José Ortega y Gasset, l’ermeneutica dell’esperienza contro la chiusura algoritmica (Yuleisy Cruz Lezcano)

José Ortega y Gasset

José Ortega y Gasset, l’ermeneutica dell’esperienza contro la chiusura algoritmica

di Yuleisy Cruz Lezcano

Nel passaggio dall’antropologia della visione alla logica delle macchine, si consuma un’esclusione silenziosa ma radicale: quella dell’esperienza umana come forma complessa e stratificata di comprensione del mondo. La funzione ermeneutica dell’apparato oculare umano, intesa non solo come capacità di vedere, ma di leggere, interpretare, immergersi, entra oggi in crisi davanti alla crescene egemonia del linguaggio macchina. Dove l’occhio umano traduce il visibile in vissuto, l’intelligenza artificiale isola, codifica, riduce. Dove noi vediamo per abitare, l’algoritmo restituisce immagini ma non presenza.

Il linguaggio della macchina non conosce l’“atmosfera”, quella densità ambigua e viva che avvolge luoghi e corpi nella grande letteratura. La certezza visibile dei luoghi, nella narrazione umana, non è mai un dato neutro: è sempre una condizione esistenziale. Non si tratta solo di descrivere uno spazio, ma di renderlo esperienza, orizzonte circoscritto e tuttavia profondamente evocativo, capace di contenere lo slancio dell’essere. Nei romanzi, nei racconti, negli affreschi letterari della modernità, la topografia è psicologica, affettiva, atmosferica. Ogni paesaggio è un’anima mascherata. Con l’intelligenza artificiale, invece, l’obbligazione a “impaesarsi nel già esistente” diventa regola operativa. Non si crea un mondo: si ripete, si ricombina, si simula. Il rischio è quello che José Ortega y Gasset aveva già individuato nel suo pensiero: la tecnica che si impone come finalità, e non più come mezzo. La letteratura generata, o assistita, dall’intelligenza artificiale soffre di una mancanza radicale di “attrezzatura del mondo”: manca il circo viaggiante dell’immaginazione, manca la macchina magica della psicologia immaginaria. Quella che non è né psicologia scientifica né intuizione quotidiana, ma qualcosa di più profondo: un’arte espressiva della complessità interna.

Oggi, questa psicologia immaginaria è assente, rimpiazzata da sintesi superficiali, da automatismi emotivi, da personaggi che sembrano reagire piuttosto che vivere. Si fa l’autopsia dello psicologico, ma senza mai raggiungere il puro vivere. Il puro essere dei personaggi, quel loro esistere come enigmi, come presenze che sfuggono al controllo narrativo, viene spianato da una funzione imitativa, che tutto capisce e nulla rivela. Si simula la profondità, ma si resta in superficie. Il lettore, così, viene a trovarsi rinchiuso in un recinto ermetico, dove tutto sembra significare ma niente realmente accade. Non ci sono fessure, né spiragli. L’orizzonte è fisso, correlato sempre e solo a un interesse funzionale: che sia vendere, generare engagement, rispecchiare un’identità o rafforzare un valore di mercato. La letteratura, invece, aveva come sua vocazione l’opposto: aprire, forzare, disorientare.

Ortega y Gasset scriveva che “l’uomo è un essere che non ha natura, ma storia”. E la letteratura, nella sua essenza più alta, ha sempre raccontato proprio questa mancanza: l’incompletezza dell’umano. Oggi, l’illusione della completezza tecnica, del contenuto perfetto, del personaggio coerente, della trama lineare, è un pericolo culturale. Toglie all’arte la sua funzione critica e alla narrazione la sua capacità di spiazzare.

La macchina scrive, ma non abita. Non ha bisogno di “impaesarsi”. Non soffre, non desidera, non sogna. Il lettore, invece, ha ancora, e forse più che mai, bisogno di entrare in mondi inabitabili, in atmosfere che non siano meri dati. Ha bisogno di sentire che il testo non è una replica, ma una soglia. Un luogo in cui lo sguardo, umano e fallibile, possa ancora essere strumento di verità, di disvelamento, di trasformazione.

