(Mike Warrall)
più chiare nascite
senza memoria di parole
nella voce,
profili
in trame di muschi
cresciuti nel grembo caldo
della luce –
dove
la pelle è un paesaggio
che si apre
a mani da semina
e consiste, limpido,
nell’oblio di polvere
del futuro
(viste dall’alto,
da un prima di distanze,
versando dentro i calici
l’arte che ci perdona
del sapere)
*
sul labbro
sente le sillabe
intrecciare favole di nebbia,
geografie di resina e
notti immaginarie
tradotte al guado di
lampade profonde: –
la lingua assorbe tempo
dai pori del respiro,
l’infanzia
fa cenni di luce
da cieli di rimpianto
che ora svaniscono, ora
si impigliano alle fronde,
nel grido di chi sbaglia strada
e senza il dono dell’orma
va nel giorno
*
ieri
gravido di lune franate
nell’abisso
salino
di un grido –
al laccio un viola
d’ombre di crepuscolo,
negli occhi
la rotta dolente
di vele sopra mari
inesplorati: –
non altro si annuncia
in questo lento fluire
di spazi
arresi a regole d’azzardo,
solo vorticose cadute
di saggezza
nella quiete che scolora
insieme al liquido bruciato
di una bottiglia vuota –
costellazione
imprevista
di petali, silenzi
fermentati
dagli umori densi
del sangue delle rose
*
incoerente rotta nell’azzurro
disegnata dall’ultimo volo,
dalle pupille di una rondine
in rallegrati lumi
invernali –
quando il tuo sguardo
cede all’incanto
di quel lampo compiuto
da sciami di cielo e
la notte frana come un porto
all’inarcarsi di onde
millenarie, poi
lacrima nell’erba nevi
elementari, argille d’isola
per modellare transiti
di epoche: –
si muore
nella calma di uno stelo
reciso dal gelo,
col passo che profonda sete
in ripetute lettere del sonno,
un breve sorso
alla ferita immobile
del sole
*
estasi annunciate
dal ritorno di ali recluse
tra orizzonti di vertigine,
in quel volo radente
che, sul nascere,
a nessuno germoglia
cristalli contro il fuoco,
ma rose aguzze
che
nel chiarore
cercano accordi con la spina: –
le senti rosseggiare,
crepitanti
resine d’inchiostro,
assomigliarsi agli astri
sfiniti tra rigagnoli di mura,
al tempo che si estenua
nel lievito di un grido,
a questa dura pace
dell’aria che regna
nel guardare
*
vegliano i giorni
la stele irrivelata dei canti,
reliquiario di pensieri
spesi in muta grazia
e trapassati, ombra
dopo ombra,
al sonno delle sabbie,
indecifrabili
come lacrime sognate
da respiri ardenti d’oasi –
pagine di fiume
dove il senso emerge
in labili segnali di corrente
cancellati dall’aurora,
un’altra resa,
una rosa di silenzi
unica nel suo alfabeto
senza requie: –
di tante voci
gridate sull’orlo dell’abisso
solo la sete dura,
accampata
sulle labbra di stelle
incapaci d’occhi,
dismesse
radure dell’eterno
*
occhi gonfi di mare
sul tracciato che dalle labbra
conduce a selve di visione,
alle mani fitte, fiorite
dell’aprile –
il carro vola
e una fiaccola arde
la parola ricordo che respira,
si descrive in lettere
tenaci d’onda
trapassando spine aspre,
rovine aperte al gelo
che dilegua per immutabile
legge del risveglio: –
tenebre e rime recate in dono
al dio che dall’abisso
porge la carta, l’inchiostro,
il segno, il solco
della nuvola che spazza
il dolore nell’incanto –
a gloria futura
di un prolungato nulla,
un prossimo, lento declinare
sullo stelo
*
trasuda agli occhi
palpiti di nido,
piume in fiamme
nelle camere del gelo,
appena un viaggio alle fonde
lanterne di una lacrima,
questa sete perenne
che non tace,
spesa con giudizio
sopra bocche di spina,
come se il vento macchiasse
di chiarore la sorgente,
l’attesa di un mare
che sanguina di rose
e dispera il misero
ordito di una vela,
primalingua d’abisso
per quante morti
contiene il naufragare
*
passi vegetali
sui muri inanellati
di viluppi d’edere
alla cui ombra gli angeli
trovano riparo –
si riconoscono
dagli occhi di spina
e i loro doni tardano a venire
