
Davide Cortese è un cantore isolano di Lipari, sul mare a nord della Sicilia, dunque poeta vulcanico, iridescente, sia detto subito, ma non soltanto puro istinto – anche se indubbiamente nato tale – in quanto anche estensore di una tesi di laurea intitolata “ Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”.
La passione per la sua terra-mare (madre) gli muove la mano, e lui non nasconde, nelle dediche, che essa sbocci sul robusto ceppo di un amore famigliare corrisposto.
BABYLON GUEST HOUSE (Libroitaliano 2004) per esempio, è una raccolta che incisivamente dà il polso del poeta: sentimento profuso, lussureggiante, con radici di ascendenza lorchiana quanto a ricchezza pulsionale e lessicale, un’infanzia incantata e rimpianta… una grazia botanica e fiorente che via via con qualche brusco scarto prende coscienza del dramma di esistere e si adorna (poiché il verso di Cortese è spesso ornato, e, come si diceva, con grazia) di ombre improvvisamente taglienti e oblique (“Sono il santo dei miei peccati”, “Blessing”, e “La locanda del dio blu”, quasi una ballata, segreto omaggio alla visionarietà di un Gustave Moreau attraverso le grandi epopee mitiche ed esoteriche, dove il fulgore immaginifico di Cortese tocca l’apice).
Così da un “noi beat”: “Dannatamente belli e innamorati./ Una canzone di fuoco sulle labbra./ Bruciamo di gioia sul mondo./ Pioviamo come stelle sulle strade./ Ruggiamo libertà, fieri come tigri” si trascorre ad una ninna nanna senza illusioni: “Succhia il latte della vita, bambino/ e sappi, che tu lo sappia, mio bimbo,/ che viene dal seno della Grande Madre,/ viene dal seno della morte”. Poi l’amore intimo: “Che l’amore ci canti, mia vita./ Noi siamo una bella canzone./ (…) Io e te siamo una bella canzone./ Se anche tu avessi sulla fronte/ una piccola cicatrice quando canti,/ una ruga,/ ah, noi saremmo una sola canzone. / E l’amore ci canterebbe, mia vita,/ con la sua voce più bella”. Ed una coscienza collettiva del poeta: “E’ vento di splendore rubato/ quello che sfiora le labbra dei miei poeti./ E’ vento di splendore,/ rubato ad astri che solo nei loro occhi brillano”. Ed ecco che dallo stupore del mondo fiorito e vegetale: “Un’albicocca./La fece rotolare piano/ fino alle mie mani,/ il folletto dell’erba,/ e disse:/ “Tieni. E’ un’albicocca” (…) si può trascolorare verso un io poetico incontentabile che incontra gli esseri (“Voleva che lo seguissi,/ ed io lo seguii./ Ma presto mi stancai/ della sua canzone”) o il vagabondo da leggenda paesana che troveremo nella silloge più recente MADREPERLA (LietoColle 2013) con prefazione di Dante Maffìa, che è “il vecchio Kid”: “Le farfalle che volano vicino al fiume/ si sono tramandate una canzone./ Una canzone che Kid cantò un giorno./ Una canzone bella e dolce./ La cantano ancora, loro,/ quando si levano in volo sul fiume”.
“Gothic City” e “Ancora io” virano alla ferita e al dolore, lambendone con tratti virili l’estetica, nel mito del sopravvivere agli attentati contro il sentimento nonché alla passione di lasciarne traccia in versi. Ne “L’andare”, nella precedente raccolta, il poeta aveva già tracciato la sua esigenza innocente di uomo libero nelle intenzioni d’amore: “Lasciami l’andare, arte struggente e mia./ Lasciami l’andare, / unica fede, sola promessa”. AGOSTINO RAFF