Bruno Clocchiatti: Führer

tetsuya ishida

Mi chiedo sempre che fine facciano i clienti di questo bar: si presentano una settimana, al massimo per due giorni, ordinano il solito – la seconda volta – e poi spariscono. La settimana seguente i clienti sono cambiati, nessuna traccia dei precedenti. E la settimana dopo altri clienti ancora, e per di più numerosi, che si assiepano contro il bancone per ordinare sempre il solito, il solito, il solito.
Il barista e la sua cameriera sono due tipetti svegli. Lei ricorda sempre le ordinazioni del giorno precedente, senza nemmeno prendere appunti. Lui conosce il mestiere: gestisce le mescite come un capocantiere col pelo sullo stomaco e la testa tetragona. Alle volte, accompagna persino gli ubriachi a casa. Una pasta d’uomo, se non fosse per il vizio di picchiare la moglie, non appena rincasato, con una spessa padella scrostata. Un colpo in testa, due sulla schiena, un paio sulle ginocchia e il lavoro è concluso. Quindi si fa la doccia e fuma un cubano sulla veranda. Da queste parti non fa mai freddo, e direi nemmeno molto caldo: lui indossa sempre un maglione, è il genere di persona che si veste solo per decoro, così come si conviene. Non gli pare il caso di uscire sulla veranda senza indumenti. Per queste cose, comunque, c’è sempre una prima volta.

La cameriera serve un nuovo cliente. Il tale non può ancora ordinare il solito perché è la prima volta che mette piede nel bar. Ha l’aspetto di uno scimmione romantico, di quelli che per un sorriso di donna o una parola gentile si travestono da king kong e portano le fanciulle in spalla sulle vette dei grattacieli. Un sentimentale, si direbbe, ma la cameriera lo tratta con la stessa dolcezza che spetta agli altri, me compreso. Lo chiama tesoro, lo scimmione impazzisce e rovescia un bicchiere d’acqua sul giornale sportivo. Si scusa con modi scimmieschi, lei dice che non fa niente: lo sport l’ha sempre detestato, meglio il ballo o la tombola in famiglia. Lui pensa che certe ragazze andrebbero sposate, lui sposerebbe la cameriera e presenterebbe ai suoi amici primati altre donne di tal fatta. Un matrimonio multiplo officiato dal parroco, solenne e dignitoso, con un’ottantina di invitati. “Che scherzi fa l’amore!”, si dice lo scimmione ammansito.
La cameriera, intanto, l’ha lasciato solo per servire alcuni clienti vecchi di due giorni: avevano ordinato del vino, oggi chiedono lo stesso. Il vino del giorno dopo, comunque, non è mai all’altezza di quello del giorno precedente. Constatarlo è tanto facile quanto inutile: nessuno frequenta quel bar per più di due volte nell’arco della propria vita. Dipenderà dal vino? Io non bevo da anni, ordino sempre caffè. E il caffè è lo stesso ogni giorno, ma quando lo prepara la cameriera ha il sapore di una crociera ai limiti estremi del cosmo. Un caffè strabiliante, le dico, e lei sorride con la stessa quantità di grazia che elargisce a tutti. Poi barista e cameriera dicono che si chiude, tutti a casa a dormire. Tranne loro due.
Io e lo scimmione ci salutiamo con un cenno affabile da conoscenti occasionali. Ho la certezza che domani sarà l’ultima volta che metterà piede in questo posto. Non lo biasimo, del resto: ormai fanno tutti così. E’ presto, mi concedo una visita al quartiere latino e abbordo la colf di un notaio fedifrago.