come promesse affidate
a eliche di vento,
alle labbra ingiallite d’aria
sotto l’ultimo carico di voci: –
forse un tempo, ardenti
nel ferro di un’intima rinuncia,
incespicanti tra comignoli
di notti, il volto a specchio
scivolava come pioggia
alle pareti –
erano creature di neve
che il cielo lievita
in quegli spazi aperti al volo
di stagioni alla deriva,
indecifrate mappe
marcate in pause di respiro,
i segni controllati
con lenti di ordalia
*
archi segreti di stupore
inventati dall’acqua
che si trascina resine,
muschi di anfratti
visitati al buio delle pietre,
paesaggi di ferite,
occhi incrociati
al verde delle mura,
abiti, ritratti familiari
di luci in difficili ritorni: –
tutti murati a volta
da liquide sapienze di mani
arse dal fuoco della foce –
in quel passaggio d’albe
dove il vento cifra
messaggi di marea
agli sposi infedeli della luna
*
dissociate sostanze d’alberi
al tocco della voce
che porta autunno
a completare
la ronda delle foglie,
sul sentiero lunare
che immiserisce al rovo
disposto a specchio
per rimirarsi
in estasi di neve,
farsi nido per la furia
placata di un volo: –
i rami si guardano
intrecciando nenie
per il vuoto,
e l’acqua spenta
penzola ingiallita
finché la pietra
che la trattiene a riva
vampa di brume –
tanto lontano l’accordo
con la parola cielo
che va a svanire
nell’impensabile notte
dei suoi accenti
*
impressioni di luce
nel dolore elementare delle foglie
appassite
in mausolei di rami,
nel pianto dei fiori
che si oscurano
al vapore silenzioso degli specchi
come farfalle anestetizzate
da più voraci spilli e
bocche d’aria
illuse da un recupero di neve: –
qui la notte è madre
sconosciuta
che brilla inavvertite voci d’alba
dai roghi che trascina
sepolti dentro il palmo –
e noi, il labbro che si spoglia
delle sue lune d’erba
e cresce parole senza seme,
aride di allucinata,
improvvisata vita
*
FRANCESCO MAROTTA
DA UN’ETERNITA’ PASSEGGERA
http://rebstein.files.wordpress.com/2009/05/francesco-marotta-da-uneternita-passeggera2.pdf
Da un’eternità passeggera è parte di un progetto di scrittura dal titolo Per soglie d’increato, ideato e realizzato tra il 1991 e il 2004. Dell’opera complessiva sono state finora pubblicate due sezioni in due distinti libri: Postludium. Al tempospazio di un sillabario serale (Verona, Anterem Edizioni, 2003) e Per soglie d’increato I (Bologna, Il Crocicchio, 2006). Da un’eternità passeggera raccoglie testi scritti tra il 1996 e il 2003. Può essere considerato il seguito ideale di Per soglie d’increato I, visto che i testi fanno parte della stessa sezione del progetto da cui è tratta l’opera edita.
Della silloge di Francesco “Da un’eternità passeggera”, ho scelto alcune liriche come chi coglie rose e si ferma a contemplare. La rosa e le sue spine (la scrittura), il sangue delle rose (“resine d’inchiostro”). La rosa, ma anche il giglio, insieme agli angeli, come nelle elegie di Duino, che ci dicono se non di noi, dell’eternità del momento, del nostro viaggio: “alberi” attraverso le stagioni della vita, Anche qui come in altre raccolte di Francesco (invito a leggere il post dedicato da Margherita su Vdbd http://viadellebelledonne.wordpress.com/2011/02/05/il-dono-di-eraclito-di-francesco-marotta/ ) una forma che segue il contrappunto malinconico di un’elegia e “fissa” la vita in uno squarcio di luce.
Abele
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Di fronte a questo modo di poetare mi inchino e imparo. Complimenti
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Grazie per la graditissima ospitalità, Abele. E grazie a Gianluca per la benevolenza.
Nel caso servisse, sono qui nei paraggi.
Un caro saluto.
fm
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🙂 Grazie di cuore, Francesco.
Come dice Gianluca, a cui do il benvenuto, mi inchino e imparo.
