Iolanda La Carrubba, Raccolta indifferenziata, Ensemble, 2022
Postfazione di Sacha Piersanti – nota in quarta di copertina di Ilaria Palomba
***
nota di lettura Giorgio Galli
*
“Quando produrrò
un silenzio soprannaturale
di me diranno cose
fatte di geometrie
oblique-segrete e solitarie.
Quando tutto l’Io
che m’appartiene
diventerà elemento,
di me resterà sonno.
Quando sarò ferma
nel centro del cerchio,
di me faranno pianto
nel bosco d’autunno.
Faranno tanto altro di me
coriandoli, farina, pagine
vino e un pizzico di sale.
Quando sarò lontana
nel mondo dell’altrove,
di me diranno e faranno
orecchio da mercante,
vizio dissennato,
occhio curioso,
volto dimenticato
ma non sapranno
che sarò polvere
pulviscolo, miele
atomo di loro
che di me diranno.”
In tempi di specializzazioni, correnti, -ismi, camere separate e compartimenti stagni, alcune figure artistiche interpretano felicemente il vero spirito dell’epoca, il felice muoversi lungo un arco stilistico pieno, dove l’abbattimento delle convenzioni precedenti non comporta l’arroccarsi ognuno col proprio frammento di meteorite ma la possibilità e la gioia dell’ibrido. La poesia di Iolanda La Carrubba ha una doppia natura, lirica e sperimentale: se da decenni il mondo letterario discute della contrapposizione tra queste due categorie, l’autrice romana -che ha un curriculum multiforme, di organizzatrice d’eventi, regista e artista visiva oltre che di poetessa- abolisce questa distinzione e ne rivela tutta l’inessenzialità. Nel suo lavoro non troviamo lemmi preziosi e barocchi, ma incontriamo, con pari diritto di cittadinanza, registri diversissimi del linguaggio comune. A poesie dall’andamento limpido e solenne come quella riportata in apertura si affiancano poesie modulabili e variamente ricomponibili, componimenti scritti nella forma -e nel linguaggio- di appunti per una sceneggiatura, oppure poesie liriche che nel loro lirismo accolgono la lingua della tecnologia poetizzandola attraverso un’ironia malinconiosa, dagli echi palazzeschiani: “La mia memoria è scarsa / come commodore 64 o poco meno / s’accontenta di memorizzare: / formule, schemi metodi / dimenticando cosa doveva fare / in quella (di)-stanza. / Scarsa prova a ricordare / quanto sia accaduto / e a tutto quanto sia stato detto: / Perec, Rosselli, RoboCop, Milhouse. / Triste e passiva ascolta senza registrare / dimentica codici-segni-date confonde / giorni-storia-volti-esperienze”.
Questa ironia panneggia -senza nasconderlo- un senso di fatuità e sconfitta, un sentimento della vanità del tutto che non è abbandono della lotta ma superiore consapevolezza, il distacco di chi riconosce che la sconfitta non è motivo per non combattere, che la morte non è motivo per non vivere e che però, in definitiva, tutto, e in primo luogo noi stessi, finiremo in niente: “Nella mia casa / la luce della domenica mattina / si mescolava mite / con l’odore del caffè. / Sul tavolo rotondo / due maritozzi con la panna / poi / quando le briciole finivano, / tutto tornava esattamente / come fosse un altro lunedì”; “Accadde; quando la pioggia cadde / in ordine sparso, / solo odore di polvere / sulle ombre della realtà. / Tutto fu poi silenzio, / assuefatto alla continuità, / dormirono sagome-irregolari / in ordine sparso, / e tornò poi l’epoca del sonno”; “Il tempo ora lo fermerei qui, / in questo ascolto di silenzio / adesso, / allontanando malinconie / di viaggi mai fatti, / di addii mai dati, / di baci rubati, / e quelli ancora attesi. / Il cielo fuori / fa rumori ostili / o forse è il mio stomaco / o forse, il frigorifero”.
