Sergio Sichenze, Nodi. Nota di lettura di Anna Rita Merico

Sergio Sichenze, Nodi, Edizioni Gilgamesh, 2024, con introduzione di Paolo Gera

Respiriamo intasati da Nodi. Sono i Nodi all’interno dei quali, oggi, districarci. Sono Nodi etici, storici, politici. Sono Nodi di processi di umanizzazione che hanno attraversato secoli del nostro Occidente e che, oggi, reinterroghiamo chiedendo alla parola poetica di fare da argine perché alta è la complessità.

Forte stilizzazione e lucidità per questi versi di Sergio Sichenze che attraversa, in progetto poetico, talune domande già attraversate nel corso del secolo trascorso e che sono cifra di questa contemporaneità. Domande articolate tra le righe di una parola che si pone come argine di resistenza dinanzi alla tracimazione delle acque di ciò che ha reso possibile essere e riconoscimento di sé e dell’altro: la parola.

Sichenze affonda sguardo e riflessione nel mito inteso come luogo di narrazione fondante. Stacca, con dovizia, figure da una sospensione simbolica in cui avevamo riposto ciò che ci sembrava “superato” e, ad esse, collega un significato attualizzato che dà loro movimento, ancora. Per dire dell’oggi, il progetto di Sichenze affonda nelle origini dei sensi lì dove Leggi di Vita mostravano verità e occultavano eccessi dell’umano.

Ogni verso di Sichenze si pone all’estremo di possibilità espressive, ne nasce un verso limpido, tagliente, essenziale nella sua brevità compositiva. Voltarsi indietro, guardare al passato e riportare quelle schegge utili per resistere ed essere nel presente: questo l’intimo del movimento agito dall’Autore. Questo l’intimo che consente lavoro di resistenza allo sdruciolo della memoria, alla perdita di visione tra le macerie di un umano cammino giunto ai propri epigoni e a tragiche perdite di senso.

Non sarebbe possibile altra torcia per attraversare questo cunicolo buio se non la torcia accesa dalla parola poetica e Sichenze fa sua questa possibilità entrando negl’interstizi del divelto, della scheggia, dell’offesa, della perdita.

Dinanzi al nulla soffocante Sichenze risponde con un gesto umanamente forte: ri-attraversare memoria d’origine, stagione fredda con il lume dell’oblio sconfitto, con i fili-barlumi sottili quanto meridiani e paralleli tesi su di una cartografia dell’anima capace di mostrare la tenuta del voler restare, del voler testimoniare, ancora.

Giungere a passo di lupo all’inizio dell’inizio indica possibilità di donare narrazione ai sopravvissuti, ricucire trama e ordito di narrazioni fondanti capaci di ri-articolare l’umano passo.

Molto interessante ed intrigante il registro linguistico in cui Sichenze immerge la propria poesia. Un dizionario lessicale che è, esso stesso, poetica. Emersioni di immagini, schiacciamento nelle ripide di crepacci capaci di rigenerare sensi e significati, assonanze asimmetriche generate dall’impatto tra il lessico del corpo e il profondo del pensiero. Moncherini di parole, avvelenata falda lunare, macerie convocheranno i franati ricordi, Icaro è caduto così l’angelo nero… tutto un ordito che rende trama per una tessitura di nuovo possibile. Un occhio-sguardo del presente dialoga con un occhio-sguardo del passato. E’ tale filo sottile che agglutina senso di percorsi di umanizzazione avvenuta e ancora accadente attraverso la parola.

Di nuovo Ilio brucia. E’ una Ilio tutta deglutita all’interno dell’anima. Gioco di bambino che, per divenire adulto, manipola oggetti e, solo dopo averli interiorizzati, ne fa pensiero riflessivo. Così per Sichenze: quanto ci precede diviene humus che apre orizzonte e fornisce nutrimento all’oggi. L’immensità dello scorgere la produttività nell’accumulo dei secoli. Nulla di quanto bruciato, sepolto, divelto, sradicato si mostra come vuoto e insensato. Umanità come capacità di stanare semi, questo il denso della poesia di Sichenze. Una poesia capace di indicare il dentro del passato all’opera per il presente, un presente legittimato da radici, un presente in cui il ritorno all’oralità consente alla parola di poter reincontrare il mondo.

La bellezza di questi componimenti è nella sapienza del saper coniugare, con leggerezza ritmata, antico e presente per donare, ad entrambe le dimensioni, la durata di un eone che intrattiene l’umano rendendolo vivente.