Abele
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Come al solito la sintesi del commento ispirato di Abele è perfetta, non solo nell’indicare «la rosa e le spine» ( “le rose aguzze” e il loro cercare accordi -anche di suono- “con la spina”),
a immagine piena di questa poesia
punta profondamente dalla scrittura che ne fa sciogliere e fluire il sangue (quelle “ lettere / tenaci d’onda” dove “ si descrive” “la parola ricordo che respira” “ / trapassando spine aspre”)
ma anche nell’evidenziare la forma elegiaca come «malinconico contrappunto» che « “fissa” la vita in uno squarcio di luce» (mi piace in particolare, a fronte di “un’eternità passeggera”, quel “fissa” messo efficacemente fra virgolette)
Aggiungo che più leggo la poesia di Francesco Marotta, più mi immergo nel trascinamento del fluire iridescente, raffinato e musicale dei suoi versi, sul quale le increspature rappresentano al lettore (tendono al lettore) i nodi esistenziali come offerte di senso (oserei dire votive, cioè come dono, sguardo, tensione auguranti),
o, detto altrimenti, e riprendendo la bella immagine di Abele delle nostre esistenze – “alberi” dentro lo scorrere del viaggio, come resistenze allo stesso appiattirsi e svanire delle e nelle onde,
resistenze d’alberi (dritti o storti) dentro le correnti che “in quel passaggio d’albe /dove il vento cifra /messaggi di marea “ , come detto in questi meravigliosi versi, ci fanno ” sposi infedeli della luna” .
Grazie davvero di questo post e della musica, nonché dell’immagine associata (tutti strepitosi)
(nel grazie comprendo anche riferimento al post su vdbd!)
un caro abbraccio a tutti quanti.
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francesco, abele, non dico altro, qui e da francesco…
roberto
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“Un’ eternità passeggera” la ritrovo soprattuttto in “incoerente rotta nell’azzurro” dove la vita e la morte si fondono in uno sguardo circonfuso di luce che tutto accoglie nella brevità del verso e nel suo inesorabile fluire in un barbaglio di sole. E’ poesia-filosofia che riflette sul senso dell’essere nostro con umiltà e vigore: è parola che rischiara.
GrazieFrancesco,
Rosaria
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Balena l’enigma da rotte incostanti, giorni vigili, occhi gonfi di mare, studiati labirinti vegetali; non stanca e non si stanca di richiamare all’esplorazione.
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Provo ad articolare una piccola riflesione su qualcuno degli innumerevoli spunti che riesco a cogliere nei vostri interventi – dei quali vi ringrazio, così come dell’attenzione che mi dedicate.
La sostanza ossimorica del titolo di questa sezione di “Per soglie d’increato” è, molto probabilmente un lascito eracliteo ormai talmente sedimentato in me da fare tutt’uno col mio rapporto complessivo con la scrittura; così come il “contrappunto naturalistico” del “movimento discensionale” che caratterizza tutti i testi affonda le sue radici in una lunghissima (di parecchi anni) frequentazione-meditazione su quello che per me è uno dei libri cardine della modernità, lo “Zibaldone” leopardiano.
Sulla possibile “natura elegiaca” di questo “movimento” – dall’astrazione pura alla “corporeità” dei “nomi” e delle “immagini” riferibili agli “enti” di volta in volta ri-chiamati (con-vocati, creati) dal trapasso della materia di forma in forma – non mi ero mai soffermato, e vi ringrazio per avermi offerto l’occasione per rifletterci. A me serviva, sostanzialmente, un rallentamento (o un raffreddamento) del magma poematico, e mi sembrava che scaraventare nel “lontano” e nel “vago” la “materia affiorante” potesse aiutarmi a tenere a bada (facendolo assorbire dall’”immagine di immagini” che veniva configurandosi) il “soggetto” con tutto il conseguente carico di “memorialità a fior di pelle” che, inevitabilmente, si trascina. Nel mio caso, una “infanzia contadina” che ha strutturato il mio immaginario su quelle “figure” – con relativa sedimentazione della loro carica simbolica – e non su altre.
L’esplorazione a cui la ricerca tende (o tendeva) è una “oltranza” – quella nei territori che si aprono allo sguardo quando si sporge a contemplare l’abisso che si apre sui “margini” della pagina: quello spazio dove il “pensiero”, con le sue categorie, ha “voce” solo e unicamente se si osserva negli specchi del suo divenire “altro”, del suo essere “riflesso” di ciò che, divenendo, contiene la sostanza e il senso, inafferrabili, dell’oscurità su cui si staglia.
fm
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Sono saltate un paio di virgole all’inizio del secondo capoverso, ma spero che il senso sia abbastanza chiaro lo stesso.
fm
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belle.
