Paolo Vincenti: Il Renzaccio monello e le variabili di percorso

IL RENZACCIO MONELLO E LE VARIABILI DI PERCORSO

La disfatta del Pd alle recenti elezioni politiche certo è frutto di una serie di errori la cui responsabilità è collettiva. Ma non si può negare che essa abbia prima di tutto un padre, che è Matteo Renzi da Firenze. La brama di potere, l’ubriacamento del successo, la smania di consenso, gli hanno fatto perdere la barra (non nel senso della giornalista supergnocca candidata col Pd in Basilicata, ma della misura). Avrebbe certo potuto lasciare la politica, almeno per un breve periodo, dopo lo schiaffone ricevuto dagli italiani al referendum costituzionale del dicembre 2016. Invece il Renzaccio monello ha deciso di continuare a stare al centro dell’attenzione, sia pure da una posizione un po’ meno esposta rispetto a quella del Premier, ma non certo meno importante. Anzi, come Segretario del Pd, ha continuato a tirare le file del teatro dei burattini che è la scena politica italiana. Forse per un attimo è balenata nella sua mente l’idea di mollare tutto e ritirarsi nel calduccio della vita privata. Ma solo per un attimo, quando quella famosa sera del post risultato elettorale e del post su Fb, dicembre 2016, ha rimboccato le coperte ai suoi figlioletti tornando a tarda notte a casa a Pontassieve. Ma già le prime luci dell’alba gli hanno infuso nuova baldanza; dopo che sono disparse le angosciose tenebre romane, i primi raggi di un bischero sole fiorentino lo hanno nuovamente ringalluzzito. Ha riposto i domestici lari, salutato la moglie e i frugoletti, ed è tornato di gran lena verso gli dei della patria. E dire che, se avesse tenuto fede alle promesse fatte agli elettori, e avesse lasciato le cariche, non avrebbe probabilmente dovuto attendere troppo, nel suo personale Aventino, prima di essere richiamato ad alti uffici. Perché il Partito Democratico, tirando aria di nuove elezioni, e mancando di un nome forte da proporre, avendo finito tutto l’olio per consacrare nuovi unti del Signore, avrebbe mandato i suoi emissari a cercarlo nel suo sdegnato ritiro. E il Matteo nazionale allora, scorciando senso del dovere e spirito di sacrificio, avrebbe certamente risposto alla chiamata e lasciato brioches e detersivi nella Coop di Pontassieve dove stava facendo la spesa, avrebbe dismesso Hogan e piumini Moncler e indossato il più inamidato ed elegante completo Armani e i più lucidi mocassini Sergio Rossi. Sarebbe salito sul primo jet presidenziale che lo attendeva in aeroporto e volato a Roma, non prima di aver salutato il borgo natio affacciato al suo finestrino, con un disarmante e sentito gesto dell’ombrello. Invece, niente di tutto questo. Renzi ha voluto giocarsela fino in fondo, trionfare o morire sul campo. Ha voluto continuare a fare il manovratore e ha fatto un patto con Berlusconi per confezionarsi una legge elettorale su misura. Peccato che nel frattempo il vento sia cambiato e quella stessa legge, parto del “Renzusconi”, li abbia penalizzati.  Inoltre, la gente si rendeva perfettamente conto che il Governo Gentiloni non fosse che una fotocopia di quello Renzi. Le inchieste giudiziarie hanno gettato ancora maggiore discredito su una classe dirigente pesantemente compromessa. Pensiamo all’inchiesta Consip e all’inchiesta su Eni e le tangenti milionarie, alle tre inchieste sul Sindaco di Milano Beppe Sala per l’affair Expo, a quella sul Presidente della Campania Vincenzo De Luca per voto di scambio, a quella a Roma per Mafia Capitale che vede coinvolti diversi esponenti locali del Pd, ecc. ecc. Oltre a questo, a portare il Pd alla terribile disfatta è stato lo scollamento fra il partito ed il Paese, come ormai unanimemente riconosciuto dagli analisti politici. La classe dirigente del partito è apparsa lontana dalla base sociale, dai suoi problemi, dalla sua disperazione. Ha fatto una politica di annunci e slides, false promesse che hanno irritato il Paese reale, quello che versa in condizioni critiche, con un tasso di disoccupazione giovanile vicino al 40% al Sud, con la paura fottuta della criminalità, con l’insofferenza nei confronti delle ondate massicce di immigrati che si sono riversati nelle nostre città. Il Job Act, spacciato per una misura altamente provvidenziale, quasi miracolistica, in realtà ha soltanto precarizzato il lavoro e non sono servite a risollevare il morale della gente le misure propagandistiche come gli 80 euro. Anzi è aumentato lo sconforto, il pessimismo, che ha portato gli elettori a dare forza ai partiti anti-sistema come Movimento Cinque Stelle e Lega Nord. Il Renzaccio ha voluto insistere con la sua politica elitaria, appannaggio di pochi, delle lobbies, ossia dei potentati che hanno appoggiato la sua ascesa, trascurando la classe media e soprattutto le classi sociali più basse alle quali del resto nemmeno la finta sinistra di Liberi e Uguali ha saputo fornire delle risposte adeguate. Così le variabili di percorso hanno portato il bischero Matteo alla rovinosa sconfitta del 4 marzo.

PAOLO VINCENTI


2 risposte a "Paolo Vincenti: Il Renzaccio monello e le variabili di percorso"

  1. sconfitta indubbiamente rovinosa, eppure è ancora lì, in prima serata a rinverdire deliri e sproloqui tra il narcisistico e lo sciamanico. eniuei, per il PD un ritorno alle urne immediato sarebbe un suicidio. quindi è probabile che il nostro eroe abbia in mente dell’altro e stia soprattutto lanciando nell’etere messaggi in codice. e visto che pure per il M5S un immediato ritorno alle urne sarebbe controproducente (vedasi elezioni FVG), se proprio non sarà un governo PD-M5S (cosa di cui ancora non sono certo) c’è sempre l’opzione “governo tecnico/del presidente” sostenuto in primis da PD e M5S che potrà portare l’Italia in fondo al baratro più agevolmente (Monti docet).

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