In un’epoca in cui l’immaginario rischia di diventare puro dato iconografico, è urgente difendere l’ermeneutica dell’occhio, e con essa la possibilità stessa di un mondo. Non quello già dato, ma quello che ancora attende di essere visto e scritto. Nel cuore della riflessione di José Ortega y Gasset, l’enunciazione del principio “Io sono io e la mia circostanza” non è un mero aforisma esistenziale, ma un atto di fondazione ontologica. L’essere umano non è mai un nucleo isolato, una monade impermeabile: è sempre situato, immerso, correlato. È un io che esiste solo in relazione al mondo che lo circonda, ai luoghi, ai tempi, agli incontri, agli accadimenti. L’umano, dunque, non è sostanza pura ma trama di rapporti.

Questo principio ha una ricaduta radicale sulla concezione della realtà e, per estensione, sulla narrazione. La realtà, infatti, non si dà in forma assoluta, ma attraverso prospettive individuali, irriducibili e coesistenti. Ogni essere umano è un punto di vista unico, eppure incompleto, che si somma ad altri punti di vista in un sistema complesso, molteplice, in continua trasformazione. La verità non è più un luogo stabile, ma una tensione tra differenze. Ciò che conta è il movimento tra gli sguardi, la dinamica tra le esperienze. La letteratura, in questo quadro, è forse il campo più fertile per accogliere e restituire questa visione: essa diventa l’arte di mettere in scena circostanze, di moltiplicare i punti di vista, di dare voce all’invisibile, al marginale, all’ambiguo. L’autore non è un dio onnisciente, ma un architetto di sguardi, un costruttore di relazioni fra mondi interiori. La narrazione non è la trascrizione di un ordine già dato, ma l’esplorazione del divenire umano.

In questo senso, la scrittura generata dall’intelligenza artificiale appare profondamente carente. Essa manca del principio “orteguiano” perché non ha circostanza: non ha tempo, corpo, luogo, bisogno, urgenza. L’algoritmo simula prospettive, ma non ne possiede alcuna. Ogni punto di vista che produce è, in fondo, disabitato. Non esiste un io e nemmeno una sua circostanza: solo pattern, combinazioni, reiterazioni. È qui che torna con forza la lezione di Goethe, quando definiva l’umano come una sintesi mobile di contraddizioni e possibilità, un essere che si forma e si deforma attraverso ciò che incontra. Goethe, come Ortega, intuiva che l’umano non è dato ma costruito, e che questa costruzione è sempre relazionale, intersoggettiva, mai definitiva. La narrazione, allora, è la forma privilegiata per inseguire l’umano in movimento, nella sua fragile verità incarnata.

Scrivere e leggere, non significa dunque solo generare o fruire contenuti, ma abitare un paesaggio esistenziale in cui l’altro ci interroga, ci modifica, ci completa. L’intelligenza artificiale, se non guidata da questa consapevolezza ermeneutica, rischia di trasformare la letteratura in un gioco di specchi ciechi, in cui nessun volto si riflette veramente.

Solo una scrittura che accoglie la circostanza, la propria e quella degli altri, può ancora parlare al nostro tempo, salvando l’umano dalla sua riduzione a funzione. In un’epoca di automatismi, la voce narrante deve tornare ad essere coscienza incarnata, sguardo situato, presenza fragile ma reale. È qui, tra l’io e la sua circostanza, che si gioca ancora la possibilità di una letteratura viva.


Una risposta a "José Ortega y Gasset, l’ermeneutica dell’esperienza contro la chiusura algoritmica (Yuleisy Cruz Lezcano)"

  1. altro stimolante articolo di Yuleisy Cruz Lezcano.

    l’esperienza umana la definirei più come “forma complessa e stratificata di interazione sensoriale con il mondo” (vs “di comprensione del mondo”). premetto questo perché spesso tendiamo a sopravvalutare l’occhio e la visione e a sottovalutare, ad esempio, il tatto e l’olfatto, cosa di cui ho già scritto in passato proprio qui su Neobar.

    pertanto, la *visuale* del mondo che emerge da un’autocrazia visiva è già riduttiva *ab initio*, ancor prima che la macchina AI ne appiattisca in algoritmo i contenuti.

    l’ermeneutica dell’occhio” che Yuleisy Cruz Lezcano intende difendere, è già un mondo estesamente mutilato, se è vero (com’è vero), che sono altri sensi a determinare la primigenia forma di legame interumano, quella tra il neonato e il corpo della madre. vieppiù numerosi studi scientifici hanno dimostrato che tatto, olfatto e risposte viscerali sono cruciali per lo sviluppo del cervello e delle reazioni emotive (il contatto fisico stimola l’ossitocina, l’olfatto è strettamente interconnesso con memoria, logica ed emozioni mediante il sistema limbico, l’interocezione viscerale dà letteralmente corpo all’emotività contribuendo allo sviluppo neuro-emotivo…). non bastasse, è stato ampiamente dimostrato che il tatto è in grado di comunicare correttamente emozioni complesse tipo rabbia, paura, amore, disgusto, gratitudine e simpatia (Hertenstein et al., Emotion, 2006).

