Louise Glück: October

Is it winter again, is it cold again,
didn’t Frank just slip on the ice,
didn’t he heal, weren’t the spring seeds planted

didn’t the night end,
didn’t the melting ice
flood the narrow gutters

wasn’t my body
rescued, wasn’t it safe

didn’t the scar form, invisible
above the injury

terror and cold,
didn’t they just end, wasn’t the back garden
harrowed and planted-

I remember how the earth felt, red and dense,
in stiff rows, weren’t the seeds planted,
didn’t vines climb the south wall

I can’t hear your voice
for the wind’s cries, whistling over the bare ground

I no longer care
what sound it makes

when was I silenced, when did it first seem
pointless to describe that sound

what it sounds like can’t change what it is-

didn’t the night end, wasn’t the earth
safe when it was planted

didn’t we plant the seeds,
weren’t we necessary to the earth,

the vines, were they harvested?

È di nuovo inverno, fa di nuovo freddo,
Frank non è forse scivolato sul ghiaccio,
non è guarito, i semi primaverili non sono stati piantati?

Non è finita la notte
il disgelo non ha allagato le strette grondaie?

non è stato salvato il mio corpo, non era al sicuro?

non si è formata la cicatrice, invisibile
sulla ferita?

Terrore e freddo,
non sono forse finiti, il giardino sul retro non è stato arato e piantato?

Ricordo come si sentiva la terra, rossa e densa,
in file rigide, i semi non sono stati piantati,
le viti non si sono arrampicate sul muro a sud?

Non riesco a sentire la tua voce,
per i lamenti del vento che fischia sulla terra nuda

Non mi interessa più
che suono faccia,

quando sono stata messa a tacere, quando per la prima volta
mi è sembrato inutile descrivere quel suono.

Come suona non può cambiare ciò che è:

non è forse finita la notte, la terra non era
sicura quando è stata piantata?

Non abbiamo piantato i semi,
non eravamo necessari alla terra,

le viti sono state raccolte.

(trad. L.Z.)

“Ottobre” di Louise Glück è la prima poesia di Averno (2006) con una voce che interroga la realtà dopo un trauma – personale e collettivo – senza mai nominare l’accaduto, anche se sovente viene letta alla luce delle conseguenze culturali e psicologiche dell’ 11 settembre.
Il titolo della raccolta rimanda al Lago d’Averno in Campania, per gli antichi l’ingresso al mondo sotterraneo, e prepara il lettore a una sepoltura simbolica: immagine ideale per un libro che scava nelle radici del lutto e della perdita.

La struttura è immediata e ossessiva: sequenze di domande retoriche e negazioni (ripetuti “non”: “non è”, “non siamo”…). Questa ripetitività non cerca risposte; piuttosto, imita la circolarità del pensiero traumatico che torna su di sé. Le domande, pur formalmente aperte, servono a sottolineare l’impossibilità di essere riparati, di rimettere a posto ciò che è stato spezzato.

Il linguaggio della poesia mescola immagini naturali e termini corporei (cicatrice, ferita, corpo, voce), instaurando una corrispondenza tra paesaggio e soggetto: l’autunno non è più solo una stagione ma uno stato dell’anima. Le operazioni agricole – aratura, semina, crescita delle viti – funzionano come metafora della cura, del tempo che rigenera; la loro mancata realizzazione (i semi non sono stati piantati, le viti non hanno scalato il muro?) sancisce l’interruzione della cura e la sospensione della vita creativa.

La voce poetica parla anche della perdita della voce stessa: il “non riesco a sentire la tua voce” e “quando sono stata messa a tacere” collegano il trauma all’impossibilità di comunicare o di esprimersi. Il suono del vento che fischia sembra sovrastare la parola umana: la lingua non basta a trasformare ciò che è avvenuto.

Il finale è significativo: dopo una lunga serie di negazioni, l’ultimo periodo presenta immagini concrete (“Non abbiamo piantato i semi… le viti sono state raccolte”) che suonano insieme come resa e come registrazione della realtà. L’assenza della negazione finale, nell’ultimo verso, può essere letta in due modi: come l’accettazione della perdita (registrazione di ciò che è accaduto) oppure come un tenue appiglio a una possibile speranza.

In sintesi, la poesia trasforma il paesaggio stagionale in una mappa del lutto: le ripetizioni negatrici, la fusione tra corpo e terra, e il silenzio della voce contribuiscono a rappresentare il trauma non solo come evento passato ma come condizione che plasma il presente.


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