C’è un legnetto, amore,
che rapido discendere sull’acqua vediamo
e non lo riacciuffa il bambino che la mano gli concede
né il nonno che ci gioca a trattenerlo col bastone.
Fa una corsa quel legnetto solitario
sfibrato dalle creste dei massi e dai corpi
acuminati incontrati sul cammino.
A volte il nostro viaggio promette
le stesse acrobazie di quel legnetto
retrocede quando la corrente non più lo sospinge
poi avanza se l’onda aumenta, più forte lo dirige
alla dimora nuova sul finire della valle.
Ora calmo è il legnetto e tranquillo riposa
è fermo come sul vetro un insetto
fino al prossimo vento, alla stagione pericolosa,
che spero, che aspetto.
*
a mio figlio
La neve ha smangiato pure gli spigoli
delle cime più alte, ha ricevuto
il bianco come una guancia spianata farebbe coi baci.
L’inverno custodisce fiori dentro i suoi nervi duri
a mille cresciuti in segreto nel grembo grezzo delle pietre madri:
ecco dove alloggia la vita in attesa della schiusa
e tu, Antonio, verrai
come viene il cinque febbraio la neve
così improbabile qui, tre volte in un secolo solo.
5 febbraio 2012
*
Posso vedere tutto
il dolore caricato sul bastone dell’uomo vecchio,
il vento insistere come un figlio che domanda
agitando nell’aria la vela delle ciglia.
Sì, posso vedere tutto
l’argento delle stelle sulla tovaglia che il cielo apparecchia
il torchio dell’estate che strizza
ai corpi tutta l’acqua
posso vedere tutto
l’inchino a sipario aperto del tuo viso in abbandono al sonno,
il ritorno dello scirocco che fa agitare le carene dei fianchi
vicine fino all’incastro,
le pale dei piedi che si inceppano ad intreccio.
Con te posso morire adesso
uscire nuovo come dopo lo sfoglio.
*
La cerniera della valigia è chiusa
dopo la pressione esercitata dei gomiti sopra
dentro hai ordinato con cura
la vestaglia bianca che il dottore ti ha comandato di portare
(ché il miracolo del parto vuole
il nitore degli angeli e della neve)
è le tutine 0/2 che a me sembrano finzione,
impossibili da indossare
e più in là a riempire un vuoto
calzini più corti di un dito
che faranno tutt’uno coi piedi.
La vita, amore, è un grembo ricco di fiori.
*
Penso a me
a quando più debole sarà il mio respiro
e non più stabili le mani e le ginocchia
frantumate di cammino.
Penso alle suole bruciate dall’asfalto,
le dita a sangue piagate dalle pietre,
le ciglia che più non godono la luce.
Penso al significato della pioggia
che nel suo cadere in pace vivifica,
alla madre che sacrifica il suo latte
quando un figlio muore.
Penso allo svanire della notte, al forte
mantenere il giorno nelle orbite,
al desiderio intero di lavare via la morte.
*
Vorrei saperti felice sempre, come adesso,
che capitomboli stanca sul letto e avvolgi
le mie guance con i palmi
vorrei vederti congiungere gli occhi e essere certo
che di là pure ti ameranno come io di qua
come il sole fa ogni giorno con i tuoi risvegli.
*
Al mattino mi esercito a tenere in equilibrio un piede
le gambe agito come in rotazione, sgrano le ginocchia,
evito le piaghe.
Ma oltre la finestra all’improvviso vedo
due abili uccellini per aria litigare
forse per la briciola rubata a una panchina o a un davanzale
poi un cane scaltro un osso trafugare
e con le unghie sue furiose sfilacciare
le radici esili a un fiore
e pure un uomo vedo
giovane genuflettersi e piangere
e su un letto di pietre affondare
i gomiti nudi, le rustiche
mani meridionali
mentre articola a fatica le parole
io sono poco, io sono poco, che per me è un invito.
*
Stanotte non riuscivo a flettere
nel letto la schiena inchiodata al materasso
il peso assoluto del tempo l’ha lesa, irrimediabilmente.
Mi ha commosso la premura con cui
rinunciando al silenzio magico del sonno
dal buio del cassetto hai estratto
la mia pomata.
Adesso il m dolore mano a mano smette
di percuotere il tamburo teso delle ossa
di sfibrare il mio corpo-cassa di paglia.
La tua compagnia, amore,
è la calma immobile di una foglia sull’erba
il palmo in mostra di un bambino che esige
il suo premio battendo i piedi per terra.
*
Sulla strada all’altezza di Fregene
due bambini provano a rincorrere il sole
che le punte dei pini di tanto in tanto fanno passare
nei loro moti di oscillazione.
Che gioia è l’aria che gli gonfia
addosso i vestitini, quel loro
ridere lieti senza sapere
il pericolo del buio
finché la luce c’è è più facile vedere
come il tempo modifichi l’aspetto delle cose
intorno la radura e più in là il paese
ma non i pini così alti e mai privi
di colore né i bambini
che si divertono a giocare sulle ginocchia del Signore.
*
Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste, fra cui ClanDestino, La Clessidra, Italian Poetry Review e Gradiva. È incluso nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta (Ladolfi, 2011, a cura di Matteo Fantuzzi, nota critica di Massimo Morasso). Ha pubblicato la silloge Pietra Lavica sulla rivista Poesia, introduzione di Maria Grazia Calandrone. Poesie della fame e della sete (Ladolfi, 2011, 2012, 2014, premio L’Aquila opera prima, finalista premi Beppe Manfredi e Penne) è il suo primo libro. Collabora con la rivista Atelier.
L’ha ribloggato su Parole nel Secchioe ha commentato:
c’è sempre un momento buono in queste poesie:
ed è ciò di cui c’è bisogno, tutti i giorni un po’.
Oggi un po’ di più!
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Poesie del pane e dell’acqua, che cercano di risolvere il problema della fame e della sete, poesie che si prendono cura delle cose della classicità quotidiana come pietre madri.
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