    infatti, come scrive giustamente più oltre l’autrice del post “l’umano, dunque, non è sostanza pura ma trama di rapporti”, di prospettive inter-soggettive che *per fortuna* non sono solo piattamente visive, ma anche “gonfie” di sensorialità tattile, olfattiva, viscerale, gustativa, uditive e cenestesica.

    prima di passare al nucleo polposo della questione, mi attardo ancora un attimo per una breve (ma significante) riflessione circa l’utilizzo in questo post della parola “comprensione”, (al)chimerica entità che lascerebbe presupporre l’esistenza di qualcosa di sensato (oltre ai 5 sensi) che noi si possa comprendere. ordunque, in tal senso, ben prima del biascicante filosofo di Zocca (che cantava lapidario “un senso non ce l’ha”), molti cervelli di più chiara (et preclara) intelligenza sia in epoche antiche (Epicuro e poi Lucrezio) che recenti (papà Schopenhauer, Cioran, Camus, Sartre etc) hanno vivisezionato “il tutto” mettendo a nudo il nulla. basti citare lo spietato aforismo del suddetto Camus “l‘uomo è condannato a cercare un senso in un mondo assurdo che non gliene offre”, o anche andarsi a rileggere il “Dialogo della Natura e di un islandese” (come non mi stancherò mai di dire, le “Operette Morali” sono uno dei capolavori più misconosciuti della letteratura italiana).

    ma torniamo  al pericolo e alle lusinghe di una “tecnica che si impone come finalità, e non più come mezzo” in buona sintonia con il giusto ammonimento  di José Ortega y Gasset. tale caveat, assume sfumature e perigliosità peculiari quando la tecnica finisce per essere incarnata da strumenti così *potenti* (versatili, irretenti, assuefattivi) da forgiare con il loro uso la mano (e il cervello) dell’utilizzatore. una tecnica *stupefacente* in grado di causare tossicodipendenza e, in parallelo, danni neurologici, che il pur lungimirante Ortega y Gasset, per ovvie ragioni anagrafiche non poteva ancora toccare con mano.

    non si tratta dunque solo della mancanza negli algoritmi dell’AI di “qualcosa di più profondo: un’arte espressiva della complessità interna”, ma anche del fatto che l’utilizzo continuativo dell’AI è in grado di danneggiare la complessa arte espressiva interna tipica del cervello umano.

    fatto a mio avviso *terrificante*.

    In pratica l’ermeneutica viene disinnescata, resa impotente (con buona pace di Heidegger), e  trasformata in INERMEneutica: si ottiene così l’antitesi di un metodo del comprendere, ovvero la strutturazione dell’impossibilità di comprendere, la *scomprensione* come prassi del pensiero (neologismo inquietante che rende l’idea molto meglio di “frantendimento” o “incomprensione”)

    in sostanza, ecco concretizzarsi il sogno bagnato di qualunque regime dittatoriale, nonché gli incubi distopici di Zamjatin, Bradbury, Huxely, Orwell e via andare, che diventano realtà *ulteriore*.

    dite che esagero? non mi credete?

    ovvio, perché ormai viviamo in un “recinto ermetico, dove tutto sembra significare ma niente realmente accade”, e infatti, come scrisse nonno Fedor (che indubbiamente la sapeva lunga), “il modo migliore per impedire a un prigioniero di scappare è assicurarsi che non abbia mai coscienza di essere in prigione”.

