Pietro Mallegni: “Anedonia”

Dalla prefazione di David La Mantia:

Il lessico pantagruelico della poesia.
Il caso di Anedonia.

Pietro Edoardo Mallegni, Anedonia, nero_latte ed. 2025

[…] dio
fa passare su me i satelliti per dirmi
che anche stavolta non mi ha visto.
Prima il sonno era abbondanza,
adesso, avanzi del giorno e
consistenze che non sono più.
Era il vizio di piacersi, pitturare
lo specchio con tutti i miei
“avrei voluto essere” e
sentirsi possibile.

Pietro Edoardo Mallegni descrive così la condizione del soggetto nella sua ultima raccolta. In questo passo, ricco di echi montaliani, esplode il tema dell’assenza di Dio, dell’esilio, dell’abbandono, del fallimento delle speranze, del mancato realizzarsi della sua possibilità, dell’inconsistenza, dell’assenza di emozioni e passioni. Temi che ritornano, con insistenza, nella silloge. […]

[…] Mallegni ama fondere il suo dettato poetico con parole tecniche, ad impatto scientifico, più spesso medico. Ed ecco una folgore di termini come asistolia, tanatosi, dipnoi, perimetrale, lepidotteri, cadmio, eliotropi, gommagutta, betoniere, anosmia e ageusia, epidermide. Ma questi sono solo un esempio di questo incedere, che ricorda molto il Gozzano di Alle soglie, con la celebre rima malinconia radioscopia, con la capacità di fondere insieme mondi opposti ed inconciliabili, uno tradizionale, l’altro aperto al nuovo, alla tecnica, al gergo medico… […]

*****

selezione testi:

Disseppelliti dal cuore, riemergono legni che curvano
i ricordi come fossero piogge o meteore,
i nostri giorni si rifilano come pigri bambini
e si fanno impronta di insetti, gatti e volpi.

Mestizia di soffitti e ritorni turchini,
questo brama la geografia del sonno
e una divina ubriachezza si disfa di altre storie,
storie di piccole cose dimenticate
che sono pappagalli sulle spalle
di questi figli di legno.

Credimi, ancora, sciupata innocenza
la bugia è un unico frutto acerbo e
fingo sia l’incrinato interno di balena
questa silente estate del mondo.

*

Fuori adesso, il resto degli anni si sciupa,
seminarsi e smarrimento,
-chi si invita volgarmente nel rivedersi?-
Sono distillato di vino e pietre d’ inciampo,
di acacia e melagrana, rosso libidinoso dei piccioni,
lontano profondo di industrie casearie.
Ho rifugiato cappotti, per isolare il finora come una
vergogna, ho scaldato la pece sui traumi.
Mi alletta assomigliarmi,
barba rasa e funzioni alla mano
sembra un rebus questo taglio:
io e le alici, la lentezza e lo stridio.

Intingendo ogni mio ciuffo nel nero bollente,
a me una forma nuova, a me i capelli e le ustioni,
rinasce una desiderabile deformità,
mentre la mia schiena recita versetti
e chiede in che lingua parli Dio.

Camicia a quadri, senza occhio e pistola in tasca :
il mare e il plancton; Dio si è messo in dispensa,
a inghiottire l’oceano, a smembrare l’ abbondanza
e i vecchi come fossero una porzione di siluro fritto.

Rigurgitare catrame
o fondersi cromo sugli occhi
per non dirmi umano, ma lemure
che richiede, come una trasfusione,
il “farcela” e rivede sarcastico la solitudine,
gli irrigatori e paragona la verità
alla coscienza dei propri gomiti.

*

Io potrei dirvi dove dimenticai le pietre dietro me,
anni divenuti calcoli e ulcere, del colore della pelle
quando si fa nuova,
dirvi della morfina per dormire ovattati in macelleria;
il rumore delle nocche che si spaccano per la varechina
e la mancata voglia di pagare l’acqua calda per pulire,
l’indicibile inchino che fanno gli occhi
per lucidare un bicchiere e brindare ai giorni e alle
preghiere.

In casa ho avuto solo silenzi da balbettare per viltà
della ghiaia nell’animo non capitale.
Da corsaro inerme, sono pozzanghera questi mari
sulle spalle
e i datori ci hanno disegnato sopra un firmamento
dove affittano le galassie ad una stella di sete ,
che dilaziona dalla masticazione al catechismo
e sazia i debiti con polvere di sorrisi malvagi.

Passando per quei lidi che odorano di tutto fuorchè
di cucina, mi accostai a un’anziana moglie: un occhio
macchiato di celeste,nascondeva il conoscermi
e i suoi anni migliori,
rimaneva solo bieta e brodo granulare
per fare il sabato sera.
Amai quel suo voltarsi, tornare ai tavoli vuoti,
con le spalle si girò il bianco di un cartello.
Giaceva su di esso un “vendesi”.

