Yassine Guerouahi — mani di ferro, cuore migrante, gettato tra i monti e i calcestruzzi a reggere un mondo che pesa e ignora. Si assopiscono i fiori della morte nel ventre dei cantieri dimenticati, dove il giorno ha l’odore delle lamiere e il cielo è un soffitto di gru sfinite. Un mare di mondo avvampa sull’abisso, crolla in volute d’aria e detriti. Sotto i piedi — la terra si dissolve come favola infranta, come giuramento non mantenuto. È lì che il re della fiaba invecchia, tra polvere e comandi sussurrati, con la corona spezzata dall’inerzia e la pelle bruciata nella terra proibita del salario. La luce — inginocchiata — attraversa le travi come lame d’altare. Scivola la vita, spogliata, come acqua da un corpo che si allontana. E tutto tace, ma tace troppo. Il silenzio è un velo teso tra il sangue e l’archivio. Chi firma, non guarda. Chi resta, trattiene il respiro nei denti. Ma chi muore — non scompare del tutto. Si solleva nell’aria rotta, trafitto d’oro e ruggine, come un angelo operaio sceso tra le impalcature del cielo. Nel punto esatto in cui l’aria si lacera, sboccia un fiore: di metallo, mirra e memoria. I suoi petali sono lamiere in preghiera, le sue radici affondano nelle assenze che ci obbligano a guardare. Yassine non cade. Resta. Nel vuoto che parla, nelle mani che domani non stringeranno più niente.
A Roberto Vitale (operaio morto in Lombardia)
Non si sa di che morte si può morire, la corda di risalita affonda e l’inferno ha porte d’acciaio, chiuse senza colpa, aperte per abitudine vicino alla morte dove si diventa pesanti, senza una mano, senza un urlo, che tenga e arresti l’infortunio. Forse si entra nella morte come chi perde le lenti: tutto è vago, la luce si stringe, mentre la vita si ritira, come mare che sa di non tornare più. Più in là della morte, c’è la morte. Più in qua della vita, c’era ciò che si poteva: un abbraccio, una paga giusta, una strada più sicura. Ma il mondo mente. C’è una bugia strutturale nascosta dentro un capannone, una fragola che esplode confondendo l’urlo con l’allarme guasto. E allora la colpa è dell’incidente, non di chi ha tolto tempo al riposo, non di chi costringe un uomo in pensione a lavorare ancora, con mani stanche, nel ventre dell’inferno. Il denaro — parola maledetta — ci rende cavalli zoppi che ancora devono correre, mentre l’anima inciampa e il corpo cede. Addio, Roberto! Nessuno ti ha salutato stamattina sapendo che sarebbe stato l’ultimo saluto. Addio Roberto, ancora ti sento, pensi alla tua madre, la chiami in un urlo che si frammenta, quasi alla fine puoi intravederla. Chissà perché in molti quando stanno per morire chiamano la propria madre “mamma, mamma” l’urlo è crocifissione della parola che nel cielo trema, disegna labbra. Ora ti scriviamo, questa lettera aperta con rabbia e vergogna, sulla tua morte bianca si depone la nostra indifferenza nera. Ammettiamolo! Dai, ammettiamolo! L’inferno dei poveri costruisce il paradiso dei ricchi che non smettono mai di “ammobiliarlo” con quadri e cornici d’ossa.
Fatalità Dedicata a Francesco D’Alò
Incrociamo le braccia per chi ha trovato la morte in un cantiere. Diciamo basta davanti a quel che chiamano fatalità estesa in cronaca che è Dracula con falda che risucchia dalle tragedie contenuto di dolore immeritato. Diciamo basta a quell’omicidio con il volto di un suicidio che arriva quando poco si è imparato del lavoro di vivere che non rinuncia alla fatalità di difendere l’umanità priva di sogni che scuotono l’uomo e la sua stessa inerzia. Stringiamo le braccia alla morte come segnale che lasci vivo quello che promette con slogan quando si augura un buon primo di maggio. Per gli operai che hanno chiesto alla morte “non uccidermi” quando si sta sentendo il cadere della vita in qualche distrazione.
Caduta (Dedicata a Francesco Stella)
Dammi una mano che sto cadendo non è la impalcatura a crollare, crollano i passi sulla vita in caduta libera questa volta non cadono per morire di stanchezza ma volano chiedendo un desiderio di baciare il fondo del tempo dove vanno perdendo il bacio invisibile della rosa i fiumi metafisici dei ricordi, da dove salutano nuotando nell’aria rondini che guardano allucinate nel vedere volare un uomo. Corrono fiumi di nulla la paura prende il colore degli occhi, la morte arriva con le sue povere bestie facendo vedere quelli che vivono da loro lavorando per loro morendo tutti i giorni dando nome al denaro che può essere una buona tomba.