Il barista si trova nella stanza sul retro del locale. Ammira i clienti futuri, cerei e ancora imballati, come allievi da plasmare nelle sue mani esperte. Ne scarta un paio e chiede loro di provare a parlare: i clienti ammaestrati proferiscono poche parole incerte, lui li corregge e reimposta il loro accento. Fatica sprecata, non li fanno più i clienti di una volta. Chiude la porta della stanza sul retro, facendo uscire solo una decina di clienti meccanici. Domani servirà loro del vino, ma lui stesso ha l’impressione che, tempo due giorni, anche i clienti in poliuretano lo abbandoneranno. Razza di ingrati, non si molla così il proprio deus ex machina, l’artefice dei loro bei sogni disinnescati.
I clienti imballati aspettano con ansia il giorno – ormai prossimo – in cui un incendio doloso raderà al suolo la desolazione di questo postribolo. Fino ad allora, dormiranno sonni profondi.

La cameriera effettua la chiusura serale. Scontrino di riepilogo, lavastoviglie, bottiglie vuote, catene ed attrezzi di tortura. Riordinato il tutto, chiude le serrande e si dirige verso l’auto.
Nel bar deserto, intanto, una folla di clienti in poliuretano si incontra in incognito. Hanno formato una specie di società segreta degli ex avventori del locale. Sono in tanti, migliaia e migliaia. Pensano di sabotare il barista e tramano d’insidiare la cameriera, quell’algida strega che li ha legati in un fascio e stipati, a turno, nella stanza sul retro. C’è l’ipotesi di ammazzare i due porci, ma i clienti del vino non sanno come fare e quelli del caffè, amando il caffè del posto, non metterebbero mai in pratica dei propositi così bellicosi. I dibattiti non portano mai a nulla e, nella babele di lingue astruse parlate dai manichini, quasi tutti perdono il filo del discorso. Appena la comunicazione verbale si interrompe, ecco che inizia la baldoria.
Al momento dell’apertura mattutina, il barista trova sempre il locale in perfetto ordine: inodore, scintillante e luminoso come se fosse un nuovissimo ritrovo d’angeli. L’unico neo è rappresentato dalla plastica da imballaggio che copre sedie e bancone e svolazza sul pavimento. Il barista fa finta di nulla, pulisce la macchina del caffè e annusa le mutandine sporche della cameriera. Poi rimette le mutandine nella tasca del grembiule e sfoglia i giornali: troppi morti freschi, meno clienti potenziali.
A volte, mi capita ancora di ringraziare il barista per avermi dato la libertà. Capita sempre più di rado, anche perché il tale si è fatto più scontroso e scostante, non lesinando cinghiate e pugni ai clienti imballati. Un po’ li compatisco, sono stato uno di loro. Ora che sono libero, sono l’unico dei reduci che torni al bar ogni giorno. Leggo un libro, faccio le parole crociate, scambio due chiacchiere coi clienti occasionali e attendo che la cameriera, una vera sadica, disattivi il congegno che mi trattiene in un posto tanto sordido e tormentoso. “Questo è il prezzo dell’amore”, mi dice lei. Poi serve un altro cliente, e il tale ha tutto l’aspetto di uno che presto cadrà ai suoi piedi. Corsi e ricorsi storici, penso. Altri due giorni di squallido, infruttuoso corteggiamento per un povero illuso come tanti.

La società segreta si è sciolta la scorsa notte: finite le parole, gli automi hanno avvertito il vero senso della morte, così come descritto da chi di loro era stato catturato allo stato brado. La morte come silenzio, dunque, senza che il corpo venga nemmeno scalfito. La peggiore delle pene per chi è costretto a vivere per sempre, più a lungo del proprio demiurgo in carne, ossa e grembiule. Le parole, in un tempo così lungo, non possono che farti difetto, diventano un orpello svuotato e senza senso. Meglio tacere, piuttosto che dover descrivere uno spoglio stanzino bianco a chi nemmeno può comprendere il tuo esperanto. “Parliamo tutti una lingua diversa, è un problema”, ho concluso, ma il barista non si decide ancora a darmi retta.
Il locale, immacolato come mai prima – una specie d’architettura innaturale – dipinge negli occhi della mia truce cameriera uno sgangherato sentimento di nostalgia.

