Enrico Marià poesie da "Cosa Resta"

Ricordo un paio di anni fa, quando lo lessi per la prima volta su Perigeion, scrissi di lui “minimalista o completamente anemico?”, si corre il rischio a una prima lettura di non compenetrare bene i lavori di un poeta. Bisogna tornarci su e leggerlo per bene, magari l’intera raccolta, approfondire. Ed ecco disvelarsi appieno il mondo poetico di Enrico Marià.

Qui un assaggio dalla sua ultima raccolta “Cosa Resta”  puntoacapo Editrice  2015

*

Il trucco è prolungare la permanenza.
Gli adottati sono soldi in meno;
le case famiglia risparmiano su tutto
cibo, vestiti, crescendo animali.
Simone meschino
per una gamba rotta
c’è rimasto zoppo.
Ai diciotto la strada
dove ogni cosa sa di fine;
non esisteremo che da morti,
cumuli di fango e neve
facciamo volume.
Nulla è muto
più della vita.

*

Pagato l’euro
danno sapone
un asciugamano
e quindici minuti
d’acqua calda.
Il tizio vicino a me piange;
questa la nostra parte nel mondo
in fila ai bagni pubblici,
prede che aspettano
di sporcare
col sangue la vita.

*

Lo provocavo diventando bersaglio.
Mia madre e Alessia zitte
che magari le pigli una volta di meno;
entrambe con i capelli
coprire gli ematomi
poi fondotinta,
correttore, trucchi.
Finito con me
quella era la scena:
lui su di loro
tramortite, scoparsele.
Fatico a guardare le donne,
immaginarle senza lividi;
cercami, dimmi che servo a qualcosa
tra l’abisso e il silenzio
l’amore nient’altro
risparmia la vita.

*

Nei varchi tra i capannoni
un sole monco
sputa schizzi di luce.
Il centro rifiuti
sta al Cipian
nella strada per il canile
dove una volta, per finta,
ci curavano i tossici.
Coperta la telecamera
cacciamo elettrodomestici
da vendere agli africani.
Odio i soldi che servono;
Barbara era caparra
per i debiti del padre
così ha perso la verginità;
prendilo in bocca
sussurravano;
anche l’amore
è cosa da ricchi,
scarti del mondo
non c’importa morire.

*

Venduta la fede
nella primavera dell’86
l’ufficiale giudiziario
minaccia mia madre
di tornare con le guardie.
All’indomani delle comunali
il contatore piombato
i rubinetti muti.
Rossa pelle dal grattarsi
non ci laviamo da giorni.
A scuola sono quello della puzza,
dentro avrò sempre nove anni;
nella dittatura della vita
morire un lusso
che non possiamo permetterci.

*

altro di Enrico Marià per gentile concessione dell’autore a neobar QUI…

 

Enrico Marià è nato nel 1977 a Novi Ligure (AL) dove risiede.
Ha pubblicato le raccolte: “Enrico Marià” (Annexia 2004); “Rivendicando disperatamente la vita” (Annexia 2006); “Precipita con me” (Editrice Zona 2007); “Fino a qui” (puntoacapo Editrice 2010 con prefazione di Luca Ariano, II ristampa); “Cosa resta” (puntoacapo Editrice 2015, prefazione di Mauro Ferrari). Nel 2013 è stato inserito nel censimento della giovane poesia italiana dai 20 ai 40 anni compilato da pordenonelegge. Nel 2016 invece è stato selezionato per “ Il Fiore della Poesia Italiana” opera in due tomi che scansiona la poesia italiana dalle origini a oggi. Suoi testi compaiono su riviste, antologie, siti web e blog alla stregua delle recensioni delle sue opere.


4 risposte a "Enrico Marià poesie da "Cosa Resta""

  1. Questa poesia mostra di conoscere e di partecipare al sottomondo oscuro, che è come l’inconscio della socialità, ed è più ampio e nero di quello che si pensa. La poesia trasforma la laconicità e l’afasia degli esclusi in una classicità quasi greca che sembra riemergere dal rimosso.

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  2. mi piace davvero molto: ha una potenza narrativa che buca la poesia per farsi “racconto di verso”, frammento animale e minimale, scritto con “telegrafia” nuda, se mi passate l’immagine, nel senso d’una struggente schiettezza del mezzo espressivo che rifugge gli effetti speciali per concentrarsi sul respiro più fisico e tangibile delle singole parole. prendiamo, ad esempio, “volume”, nella splendida chiusa della prima poesia, che mentre delinea lo spazio fisico del corpo morto, unitamente sorride amaro ruotando su zero la manopolina che regola l’audio della vita (esistiamo solo da morti e comunque solo per un attimo, come “notizia” da gridare sui media, giusto il tempo di un’audience). personalissimo dunque, il modo con cui l’autore scarnifica fino all’ossimoro l’urlo muto di disperazione delle prede prede-stinate, il modo in cui le ritrae indietro, sfumando i margini ma non la sostanza (si veda ad esempio il quasi-pudore lessicale con cui fa dire alle parole: “prendilo in bocca”, ma a bassa voce, tanto che “sussurravano”).
    insomma, in una società mercato che ci “cura per finta”, in cui la vita è per definizione un’irreparabile perdita umana, la poesia di Enrico Marià possiede una sincerità addirittura crudele nel fare a pezzi il sogno d’importazione americano e nel restituirci la dimensione della puzza, dello scarto, dei lividi e del sangue, perché, come scrisse PPP “i poveri sono reali, i ricchi irreali”…
    sì, insomma, non so se c’è ancora una speranza – il neoliberismo ha ampiamente dimostrato di essere in grado di “macellare il mondo/senza spargere sangue” – ma se c’è abita qui.

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  3. Enrico Marià con i suo versi cruenti e travolgenti induce a un silenzio interiore fatto d’intensità rare. Come viene facile accostare la parola bellezza allo scempio, grazie alla feroce pulizia che opera sulle scene descritte. Implacabile e tenero nell’onestà con cui scava a “parole nude” macerie e crudeltà. Incontrare i suoi versi significa non dimenticarli, sapere d’essere stati dove la Poesia ha posato lo sguardo.

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