Morti bianche, poesie. Yuleisy Cruz Lezcano

Per Yassine Guerouahi
(Valle Castellana, operaio)

Yassine Guerouahi —
mani di ferro, cuore migrante,
gettato tra i monti e i calcestruzzi
a reggere un mondo che pesa e ignora.
Si assopiscono i fiori della morte
nel ventre dei cantieri dimenticati,
dove il giorno ha l’odore delle lamiere
e il cielo è un soffitto di gru sfinite.
Un mare di mondo avvampa sull’abisso,
crolla in volute d’aria e detriti.
Sotto i piedi — la terra si dissolve
come favola infranta,
come giuramento non mantenuto.
È lì che il re della fiaba invecchia,
tra polvere e comandi sussurrati,
con la corona spezzata dall’inerzia
e la pelle bruciata
nella terra proibita del salario.
La luce — inginocchiata — attraversa
le travi come lame d’altare.
Scivola la vita, spogliata,
come acqua da un corpo che si allontana.
E tutto tace,
ma tace troppo.
Il silenzio è un velo teso
tra il sangue e l’archivio.
Chi firma, non guarda.
Chi resta, trattiene
il respiro nei denti.
Ma chi muore —
non scompare del tutto.
Si solleva nell’aria rotta,
trafitto d’oro e ruggine,
come un angelo operaio
sceso tra le impalcature del cielo.
Nel punto esatto in cui l’aria si lacera,
sboccia un fiore:
di metallo, mirra e memoria.
I suoi petali sono lamiere in preghiera,
le sue radici affondano
nelle assenze che ci obbligano a guardare.
Yassine non cade.
Resta.
Nel vuoto che parla,
nelle mani che domani
non stringeranno più niente.


A Roberto Vitale
(operaio morto in Lombardia)

Non si sa di che morte
si può morire,
la corda di risalita affonda
e l’inferno ha porte d’acciaio,
chiuse senza colpa, aperte
per abitudine vicino alla morte
dove si diventa pesanti,
senza una mano, senza un urlo,
che tenga e arresti l’infortunio.
Forse si entra nella morte
come chi perde le lenti:
tutto è vago, la luce si stringe,
mentre la vita si ritira,
come mare che sa
di non tornare più.
Più in là della morte,
c’è la morte.
Più in qua della vita,
c’era ciò che si poteva:
un abbraccio,
una paga giusta,
una strada più sicura.
Ma il mondo mente.
C’è una bugia strutturale
nascosta dentro un capannone,
una fragola che esplode
confondendo l’urlo
con l’allarme guasto.
E allora la colpa
è dell’incidente,
non di chi ha tolto
tempo al riposo,
non di chi costringe
un uomo in pensione
a lavorare ancora,
con mani stanche,
nel ventre dell’inferno.
Il denaro —
parola maledetta —
ci rende cavalli zoppi
che ancora devono correre,
mentre l’anima inciampa
e il corpo cede.
Addio, Roberto!
Nessuno ti ha salutato stamattina
sapendo che sarebbe stato l’ultimo
saluto. Addio Roberto, ancora
ti sento, pensi alla tua madre,
la chiami in un urlo
che si frammenta,
quasi alla fine puoi intravederla.
Chissà perché in molti
quando stanno per morire
chiamano la propria madre
“mamma, mamma”
l’urlo è crocifissione
della parola che nel cielo trema,
disegna labbra.
Ora ti scriviamo,
questa lettera aperta
con rabbia e vergogna,
sulla tua morte bianca si depone
la nostra indifferenza nera.
Ammettiamolo! Dai, ammettiamolo! L’inferno dei poveri
costruisce il paradiso dei ricchi
che non smettono mai di “ammobiliarlo”
con quadri e cornici d’ossa.


Fatalità
Dedicata a Francesco D’Alò

Incrociamo le braccia
per chi ha trovato
la morte in un cantiere.
Diciamo basta
davanti a quel che chiamano
fatalità estesa in cronaca
che è Dracula con falda
che risucchia dalle tragedie
contenuto di dolore immeritato.
Diciamo basta a quell’omicidio
con il volto di un suicidio
che arriva quando poco si è imparato
del lavoro di vivere che non rinuncia
alla fatalità di difendere l’umanità
priva di sogni che scuotono
l’uomo e la sua stessa inerzia.
Stringiamo le braccia alla morte
come segnale che lasci vivo
quello che promette con slogan
quando si augura un buon primo di maggio.
Per gli operai che hanno chiesto
alla morte “non uccidermi”
quando si sta sentendo
il cadere della vita
in qualche distrazione.


Caduta
(Dedicata a Francesco Stella)

Dammi una mano che sto cadendo
non è la impalcatura a crollare,
crollano i passi sulla vita
in caduta libera
questa volta non cadono
per morire di stanchezza
ma volano chiedendo un desiderio
di baciare il fondo del tempo
dove vanno perdendo
il bacio invisibile della rosa
i fiumi metafisici dei ricordi,
da dove salutano nuotando nell’aria rondini che guardano allucinate
nel vedere volare un uomo.
Corrono fiumi di nulla
la paura prende il colore degli occhi,
la morte arriva con le sue povere bestie
facendo vedere quelli che vivono
da loro lavorando per loro
morendo tutti i giorni
dando nome al denaro
che può essere una buona tomba.