Sono le parole stesse dell’autrice a siglare in modo mirabile questa disincantata vitalità: “Arrestare l’assenza del silenzio, / sbadigliare a bocca piena di niente / e ridere della nevrosi collettiva / accettando di farne parte, pienamente”. Questi versi attirano l’attenzione su un dato importante. Si pone mente di rado a un fatto semplicissimo, che non si sceglie d’essere contemporanei: l’epoca in cui si vive è un fatto senza problemi solo per chi nasce già tarato sulla realtà così com’è: per chi non nasce tale -e il poeta non nasce mai tale- il difficile di essere contemporanei si pone in tutta la sua forza. Non si può non essere contemporanei, ma non si può ignorare che questo talvolta sia un dramma. La Carrubba stende anche su questa consapevolezza il sigillo -szymborskianamente abissale ma dai piedi leggeri- di una visionarietà senza illusioni.
Eppure, questa consapevole levità, questo che Nietzsche avrebbe chiamato “essere superficiali per profondità” conosce toni visionari, nasconde tra le pieghe del discorso afflati epici, immagini che tendono alla ricchezza del barocco, ancora una volta rivelando una coraggiosa verginità d’idee e di sentimenti, una libertà dagli schemi che gioiosamente sorprende e forse fuorvia il lettore più avvezzo a muoversi in terreni sicuri: “E se penso che allora, / tutto fu fatto di fumo / con segni di terra nel sangue, / con pioggia danzante d’agosto. / Se penso che questo fu altro / lontano da lacrime calde, / da ombre di gente perduta. / E se fosse il pensiero di allora / il Sole sarebbe di carne / volendo lasciare quel sale / nel mare ubriaco di Luna”.
Non mancano richiami sonori insospettabili, che puntano al Novecento più apparentemente lontano dalla sensibilità di Iolanda La Carrubba, quello della “linea sabiana”: “Sento storia e vento / nel suolo della mia casa, / oltre le fiabe e gli orchi, / al riposo da tempo e lotta. / Vedo la sincerità / di un sentiero rosa, / dalla veranda di casa mia / un cuore che riposa, / mentre l’altro va al galoppo. / Ecco io abito qui, / nella terra di miele e croci, / di fantasmi e d’ombre / tra sangue e roghi santi, / con il Padre in chiesa / e le colpe sempre in tasca. / Raccolgo sale e terra / nel giardino della mia casa, / e mangio lenta e sola / lotta, storia e vento” .
Così come la contrapposizione tra lirico e sperimentale viene privata -perché è di fatto priva- di oggettività, così l’autobiografismo ironico, la dimensione del “diario minimo” non esclude la dimensione opposta, quella civile e collettiva: in Raccolta indifferenziata troviamo una poesia dedicata alle donne afghane, ma anche il consueto canto del disincanto, applicato non alla storia piccola ma alla Storia: “Ieri al telegiornale, / hanno detto tutto / e non si sa più cosa pensare / se dare retta a chi c’era, / e l’ha saputa / fare la rivoluzione / o a chi era assente ingiustificato / e se l’è solo immaginata / durante la pubblicità”. In altre parole il contrasto tra “lirico” e “civile” viene superato attraverso un modo scaltro e problematico d’essere contemporanei, che individua nella storia civile contemporanea il nodo più grosso da sciogliere: il problema di separare il fatto dalla sua rappresentazione, la verità dalla post-verità, la news dalla fake news. La Carrubba individua nell’eccesso di rappresentazioni la causa della difficoltà di accedere ai fatti e in questa la causa del disincanto collettivo: una consapevolezza che non mette al riparo da errori, ma che è punto di partenza per problematizzarli. Al tempo stesso la problematicità non esclude l’ironia -dote rara nella poesia italiana contemporanea- come in questa deliziosa satira delle mode green che fa il verso a Neruda ma che in definitva è nerudiana nell’attenzione a sorpresa al sangue degli ultimi, di quelli che restano negli ingranaggi della grande macchina produttrice: “Oh pomodoro / pomodoro mio, / passionalmente rosso, / saporosamente intenso. / Oh pomodoro pieno, / al sapore di ferro / e vento e civiltà. / Oh pomodoro, / pomodoro Rio / grande, Ribelle, / Principe borghese. / Oh pomodoro, / pomodoro BIO, / intensivamente coltivato, / cresci divorando terre, / sterminando boschi, / indossando il sangue / di chi ti coltiva”.