Non hanno avuto/ modo di cadere/ le foglie./ Per dire/ autunno ci vuole/ un dio dell’acqua/ estina linfa solare/ esangui rose/ grazia che la notte/ incarna./ Rogo/ ha cancellato/ l’oltremondo/ l’oltremonte/ l’oltremodo,/ Fuoco/ incendia il grano/ del grembo: sterile/ utero seminale./ Passaggio/ di vulcani e deserti./ Lancia/ feti e radici/ allea./ Tempo: monotonia/ di una funzione./ (IX. pg 30)

Forte la connessione, tenuta presente, tra regno dell’umano, del vivente e cosmo. Altrettanto forte la visibilità riconosciuta all’umana distruttività dalla quale pur riemerge la capriola della vita e delle essenze. Anche l’io è terreno di superamento, una deindividuazione attraversa i versi e imbeve il limite dell’umana libertà. La libertà inscenata da Sichenze è passo tutto racchiuso nei segni di simboli che hanno segnato la storia delle umane credenze e delle umane impossibilità. Ciò che è origine prima del nome si mostra intero nel tellurico di un pensiero contenuto dal desiderio di vedere, di sentire come e quanto questa regressione dell’umano andare sia prodromo ad un ancora non scorto passaggio evolutivo cui tendere attraverso un pensiero capace di resistere scovando avanzamento in tana di Vita.

Abbraccio/  i morti perché/ sono nati./ Sono origine/ prima del nome./ Non preparano/ parole per dire/ grano./ Non radunano/ la polvere per l’eterna/ terra./ Vivo nel loro/ nuovo inizio/ nel geloso vento/ che li nasconde./ E’ vocazione/  l’abbraccio./ Disciplina/ divina./ (XX. pg 43)

Anna Rita Merico

I.

D’inverno c’è sempre
una guerra d’estate
al timbro
dei cannoni cineree
betulle crepitano.

Pioggia terra
di gambe e torsi
percuote.

Acqua fosse
rabbocca.

Erica
nell’anidra
aria radica
sull’ossidato scheletro.

Tassello
di sole casa
sostiene.

Nuvola
dal Paradiso
scacciata
confida: Dio è solo
nel futuro.


III.

Quando sarà
la mia morte e io
accenderemo il fuoco
le nostre parole formeranno
la prima Pasqua.

Nulla tralasceremo.

Sarà marzo
manterrà la neve
il suo impegno
d’acqua.

Neonate
macerie convocheranno
i franati ricordi.

Arriveranno
a passo di lupo
all’inizio degli inizi.

Con la nenia
della nonna racconterai
il calco
della terra di tenebra
metallica.

Racconterai
la tua violenza
dal freddo sedile
nell’esploso mare
di visi annegati.

La condanna
dei sopravvissuti racconterai.


XIII.

Dei bambini
non resta che una bici
stregata.

Al mare
doveva portarli.
Al mare che
le fortune dell’oro
protegge.

Adagiati
sull’erba di dicembre
il gelo li ha consacrati
ad avere santità
di brina.

Giocare e riposare
senza impegni
è una poltiglia
d’inanimato fango.

Inestinguibile
solstizio d’inverno.
D’inabitate pietre
è il Figlio dell’Uomo.

Acqua
Santa hai tradito
la consegna di Dio.


XVIII.

Famiglia senza pane
sepolta.

Costato
fiorito in cremisi
squarci.

Onore
del centro pagina.

Contornati e civette
macabro effetto
rifiniscono.

Al piedino
cattura l’impeto
del trionfale
germicida: stermina
microbo migrante.

Incorniciata
lievitazione
degli zeri: invarianza
dei domini.

Incorroso mercato.

Imperioso comando
totale.


XX.

Abbraccio
i morti perché
sono nati.

Sono origine
prima del nome.

Non preparano
parole per dire
grano.

Non radunano
la polvere per l’eterna
terra.

Vivo nel loro
nuovo inizio
nel geloso vento
che li nasconde.

È vocazione
l’abbraccio.

Disciplina
divina.


Nato a Napoli nel 1959, Sergio Sichenze è poeta, narratore, educatore. Ha pubblicato racconti e raccolte poetiche. Nel 2025 ha curato il volume collettivo La stessa cosa del sangue. Racconti con la
resistenza
, DeriveApprodi. Dal 2019 è membro della giuria del Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio.
Fa parte dell’associazione La Corte dei Poeti di Mantova. Ha vissuto per oltre quarant’anni nel nordest
dell’Italia: a Trieste e a Udine. Ora vive in Valdemone, alle pendici dei Nebrodi, affacciato sull’arcipelago
delle Eolie.


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