Recitai il reale come fossi un prete.
Soddisfatti i coltelli,
mi voltai e lasciai scivolare un bisbigliato Amen.

*

A dio, in corsa, morendo non porterò il bene:
l’acqua dei miei occhi e la lagna di nuvole
e parenti quando tutto si smette.

La dentiera ingiallita degli ultimi anni, il portapillole,
le lettere scolorite di sabato che mancano a lunedì,
porterò il sorriso schifoso della rata del mutuo.
le mie privazioni adornate del vuoto di ozono distrutto
e il mio cognome tradotto in numero.

A dio va il mio tempo perso, la punizione del pane
farcita di nascite e sudore di schiena infibulata,
la sua eredità unica che è l’indifferenza
che è la sua famigerata forma e somiglianza.

*

La mia barca e il deserto: un paradiso
che farebbe bene a muoversi,
costringendo la finzione di sé ai grilli.

Amarmi: come l’aderire di uno stomaco
ad un uovo sodo appena ingerito,
sogni che crescono solo lontani.

Dimoro nella mia malattia:
sono inferno, alloggia Caina
sulle mie spalle, limpido abisso
e tragedia di me.

Non è mai protagonista il mio nome
in queste pagine febbrili,
nessuno mi canta e rimango più
grande solo di un tramonto.

*

Dalla postfazione di Emanuela Mannino

Nella poesia del Mallegni sembra di sentire la eco del pensiero del filosofo tedesco Lessing, il quale affrontò i temi fonda-entali dell’Estetica della seconda metà del Settecento: la questione della forma, la critica dell’allegorismo, la problematica delle sensazioni spiacevoli, interpretata come ‘unità del molteplice’, fondando una nuova Estetica basata sul brutto che si sostituisce gradualmente all’ideale artistico del bello che aveva dominato la tradizione. Così, anche in Anedonia, il brutto si impone come qualcosa di inatteso, di sorprendente, spiazzante. Categoria dell’Arte, ancor più del bello, con transitoria
fissità funzionale di percezioni, stati mentali, atteggiamenti che trascinano il lettore in un viaggio interiore unico e sorprendente.

***

Pietro Edoardo Mallegni è nato a Carrara l’1 luglio 1995. Fin da piccolo nutre due grandi passioni: la cucina e la scrittura. Nel 2013 ha pubblicato con la casa editrice“ Marco del Bucchia” la sua prima raccolta:“ Il dedalo in me”, e vince il premio “Michele Mazzella” con l’atto unico “ Geshua e il crollo dell’io”, nel 2015 pubblica un’altra raccolta intitolata “ Il Dio Dada”. Tra il 2019 e il 2021, partecipa a diverse antologie curate da Ivan Pozzoni per la casa editrice “ Limina Mentis “ inoltre ottiene alcuni riconoscimenti e pubblica due raccolte di poesia intitolate “Neurocidio” e “Il nulla”, rispettivamente pubblicate con le case editrici “Limina Mentis” ed “Europa Edizioni”. Tra il 2021 e il 2022 suoi vari testi vengono pubblicati su diverse testate giornalistiche online e tradotti in varie lingue tra cui inglese, francese, spagnolo, arabo e cinese. Anedonia esce per nero_latte edizioni nel 2025.


3 risposte a "Pietro Mallegni: “Anedonia”"

  1. selezione notevolissima di versi che suonano *colti*, eppure quasi *colti* di sorpresa (una sorta di ossimoro, tipo la spontaneità istruita). lo spessore sensoriale è ben comunicato e le parole assumono valenze tridimensionali: prendono corpo, ronzano in testa e si possono afferrare per la coda (in presa diretta). si sente tra le righe la presenza fisica del corpus dell’autore, a impostare/ricercare col lettore un piano orizzontale di condivisione, un *dialogo* che forse resta a tratti un po’ improbabile o impervio, ma che comunque pare esorcizzare il piglio elitario di certa Poesia dotta.

    e in effetti, *qui*, l’io lirico tende a sgretolarsi: sul desco, le parole sono briciole di un “pasto sacro”, tipo ultima cena (“la punizione del pane farcita di nascite e sudore di schiena infibulata”), col pane che vira da simbolo di vita e sacralità in ricatto/punizione, farcendosi di dolore. un pane che si dipana in lungo viaggio nei meandri d’una crisi esistenziale (sociale e spirituale) tipica del claustrofobico solipsismo contemporaneo. il poeta s’è trasfigurato in teca piena di slanci “slancinanti” resi sopportabili da un’ironia mesta che agisce sottotraccia con violenza metafisica. una quasi-profanazione blasfema del sacro (citofonare alla Villa di Emilio) che contamina il lessico teologico-alto con quello basso-corporeo, anzi biologico/ primitivo.

