da perdere. / Seduta sui gradini, immagina l’eterno”; “Non so dire addio, / ma so ricucire i lembi del tempo. / Datemi l’eternità, / prometto che ne avrò cura”.
Le creature di questo universo sono spaesate, si amano come per sfuggire a qualcosa che li insegue e la fine del loro amore ha i caratteri di un disastro epocale, di un’apocalisse: “Ci si abitua a questo autunno tropicale, / a questo eterno ritorno, ma mai all’assenza. / Ogni mia morte porta il tuo nome / e lo grida”; “Non c’è pace per chi non ha potuto amare”.
Due poesie, in particolare, sembrano contenere i ritratti dei due impliciti protagonisti della storia:
Lui cerca l’amore nei volti delle donne,
ma trova carcasse di navi alla deriva,
la solitudine di corpi involucro,
occhi estranei,
tutto per la miseria di un incontro.
Lei guarda gli altri passargli attraverso,
ha smesso da secoli di farci caso.
Ha camminato così a lungo da fermare il tempo
e riempirsi lo sguardo di scorci.
E poi:
A volte quel che resta dell’amore
è solo abitudine a non perdersi,
paura di un futuro incerto.
I ricordi si dissipano in mille frammenti,
i desideri diventano fuga.
La solitudine è quel dono che molti scambiano
per condanna
cercando il futuro negli occhi di chiunque.
Resta chiara la misura dell’inganno.
Cos’è la fine del mondo? Anche questa domanda rimane inevasa: “Mi han detto di fare i conti con la fine del mondo. / Ricordo tutte le volte che ho parlato con Dio / e mi ha risposto il vento”; “Ho visto la fine del mondo, / era un’esplosione di mille colori, / così belli da caderci dentro”. Si esce dalla lettura spaesati come prima, interrogativi più di prima, viaggiatori di tutto e di tutto stranieri. Fra nomi di luoghi e di gruppi musicali, ritratti di figure semidefinite, Olivia Balzar si muove come una presenza sospesa, che non è dei morti e nemmeno dei vivi, che non è di qua e nemmeno di là, che non appartiene fino in fondo né al qui né all’altrove. Eppure c’è vitalità nei suoi lacerti, nelle sfuriate di notte e di sole, nella magia delle nebbie. E c’è coraggio nel sostare nella distruzione così come nel tentativo, mai deposto, di uscirne.
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Olivia “Cinammon” Balzar nasce in Brasile da genitori italiani il giorno di San Patrizio. È speaker radiofonica, attrice e performer. I suoi racconti si trovano in diverse antologie e siti web di settore. ll suo racconto Le cose buone fanno male ha ispirato l’omonimo spettacolo teatrale che la vede protagonista per la regia di Mariaelena Masetti Zannini. È l’organizzatrice del “Salotto Letterario di Olivia Balzar” al Lettere Caffè. Con Edizioni Ensemble ha pubblicato le raccolte poetiche Di ogni mio corpo e Là dove finisce il mondo.