    fornisco dunque idonea documentazione scientifica (sviluppando quanto già accennato in sede di un mio precedente post qui su Neobar dal titolo: “sveglia Poeti e poeti! siamo AI titoli di coda…”). lo studio scientifico di Kosmyna e colleghi che andremo qui di seguito ad analizzare potete leggerlo qui in versione pre-print https://arxiv.org/pdf/2506.08872v1

    nello studio, in breve, gli autori hanno verificato sperimentalmente se ChatGPT potesse danneggiare le capacità di pensiero critico/analitico su un campione di 54 soggetti americani (tra 18 e 39 anni, area di Boston, Massachusetts). il campione  è stato suddiviso in tre gruppi e a ogni gruppo è stato chiesto  per alcuni mesi di scrivere una serie di saggi. il primo gruppo, durante la scrittura del saggio, doveva usare ChatGPT (gruppo dei “modelli linguistici LLM”), il secondo gruppo durante la scrittura doveva usare un motore di ricerca (ma non l’AI, quindi solo strumenti di ricerca classici), il terzo gruppo non poteva usare né l’uno né l’altro (gruppo del “solo cervello”). mediante l’elettroencefalogramma, i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale nei diversi gruppi: risultato… dei tre gruppi, quelli che usavano ChatGPT mostravano una minore attivazione cerebrale e nel corso dei mesi dello studio si è osservato un costante peggioramento dei risultati a livello neurale, linguistico e comportamentale. in sostanza, mese dopo mese, il cervello del gruppo che usava ChatGPT diventava “più pigro” con una memorizzazione difettosa e un importante danno per l’apprendimento già dopo solo 4 mesi di utilizzo (fatto più evidente tra i più giovani). per contro, il gruppo “solo cervello” mostrava la più alta connettività neurale nelle bande alfa, theta e delta (associate alla creatività, all’ideazione, alla curiosità, alla conservazione della memoria e all’elaborazione semantica). non bastasse, il team di Kosmyna e colleghi sta completando anche uno studio similare su un campione di ingegneri informatici addetti alla programmazione, dividendoli in due gruppi (uno che utilizza l’AI e uno che non la utilizza): i risultati sono ancora più preoccupanti di quelli dello studio appena pubblicato…

    che conclusioni dobbiamo trarne in una società fast-umana 3.0 che si affida sempre più agli LLM per velocità, immediatezza, e comodità? è vero, la velocità degli LLM è fantastica, e ciò, almeno nell’immediato aumenta l’efficienza del lavoro. per contro, però, gli studi dimostrano che il delegare all’AI funzioni cognitive, col tempo indebolisce il pensiero critico, la creatività, la resilienza e la capacità di problem solving negli utilizzatori degli LLM (e con andamento peggiorativo nel tempo, col protrarsi dell’utilizzo!)

    similmente, anche qui, su Neobar, in calce a questo post importante recatoci da Abele, entrano in azione meccanismi similari: ben sette “mi piace” e nessun commento. ecco dunque concretizzarsi un’altra forma di pigrizia mentale che affossa lo scambio di idee e riduce le capacità dialettiche e di critica (click: accendo il “mi piace” e corro oltre, f-ast-enendomi dal fermarmi a riflettere).

    senza contare che gli LLM, come già segnalato in precedenti miei interventi, sono ben lungi dall’essere “soggetti neutrali” essendo *proprietà privata* di questo o di quel capitale. ergo, come dimostrato in recenti studi, oscurano contenuti – come già i motori di ricerca – e mostrano bias di giudizio in base al tipo di programmazione ricevuta: basta un click nella stanza dei bottoni per farle dire questo e/o non dire quello, si veda ad esempio lo studio di Agiza e colleghi, qui https://ojs.aaai.org/index.php/AIES/article/view/31612/33779

    in pratica e sostanza, il sistema neofeudale imposto dal capitalismo finanziario globalizzatore è ovviamente ben contento di forgiare gli schiavi-utenti-sudditi del domani rendendoli più docili (meno pensiero, più consumo)… i social media hanno già atrofizzato linguaggio e capacità critiche dei nostri cervelli, l’AI è la fase successiva in cui il sistema intende addirittura *surrogare* a proprio piacimento le  funzioni intellettive dei nostri cervelli atrofici.

    chiudo con un altro concetto importante: “la narrazione non è la trascrizione di un ordine già dato, ma l’esplorazione del divenire umano”, quindi, come già riconosciuto da Ortega y Gasset e come ribadito per 3 volte da papà Kurt, non dimentichiamo quali sono le 3 cose più importanti in qualsiasi opera letteraria *viva*: le storie, le storie, le storie.

    ringrazio ancora Yuleisy Cruz Lezcano (che torna condivide i suoi pensieri su Neobar, seppur disdegnando ogni scambio dialettico) e il solito prezioso Abele, nume tutelare di Neobar nonché fattivo “creatore” di questo post.

    : ))

    "Mi piace"

Scrivi una risposta a malos mannaja Cancella risposta