    non so se sono riuscito a spiegarmi. l’identità è un rebus (“mi alletta assomigliarmi”), il corpo è un campo di battaglia (“pece sui traumi”), il cammino è ondivago/smarrito (“vino e pietre d’inciampo”). e proprio lo smarrimento conduce i versi in territori diversi (quindi preziosi), dove l’eco di Dio (“io”) rinterza sul poeta che non è più un messia o un santo-salvatore, ma un’entità essente alla ricerca di un linguaggio. eh, bella questa: Dio è assente, l’essere umano è essente… e la Parola fa cenno di sì col capo (quindi assente)

    : ))

    quest’identità tra Dio e io affiora in superficie tra le righe: “Dio si è messo in dispensa, a inghiottire l’oceano, a smembrare l’abbondanza” fa il verso all’individualismo di un’umanità egotista, avida di ricchezze e di risorse naturali, intenta a spogliare il mondo (e forse l’universo dei sentimenti) riducendoli a numeri che pretendono di ingabbiare il senso del linguaggio, come un qualsiasi LLM (large language model)…

    insomma, “se Dio esiste” è una AI (artificial intelligence) e dunque la risposta a “in che lingua parli Dio?” è: nella lingua architetturale del trasformatore generativo pre-addestrato.

    : )))

    e di riflesso, alla domanda, ma allora chi pre-addestra Dio?, risponde sempre l’eco: “io”.

    id est, una sorta di gioco di prestigio cosmico/comico misurato in parsec e in *scomparsec*…

    : )

    aggiungo quindi – solo parzialmente fuori tema – che proprio questo è il vulnus della maggior parte dell’ars Poetica che viene pubblicata in questi tempi: è prevedibile (e dunque vendibile come prodotto seriale). è scritta dagli LLuMani di quarta generazione, sufficientemente addestrati per generare Poesie grazie a parametri messi a punto durante l’addestramento e poi efficientati su più livelli dal *meccanismo di attenzione* (collegamento tra parti specifiche dei set di dati). nella generazione di un testo (poetico o meno), i modelli LLuMani imparano a *prevedere* il termine successivo del verso in base al contesto determinato dai termini precedenti mediante un *punteggio di probabilità* calcolato in base alla ricorrenza delle parole che sono state tokenizzate e suddivise in sequenze più piccole (detti *incorporamenti*, ovvero rappresentazioni numeriche del contesto).

    la domanda (con cui chiudo il fuori tema) è dunque la seguente: siamo qui riuniti a dissertare di incorporamenti? a voi l’arcana risposta articolata, cliccando “mi piace”…

    : (((

    e torno ai miei deliri sui versi di Pietro Mallegni, che, per contro, a tratti m’hanno colto di sorpresa, come dev’essere quando si parla d’illuminazioni concrete. la critica sociale appare tagliente fin dal titolo (“Anedonia”) e poi s’insinua in tralice lungo scenari *traversi*: ribolle viscerale sottotraccia (fino ad assumere aspetti metamorfici per le intense pressioni e/o temperature nel sottosuolo psichico) una vigorosa rabbia/frustrazione contro un modello economico dove i “datori” addirittura “affittano galassie” e il capitalismo mercifica qualsiasi cosa, dall’essere umano in sé (un “debito” vivente, un numero tipo “rata del mutuo”) al desiderio (“stella di sete”). temi fortemente pasoliniani, dunque, tanto che a corpo testo trovo esplicito richiamo nel “corsaro inerme”. e c’è in effetti, in questi versi, seppure maggiormente disillusa, la rabbia di paPàsolini contro la *mutazione antropologica*, la sua *disperanza* religiosa, il suo sguardo coraggioso capace di mettere a nudo il corpo umiliato e la violenza del consumismo. a tratti, infatti, il piglio dei versi evolve in canto *liturgido*, profetico e ostinato, riportandomi alla mente “Il pianto della scavatrice” o “Poesia in forma di rosa”.