I problemi descritti sono problemi del Duemila e la lingua è una lingua del Duemila: e in questo La Carrubba si affianca a quei rari ma coraggiosi autori che -come recentemente Ilaria Palomba in Purgatorio– trasportano la prosa d’arte nel vivo dell’epoca che viviamo senza che venga meno la potenziale eternità del fatto artistico. Strutturata non in sezioni dai titoli evocativi ma in giorni della settimana, la silloge di Iolanda La Carrubba si conclude significativamente con una lunga nota autobiografica, che spiazza il lettore ma che rivela un dato inequivocabile: che si tratta di un’opera fieramente diaristica, fieramente autobiografica, e che lo straniamento ironico deforma il dramma per renderlo più vivibile, ma anche per renderlo visibile, come dimostrano questi versi dedicati al calvario d’incomprensioni cui vanno incontro i pazienti fibromialgici -tra cui l’autrice stessa:
“Affetto da un non meglio identificato fatto,
il corpo ha fatto di tutto,
per comprendere da cosa fosse afflitto.
Affannato giunge dal dottore
ha la voce dolce e saccente ma giusto un pò:
«… è chiaro, vista la stimantologia,
astenia, dissociazione,
drolore cronico e cosí via
che lei sia affetto dalla Fibromialgia.
le coniglio il Balocco Bislacco,
che assunto ogni due ore
garantisce un effetto senza pari,
eccezionale!
Fruttafria, sono ftati rifrontati
effetti indesifrefrati;
sonnacchiolismo, dislessia,
e qualche raro caso di
Licantropia.»
Il corpo si sente:
sottosopra, frastornato, casuale, rarefatto,
un enigma irrisolto, consapevole però del fatto,
che non ha tempo da perdere a;
disperare, a pensare
a ciò che non ha avuto tempo di fare,
vuole-fare finta di star bene,
il suo diritto di malato impoverito,
uscire in pigiama e ululare alla Luna,
o a un semaforo rosso,
tanto fa lo stesso
e quando morirà, lo vorrà fare
felice, leggero, ridendo a crepacuore!”
*

Iolanda La Carrubba del ‘78 (giri) nata a Roma. Poeta, autrice, performer, videomaker ed organizzatrice di eventi culturali. Sue poesie sono pubblicate su siti e riviste letterarie. Ha vinto diversi premi tra i quali nel 2022 Antiga Pyrgos a cura di Antonella Rizzo con la collaborazione di Antonio Veneziani, seconda classificata con il componimento Smettere edita nella sua seconda silloge Raccolta Indifferenziata -Storia – Vento e lotta con postfazione di Sacha Piersanti e nota in quarta di copertina di Ilaria Palomba. Come regista ha realizzato diversi lungometraggi tra i quali Aspirante Alieno – incontro con Silvio Raffo distribuito da Minerva Pictures su varie piattaforme tra le quali Prime Video. Ha organizzato vari eventi culturali sinestetici presso enti pubblici e privati tra i quali Biblioteca Vallicelliana e l’Isola del Cinema di Roma. Cura il canale youtube EscaMontage qui tra le diverse playlist ha realizzato interviste tra cui a: Silvia Scola, Silvano Agosti, Aureliano Amadei e il Podcast #ciakpoesia dove invita i poeti a rispondere alla domanda “Cosa Significa Fare Poesia”.

Il profondo disincanto verso il mondo, la coscienza delle nostre radici nel nulla, sono espresse in queste poesie con una certa forza, come di un Leopardi ma più felice.
Dall’interno più riposto attraversando gli strati geologici del dolore personale e di quello cosmico sgorga il flusso di oggetti e di situazioni di questa “raccolta indifferenziata” che si riversano e inondano la superficie.