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Grazie, Mario.
fm
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Caro Francesco, tra le immagini che si intrecciano, tornano in nuovi sviluppi in un contrappunto rigoroso, come in un “rosario” laico, l’immagine della rosa mi ha riportato al mio vissuto, alla mia infanzia in un paesino del Salento. Non certo un’associazione automatica visto quanto la rosa a partire dagli stilnovisti “significa” nella nostra tradizione letteraria. Quest’associazione deriva dal fatto che le tue rose non sono mere figure simboliche ma costituiscono invece tutto un tessuto esistenziale, in cui la loro bellezza originaria è stata tradotta, con tutte le sue spine, in ciò che ora più si avvicina a quella luce, la (tua) poesia.
abele
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Sì, Abele, quando parlavo di “simbolico” intendevo esattamente quello che dici tu, al di là della ricezione del termine attraverso la lente della “tradizione”: uno “spazio interiore” dove il “vissuto” personale restituisce l’ordine esatto dei nostri passi con la sua lingua, la sua grammatica e il suo alfabeto – molto spesso contro ogni “intenzionalità” preordinata. E, forse, il “luogo della poesia” è tutto nel perimetro, interminato, che quell’alfabeto riesce, per un attimo, a visualizzare.
fm
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la bellezza è proprio nella non intenzionalità preordinata. è un linguaggio(per fortuna c’è chi ne ricerca uno, non limitandosi a fotografare la scena/oggetto)che si dilata su “l’oltre” con la chiarezza in viso. dalle radici attraverso le radici di un contorno a cui Francesco restituisce la voce primordiale senza prendere le distanze dal reale e qui il pregio (alberi sedotti e maree incantate sono delle perle.
[..]
nell’oro della sera –
in quei silenzi che
parlano di oscuro
quando la rosa che si osserva,
rabbrividita
nella luce assente,
costretta nell’acqua
stagnante del suo sguardo,
copula inavvertite albagie
di fiume, il suo diario
di amori appesi al cielo,
a strapiombo
sulle rapide dell’alba –
sento il fiore/dolore – non simbolismo per acuire (dice bene Abele). la rosa ch’è percorso: dalle costellazioni ai primi bagliori fin giù fra acque e terreni fertili dove germina Scrittura e Identità con la costante partecipazione della natura: [una parola/che di umano ha il rantolo/sgomento della luce/quando profonda/nelle rapide in secca/dell’autunno]
– la parola ricordo che respira, si descrive in lettere tenaci d’onda trapassando spine aspre,rovine aperte al gelo che dilegua per immutabile legge del risveglio
questa, la poesia di Francesco, e tanto altro che spero lasci il segno che merita.
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Caro Vincenzo, oggi il dilemma è proprio questo: spingere oltre i confini di una lingua, fino a far dire alle parole qualcosa di sé, ciò che nascondono all’insaputa dell’uso e degli abusi omologanti; oppure fotografare il dato, limitandosi ad enunciare una innocua volontà di cambiamento che, inevitabilmente, finisce per fare tutt’uno con le logiche che uno vorrebbe sovvertire. A quanto sembra, chi si muove nel solco della prima opzione praticamente non esiste…
Ciao, grazie di cuore per il tuo intervento.
fm
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un caro saluto ad Abele a cui dico grazie per aver ospitato Francesco con questa bellissima raccolta.
carissimo francesco approfitto per salutarti e abbracciarti con affetto
vincenzo
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Caro Vincenzo, ricambio saluti e abbraccio con grandissimo affetto.
fm
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Sempre continua a stupirmi nella tua poesia Francesco, l’uso di parole comuni al lessico della poesia che sono spinte in un vortice surrealista (appena ricordo come non esista in Italia nessuna forma di surrealismo) come all’infinito: l’effetto, nell’ottanta per cento dei casi,genera noia, accumulo. Nel tuo caso mai, e si viene spinti sempre avanti, attraverso la ripetizione del gorgo. Qui abita un segreto che ancora occorre vedere.