Travolto (Dedicata a Umberto Rosito, travolto da un auto a Orvieto)
Si ha tempo per tante cose ma non sempre per dire addio e senza dire addio diviene verità l’allucinazione di andare a lavorare per morire, senza avere avuto tempo di cambiare, di lasciare andare, di mandare tutto a quel paese per ricominciare. E chissà nel momento di tirare fuori un respiro per quella morte, l’anima senza mezze impronte ci saluta con gli occhi aperti senza pari ci lascia congelare e scompare. Se ne va dal lavoro ingiusto, dalla speranza fallita dalla pena non meritata di vivere nell’uomo cittadino che si alimenta dal potere che ingrassa in lui il cancro. L’anima andandosene trova il segnale perché gli altri la ascoltino, che la comprendano nel suo precedente eterno che ha abbandonato nel giorno dopo giorno in punta di piedi. Se ne va dal corpo socialmente rotto tra un eco di addii travolto da un autocarro.
Dedicata a Jilali Sejdi
Nel cantiere del mondo dove il tempo si disfa a colpi di martello, un uomo è caduto. Non dall’altezza di un tetto, ma dal sogno stesso di essere ancora chiamato “vivo”. Là, nei luoghi sospesi dove le travi tremano come verità scomode, la realtà è una vecchia, con occhi scavati come tombe, che spia dietro la fronte di costruzioni fantasmatiche, maschere vuote, gusci pieni solo di rumori cerebrali, eco sorde di comandi e dimenticanze. Il suo corpo, composto da secoli di migrazione e sudore, è scivolato nel buco nero tra la promessa e l'abbandono. Il suo cervello ha chiazzato la soglia dell’uscio, come un pensiero che non ha più forza di bussare al domani. E la morte, antica voce moribonda, è scesa a lui con la dolcezza feroce di chi sa che in questo mondo si può morire lavorando senza che il mondo se ne accorga. Grida cristalline, ritornano alla “previta”, quel tempo prima della carne, prima della legge, dove il destino si scrive con inchiostro di sangue sul vento. Le grida salgono in alto, dove il gemito spento si spezza contro l’invisibile, e l’essere — quasi morto — chiede solo di essere visto, prima che diventi numero, nota a piè di pagina, archivio chiuso. Nel cantiere, rimangono le braccia rugginose, i ferri storti che ancora sanno il suo nome. Lì, nel cemento fresco, giace la forma del suo passaggio: non una croce, ma un’impronta d’uomo che la civiltà ha scelto di ignorare.
Per Jilali Sejdi
Nel cielo senza rete, dove il silenzio si fa carne, è caduto Jilali, uomo di sabbia e di mare, guerriero rude per carnefici illustri, fornitori di inferno. Un soffio di vento, un passo troppo incerto, e il cielo si è spalancato come una ferita firmata con la clausola: “ricada il sangue su di noi e sui nostri figli”. Lì, tra i tetti, dove la polvere bacia l'asfalto e il tempo, stanco, cammina in cerchi, è caduto come una stella spenta, senza casco, senza ali, solo il suo corpo che lottava contro la legge dell'altezza. Tre metri di vuoto che gridano senza voce, tre metri di cemento che inghiottono la vita, mentre il suo nome sospeso tra le mani che lo chiamano e il cielo che non risponde guarda il boia di guanti bianchi che uccide senza toccare la pelle. Otto giorni di agonia, un respiro che scivola tra le ombre della terapia intensiva, una lotta silenziosa con un destino che non ha pietà e mostra la tragedia. Il suo sangue non ha più forza per tornare indietro ma copre la preghiera e i pianti. Nella polvere dei giorni, un nome parla di mari lontani, di mani forti che spaccano le pietre, di sogni che non hanno avuto luogo per voltarsi . Un dolore giunge fino a un’altra terra dove il vento sussurra che i suoi giorni erano già scritti, tra la sabbia e le stelle. Ora, il cantiere è silenzioso, ma il suo volto resta impresso, come un’ombra che non si è mai allontanata. Non è caduto solo lui, è caduto il ricordo di tutti gli invisibili, di chi costruisce per vivere, senza protezione, senza speranza. E l’Italia, quella che festeggia i diritti, non ha visto il suo ultimo respiro nella corsa per un futuro più giusto, mentre la sua morte si trasforma in accusa alle leggi che non proteggevano chi, ogni giorno, cammina sui fili di una vita che non ha scelte. Jilali Sejdi, ora il vento ti porta lontano, ma il tuo nome sarà un canto per chi lotta, per chi cade senza mai smettere di alzarsi dai registri eterni dei nostri mali.
Una risposta a "Morti bianche, poesie. Yuleisy Cruz Lezcano"
Bellissime poesie e profondità e nobiltà di intenti…la causa delle morti bianche è sicuramente nobile e indice di generosità di animo… continua così, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo importante tema!!
Bellissime poesie e profondità e nobiltà di intenti…la causa delle morti bianche è sicuramente nobile e indice di generosità di animo… continua così, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo importante tema!!
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