Intendo la “raccolta indifferenziata” non come un insieme di cose da buttare nella propria discarica personale, ma al contrario come una “collezione atematica” di illusioni da conservare (quelle del Leopardi) e che acquistano corpo nell’arte e nella quotidianità consentendo comunque di gustare la bellezza della vita.
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Iolanda La Carrubba non vincerà il premio Pulitzer come la Glück, ma il premio maloser non glielo toglie nessuno, ecco!
nella prima lirica si cade a precipizio (ine-vitabilmente) assieme al verso-tempo breve, mimando il realizzarsi d’una profezia. ed in effetti, una mia zia che era profe al liceo classico, così m’ammoniva: “nano, rifletti sulla dis/soluzione dell’io e sulla sua persistenza nel noi!”. sì sì, proprio così. e d’altro canto, quest’identità cui ostinatamente ci aggrappiamo, non è forse memoria (“di me diranno“) e materia (“coriandoli, farina, pagine / vino e un pizzico di sale“)? chi può costruire una propria identità se non ha memoria? vieppiù, chi può costruire una propria identità se la memoria stessa non può disporre d’un sistema nervoso autocosciente in grado di *memarla*?
in sostanza, quindi, memoria e materia son la stessa cosa, ovvero (in altristessi termini) sono un’identità.
: )
e chi non capisce l’ironia sofferta e sostiene che non sia questa l’unica soluzione, che tra memoria e materia esista comunque uno scarto, un gap, uno iato, uno spazio (come tra un verso e l’altro), ebbene, volente o nolente, trova comunque quella soluzione di continuo.
: )
che dire ancora? beh, che in dinamica antitesi con Pascal, è assai probabile che “tutta la felicità dell’essere umano” stia nel saper restare con gli altri nel mondo, ovvero nel *restare* inteso come “persistenza dell’esistere”. in tal senso, originale e unico (nonché pure *indivisibile* per etimo) mi è parso il verso “atomo di loro“, un verso verso l’altro che è pure un verso dentro l’altro, ergo un verso elevato alla terza potenza: davvero potentissimo per slancio. altro che sconfitta! qui si sbanca il casinò…
in proposito, nel commento precedente, Giancarlo accennava tra le righe alla dissoluzione e alla persistenza, tema che riecheggia poetiche leopardiane (mi sovviene il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia“). di più, mentre leggevo, mi è venuto in mente pure zio Ungaretti e mi son detto (non senza un moto di conforto): ecco ciò che ac/cade alle sue stanti foglie, giunto l’inverno!
in proposito, nella filosofia buddista, si afferma l’importanza che il corpo sia consapevole di aver bisogno di “affetto” e del fatto di essere “fatto” (nonché di restare tale anche quando è putre_fatto). procedendo per dati di fatto, la chiosa più che naturale di quanto sopra è che “tutti siam drogati di parole”, ma si tratta d’una “droga psicoattiva” dagli effetti *benefici-terapeutici*, tipo l’ayahuasca sudamericana, che se l’ho scritta giusta è una bevanda tradizionale utilizzata dalle culture indigene e dai guaritori popolari dei bacini amazzonici e dell’Orinoco per cerimonie spirituali, divinazioni e per la cura di vari disturbi psicosomatici (nonché della fibromialgia), mentre se l’ho scritta sbagliata non esiste. e questo è quanto.
ah, un’altra considerazione che m’è sorta mentre rileggevo: trovo abbastanza giusto che finché abitiamo in un corpo, ci tocchi pagare l’afflitto (questa me la segno: è bellina e Marcello Marchesi non ha fatto in tempo a pensarla prima di donarmi qualche suo atomo scritto).
: )
ok, ho delirato abbastanza. un grazie e un abbraccio fraterno alla carrubborante poesia di Iolanda La Carrubba, che m’ha scaldato cuore e motori, spingendomi a guidare i miei spensieri fino “alla Luna” (“o a un semaforo rosso“)… che in fondo cambia poco: è tutto un gioco di prospettive e di luci.
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