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Francesco Marotta riesce con forza carsica nel suo intento di “rallentare il magma poematico”. La sua poesia è focalizzata sul levare. L’universo è scavato all’osso, fino a fissarne in una sola immagine, e in una sola parola, la sua anima più intima e misteriosa. Gli alfabeti sono ricondotti all’armonia universale del silenzio. E’ “l’ arte che ci perdona del sapere”, che altimenti sarebbe dodecafonico e irriducibile ad unicum. Il rallentamento che opera FM non è tensione all’immobilismo, come “farfalle anestetizzate da più voraci spilli, ma un prossimo, lento declinare sullo stelo da liquide sapienze di mani”. Si può trovare conferma al valore maieutico della disarticolazione del verso e della metrica lungo una ricostruzione della parola poetica in tutta la sua primigenia potenza semantica. FM insomma è un maestro.
PVita
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sulla scia di tutte le verità qui emerse, mi lascio trascinare anche dalla metrica, cammino sulle note interne ai versi e sui loro bordi-pause come ascoltando, appunto, sottili sequenze sinfoniche (che Abele ha con sapienza messo come allusione in apertura) che dilatano il senso .così il viaggio della parola attraversa figure della natura e spazi del ricordo, ma non vi si ferma, continua a espandersi su altre invisibili corde
sul labbro
sente le sillabe
intrecciare favole di nebbia,
geografie di resina e
notti immaginarie
tradotte al guado di
lampade profonde: –
la lingua assorbe tempo
dai pori del respiro,
l’infanzia
fa cenni di luce
da cieli di rimpianto
e in questa sottrazione che addensa, è anche il pregio della tua ossimorica poesia, Francesco. una geometria che sento rispecchiare una tua serenità profonda, raggiunta facendoti largo tra le spine della vita, dell’ inquietudine domata negli anni.
annamaria
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Ringrazio Marco, Pasquale e Anna Maria per le loro generose considerazioni.
Sul “lessico” e la “disarticolazione” del verso.
Parto dal presupposto che le parole contengano molto “più” di quanto immediatamente richiamano, un fondo di “realtà irrivelata” refrattaria tanto alla norma quanto all’uso. Cerco, attraverso il mio “modus dicendi”, di avvicinarmi alla “radice prima” dove il suono si genera, cosciente che l’inoltrarsi sempre più in profondità equivale alla perdita, nel corso della discesa, della rassicurante armatura semantica della comunicazione. Ogni “parola”, per me, è un “abisso” tutto da esplorare, alla ricerca di un “alfabeto nuovo” che fa dell’inappartenenza la ragion d’essere della sua esistenza. Ho scelto (o sono stato scelto da) un certo (limitato) numero di parole, sempre riferibili all’ambiente naturale, semplicemente perché sono quelle intorno alle quali si è venuto costruendo, fin dalla prima infanzia, il mio immaginario, il mio “sguardo figurale” sulla vita.
La “disarticolazione” del verso ne è una conseguenza immediata: “spostare oltre” le pareti della gabbia metrico-sintattica canonizzata è un’operazione di “libertà”: ogni squarcio che si apre, lascia intravedere distese tutte da esplorare, dove lo “scarto” è sovrano, dove le coordinate dell’uso e della rappresentazione hanno senso solo se diventano tutt’uno con la visione che all’occhio si offre.
Grazie ancora a tutti.
fm
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sempre più ammirata dalla fluidità trascinante e visionaria di una poesia potente che sa andare oltre la parola e il senso lasciando vibrare nell’aria il suo liturgico suono…restando avvolta nel mistero.
Grazie, Francesco, per le tue illuminanti parole.
lucetta
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posso dire solo che ne sono affascinata e avvinta?
spero di sì, perché di fronte a tanto, sarebbe sempre poco il mio dire.
Francesco, tu comprendi, lo so.
grazie di farmi apprendere anche il tanto.
cristina
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Grazie, gentilissime signore. Un abbraccio ad entrambe dal cuore di una comune passione.
Un caro saluto a tutti.
fm
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Un grazie a tutti anche da parte mia e di nuovo a Francesco per la sua disponibilità e per le riflessioni illuminanti. Ne e’ nato un incontro grazie a cui, come dice Cristina, abbiamo imparato tanto. Il commento di Lucetta sintetizza e definisce magnificamente: “fluidità trascinante e visionaria di una poesia potente che sa andare oltre la parola e il senso lasciando vibrare nell’aria il suo liturgico suono…restando avvolta nel mistero.” Aggiungo che se di mistero si tratta, e’ il mistero dell’esistenza; un toccare con mano cio’ che per natura ci sfugge.
Abele
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Grazie a te, Abele. Di tutto.
fm
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