    com’esito fatale, tradotto in schiavitù nel mentre che il suo nome e cognome viene tradotto in mero codice, l’essere (sempre meno) umano langue. e arriva, a chiudere una strofa come un’altra, il verso che m’ha steso: “I vecchi come fossero porzione di siluro fritto”. un verso-universo. l’ho letto e riletto vedendo materializzarsi una condizione “spettrale”…

    il siluro non è un pesce qualsiasi. è un *mostro* di fiume, un predatore alieno (invasivo e alloctono), vorace e tutt’altro che nobile. può ben simboleggiare, dunque, un equilibrio rotto. *urticante*… i vecchi non sono solo scarti, ma oggetti *estranei* e *invasivi* nel tessuto di una società che non ha più posto per loro. robba d’infima qualità, per giunta: il siluro ha un sapore forte, terroso, *devi* friggerlo per camuffarne il sa’poraccio: *mascheramento/occultamento* dunque…

    brrr… de-umanizzazione e *riduzione* a prodotto: i vecchi sono pro/cessati, trasformati in un prodotto alimentare standardizzato (“porzione”) del tutto privo di identità. come la frittura nasconde il sapore del siluro, la società consumista *frigge* i vecchi nascondendo la loro storia/esperienza (vita vissuta, dunque *scomoda*) dietro un trattamento formale, un’accoglienza in RSA, una *marginalizzazione* che ne maschera l’ingombro. non è più questione di mera inutilità: stiamo parlando di un processo attivo di *trasformazione* e *consumo*. il “peso” mostruoso e invasivo della vecchiaia viene *fritto* ottenendo un prodotto anonimo (e anche dozzinale) da consumare e obliare. decisamente un’immagine terribile dotata di precisione chirurgica in termini di sociologia post-moderna: un raduno di emarginati che cercano, in un rituale di consolazione (mangiare insieme qualcosa di povero), di dare un senso al proprio essere messi da parte.

    e in futuro sarà anche peggio di così: verremo direttamente gettati nelle fauci voraci di termo-valorizzatori dedicati (termo-vecchizzatori) con l’obiettivo di fornire energia ai voracissimi Data Center delle AI.

    : )

    che dire ancora?

    siamo ben oltre Zanzotto: oltre lo stato psicotico, oltre lo smarrimento, oltre l’angoscia metafisica *e* scientifica. siamo al *pasto nudo* della poesia, per dirla con Burroughs: la poesia stessa, al cospetto di quanto detto finora, diventa materia di sagra paesana nelle golene del Po.

    I poeti come fossero porzione di siluro fritto”.

    beh, eccoci qua… raccolti attorno a uno dei tanti blog agonizzanti: piccola e malinconica “sagra del siluro” a margine del basso corso del fiume Po, intenti a cercare un’allegria (persa, insieme all’entusiasmo, nel tempo che fu) e una *palatabilità* che la vita moderna non ha più. eccoci qua: quattro (pesci) gatti che esorcizzano l’inevitabile sconfitta al cuore determinata dal trionfo dell’ “I palindrome I”, per dirla coi They Might Be Giants.

    eppure…

    eppure l’ironia ci salva ancora da questa inevitabile *scomfarsa*.

    quindi? quindi facciamoci coraggio, fratelli e sorelle neobaristi. versiamoci un altro po’ di vinello e rispondiamo al solito indo-vinello: cui prodest? perché, come al solito, il crimine lo commette chi ne trae giovamento.

    se il peso degli “anni divenuti calcoli e ulcere” ci logora, cerchiamo almeno di non omologoraci.

    : ))

    continuiamo a lanciare il nostro siluro (non fritto) contro la corazzata Potëmkin/Kotiomkin proiettata all’interno del cineforum aziendale, ovvero contro la Megaditta fantozziana (nonché cefisiana) che tutto controlla, che ingloba la cultura svuotandola, ivi compresa anche la cultura di rivolta (castrata di senso grazie ad una parcellarizzazione strumentale alla sua commercializzazione).

    non diventiamo singoli fotogrammi eunuchi (“l’occhio della madre”, “la carrozzella” ect), manteniamo/preserviamo una visione d’insieme: il nemico è uno solo, è il capitalismo ordoliberista capace di mercificare tanto l’umanità quanto la rivoluzione stressa (Pasolini docet, ma anche Debord, Marcuse…).

    può apparirci sconfortante percepire “il tempo perso”, ma finché resistono memoria ed esperienza (i.e. finché l’AI non riscriverà per intero ogni ambito di storia e realtà) possiamo personificare qualcosa di “più grande di un tramonto”, possiamo ancora rendere *pericolosa* la poesia uscendo dagli angoli tranquilli delle nostre scrivanie, nonché dal rifugio dei luoghi comuni dell’anima.

    possiamo ancora irridere l’irrilevanza.

    la poesia di Pietro Mallegni ne è antidoto vivente: almeno finché continuerà a preservare una salvifica comprensibilità del messaggio, perché dopo ogni tramonto, la parola s’orge e ris’orge.

    godiamone insieme.

    : ))

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