Travolto
(Dedicata a Umberto Rosito, travolto da un auto a Orvieto)

Si ha tempo per tante cose
ma non sempre per dire addio
e senza dire addio
diviene verità l’allucinazione
di andare a lavorare per morire,
senza avere avuto tempo di cambiare,
di lasciare andare, di mandare
tutto a quel paese
per ricominciare. E chissà
nel momento di tirare fuori un respiro
per quella morte, l’anima
senza mezze impronte ci saluta
con gli occhi aperti senza pari
ci lascia congelare e scompare.
Se ne va dal lavoro ingiusto,
dalla speranza fallita
dalla pena non meritata
di vivere nell’uomo cittadino
che si alimenta dal potere
che ingrassa in lui il cancro.
L’anima andandosene
trova il segnale perché gli altri
la ascoltino, che la comprendano
nel suo precedente eterno che ha abbandonato
nel giorno dopo giorno
in punta di piedi.
Se ne va dal corpo
socialmente rotto
tra un eco di addii
travolto da un autocarro.


Dedicata a Jilali Sejdi

Nel cantiere del mondo
dove il tempo si disfa
a colpi di martello,
un uomo è caduto.
Non dall’altezza di un tetto,
ma dal sogno stesso
di essere ancora chiamato “vivo”.
Là, nei luoghi sospesi
dove le travi tremano
come verità scomode,
la realtà è una vecchia,
con occhi scavati come tombe,
che spia dietro la fronte
di costruzioni fantasmatiche,
maschere vuote,
gusci pieni solo di rumori cerebrali,
eco sorde di comandi e dimenticanze.
Il suo corpo, composto
da secoli di migrazione e sudore,
è scivolato nel buco nero
tra la promessa e l'abbandono.
Il suo cervello ha chiazzato
la soglia dell’uscio,
come un pensiero
che non ha più forza
di bussare al domani.
E la morte,
antica voce moribonda,
è scesa a lui
con la dolcezza feroce di chi sa
che in questo mondo
si può morire lavorando
senza che il mondo se ne accorga.
Grida cristalline,
ritornano alla “previta”,
quel tempo prima della carne,
prima della legge,
dove il destino si scrive
con inchiostro di sangue sul vento.
Le grida salgono in alto,
dove il gemito spento
si spezza contro l’invisibile,
e l’essere — quasi morto —
chiede solo di essere visto,
prima che diventi numero,
nota a piè di pagina,
archivio chiuso.
Nel cantiere,
rimangono le braccia rugginose,
i ferri storti che ancora sanno
il suo nome.
Lì, nel cemento fresco,
giace la forma del suo passaggio:
non una croce,
ma un’impronta d’uomo
che la civiltà ha scelto
di ignorare.


Per Jilali Sejdi

Nel cielo senza rete,
dove il silenzio si fa carne,
è caduto Jilali, uomo
di sabbia e di mare,
guerriero rude
per carnefici illustri,
fornitori di inferno.
Un soffio di vento,
un passo troppo incerto,
e il cielo si è spalancato
come una ferita
firmata con la clausola:
“ricada il sangue su di noi
e sui nostri figli”.
Lì, tra i tetti,
dove la polvere bacia l'asfalto
e il tempo, stanco, cammina in cerchi,
è caduto come una stella spenta,
senza casco, senza ali,
solo il suo corpo che lottava
contro la legge dell'altezza.
Tre metri di vuoto
che gridano senza voce,
tre metri di cemento
che inghiottono la vita,
mentre il suo nome sospeso
tra le mani che lo chiamano
e il cielo che non risponde
guarda il boia di guanti bianchi
che uccide senza toccare la pelle.
Otto giorni di agonia,
un respiro che scivola tra le ombre
della terapia intensiva,
una lotta silenziosa con un destino
che non ha pietà
e mostra la tragedia.
Il suo sangue non ha più forza
per tornare indietro
ma copre la preghiera e i pianti.
Nella polvere dei giorni,
un nome parla di mari lontani,
di mani forti che spaccano le pietre,
di sogni che non hanno avuto
luogo per voltarsi .
Un dolore giunge
fino a un’altra terra
dove il vento sussurra
che i suoi giorni erano già scritti,
tra la sabbia e le stelle.
Ora, il cantiere è silenzioso,
ma il suo volto resta impresso,
come un’ombra che non si è mai allontanata.
Non è caduto solo lui,
è caduto il ricordo di tutti gli invisibili,
di chi costruisce per vivere,
senza protezione,
senza speranza.
E l’Italia, quella che festeggia i diritti,
non ha visto il suo ultimo respiro
nella corsa per un futuro più giusto,
mentre la sua morte si trasforma in accusa
alle leggi che non proteggevano
chi, ogni giorno, cammina sui fili
di una vita che non ha scelte.
Jilali Sejdi,
ora il vento ti porta lontano,
ma il tuo nome sarà un canto
per chi lotta,
per chi cade senza mai smettere
di alzarsi dai registri eterni
dei nostri mali.

Yuleisy Cruz Lezcano



Una risposta a "Morti bianche, poesie. Yuleisy Cruz Lezcano"

  1. Bellissime poesie e profondità e nobiltà di intenti…la causa delle morti bianche è sicuramente nobile e indice di generosità di animo… continua così, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo importante tema!!

    "Mi piace"

Lascia un commento