(Bruno Clocchiatti, agosto 2010, da “L’età soffice”)


8 risposte a "Bruno Clocchiatti: Führer"

  1. Una lettura magica, che insinua il sospetto (e la paura) che quella mostrata sia la realtà effettuale, una volta sfrondata dal contingente , dagli “accidenti” e lasciata nuda e cruda.

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  2. eh, occorre sempre diffidare del “perfetto ordine”. Il “barista” che ci orchestra “servendoci” di ogni ben di caffé o di alcolici (ce li fa pure servire da una cameriera zuccherina o distante dotata di natura)- Credo che il sospetto di Giancarlo sia ben fondato..
    per un effetto in toto straniante eppure così da confidente…

    un caro saluto

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  3. Surreale e convincente, trama che lancia svariati ami, capace di agganciare stati emozionali che non attendevano di emergere: estraneità, scandaglio robotizzato, distante con un pizzico di anestetico… eppure vigile.

    Bruno sempre bravissimo e unico. Ciao!

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  4. come spesso accade, il surreale è più reale del surreale.
    : )
    e d’altro canto, se l’artefice è anche l’artificiere (di bei sogni e di bisogni disinnescati) il non senso dell’esistenza umana appare più che mai palese. la narrazione avvolgente imballa i lettori futuri e presenti (in ballo anch’essi) risultando a tratti inquietante nel suo scomunicare distrattamente verità sub-liminali, ovvero quelle che più di tutte si prestano a soggettive interpretazioni. spesso allucinatorie. la storia stessa assume i contorni di un test di rosrchach in cui il disegno ambiguo della trama prova a liberare la mente dei lettori dalla dittatura della dettatura di una storia (vedi il “fuhrer”). quindi ringrazio il barista per avermi fatto pensare al – pesare il – fatto che sono fatto (di parole) e per avermi fatto leggere tra le righe quelle leggere sfumature da cui emerge il nostro mero ruolo di comparse sul palcoscenico quasi-sferico del globo terracqueo. usciamo dall’imballaggio uterino e siamo programmati (un po’ dalla genetica e un po’ dall’economia di mercato) a comportarci tutti più o meno nello stesso modo: io mangio e tu lo stesso, io sogno e tu lo stesso, io ipad e tu lo stesso, io vado di corpo e tu lo stesso. eppure – curioso no? – siamo convinti di parlare tutti una lingua diversa. poveri illusi… il cane abbaia, il cervo bramisce, la rana gracida, l’essere umano blatera ricamandosi addosso una storia con cui romanzarsi la vita. comunque lo rigiri, il verso più libero del mondo viaggia comunque secondo tale direzione (ovvero è diretto), anche quando crede di essere libero (difatti è costretto a tornare al bar ogni giorno). buffo come il finale, poi, calzi a pennello alle dinamiche un po’ kafkiane dei siti letterari nonché dei blog che furono, società segrete le cui parole finite restano spesso archiviate nel web come architetture innaturali, monumenti mummificati del bisogno che fu.
    a questo punto sorge spontanea la domanda: com’è che ordiniamo tutti lo stesso se tutti parliamo tutti una lingua diversa?
    :))
    grazie ad abele e a bruno per queste salvifiche boccate d’ossigeno in un oceanomare di poesia asfissiante
    🙂

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  5. Grazie, come d’uso, ai “mentori” Doris e Abele, sempre troppo buoni e ogni volta gentilmente presenti.
    Hanno ragione Malos, puntuale e oltremodo condivisibile, e Margherita insieme a Giancarlo, perché la “realtà della nuda realtà” è sempre un concetto scivoloso e, se si vuole, inquietante.
    Grazie a RM, ad Annnamaria e, di conseguenza, all’irrealtà.

    _” “Scappa con me”, disse Roseman quando arrivò il caffè.
    “Dove?”, chiese lei. Questo lo zittì”. _
    Thomas Pynchon

    Cheers,
    Bruno

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