Stefano Montes: Scrivere sulla migrazione, fotografare un abbraccio

by Stefano Montes

Scrivere sulla migrazione, fotografare un abbraccio

Sono sul marciapiede, il Teatro Massimo alle spalle, le gambe allungate, incrociate davanti. Sono sereno, in lieve osservazione di ciò che succede sotto i miei occhi. Sono qui da un po’. Non partecipo, semmai osservo, in disparte, quasi invisibile, come vorrei essere a me stesso e agli altri. Il flusso di persone che mi scivola davanti mi rende più ricettivo, disteso e incline a scribacchiare qualcosa per rilassarmi, altresì propenso a scattare qualche foto per il piacere. Ho una matita, un quadernetto, una macchina fotografica. Cosa chiedo di meglio? Cosa vorrei di più? Il flusso calmo di persone mi rende ben disposto a pensare senza costrizioni di sorta, senza imposizione alcuna. Che bella fortuna, penso! Posso lasciarmi andare all’arena agentiva e cognitiva che mi compenetra. È tardi, c’è un bel movimento lento di persone per strada, l’atmosfera è favorevole a consentirmi di sgusciare dalla tana solita del mio Ego, per pensare a casaccio, come meglio credono i miei flussi accreditati di coscienza, nel disordine di quello che sento come un altrove nostrano non ingabbiato dalle usuali convenzioni accademiche. I pensieri volano, io li lascio volare. E via! Un pensiero torna e ritorna, da qualche giorno, nella mia mente. Nonostante io lo tenga a bada, si ripresenta di continuo: si ripresenta adesso, nuovamente. Qualche giorno fa sono infatti capitato per caso ai Quattro Canti di Palermo proprio mentre un artista di strada stava per terminare il suo lavoro su uno di quei grandi blocchi di cemento, squadrati e pesanti, che bloccano il passaggio alle auto nel centro di Palermo. In alto, sul blocco di cemento si legge killing tomatoes. Il fucile non è puntato sui pomodori ma su un ragazzo di colore, piegato in avanti, che riceve la pallottola in pieno dorso, alle spalle. Il riferimento è chiaro: un tragico avvenimento di cronaca. Si è formato, in pochi minuti, un denso capannello di spettatori: qualcuno ha espresso in silenzio il suo punto di vista favorevole sulla questione, qualche altro ha pure intervistato l’artista, io ho scattato diverse foto, mi sono tenuto in disparte. Ora, seduto sul marciapiede, ci ripenso ed esito. Ci torno su? La scrittura ha sovente una funzione catartica, può essere utile anche a me stesso, per liberarmene. Potrei scriverci, mostrare la foto scattata mentre l’artista era al lavoro, approfittarne per parlare di una corrente di antropologia che prediligo: quella dialogica. Non soltanto. Potrei parlare del valore dell’arte di strada in quanto forma di comunicazione culturale, resistenza e manifestazione di libertà espressiva; si tratterebbe, nondimeno, di discutere alcune frasi che ho ascoltato per caso, proferite, con mia indispettita sorpresa, da due individui che manifestavano il loro dissenso sul lavoro compiuto dall’artista di strada. Loro confabulavano fittamente, proprio accanto a me, alla mia sinistra; uno ha detto all’altro: “e se succedesse a noi, lui, l’artista di strada, farebbe la stessa cosa?”. Mi chiedo adesso a chi si riferiva, questo individuo, con un presupposto Noi? Io non ho nessuna inclinazione a includermi in questo Noi concepito dai due amici come omogeneo e compatto. Mi chiedo, infatti, perché parlare – come succede spesso – in termini di opposizione netta tra un Noi e un Loro ipotetici, idealizzati e scollati dalla più fluida realtà? Io propenderei, piuttosto, per posizionamenti smussati di appartenenza collettiva di individui che dovrebbero comunque sempre mettersi, per comprendere se stessi e gli altri, nella pelle dell’altro, vicino o lontano che sia. La categoria Noi/Loro viene invece utilizzata in molti casi in modo distorto e articolata, ingenuamente, per opposizioni rigide, non smussate da un pensiero sull’Altro che dovrebbe semmai essere fondato su un senso diffuso di solidarietà. Mi piace, qui, ricordare Ricœur. A proposito di traduzione linguistica – ma vale a mio parere per l’alterità e la categoria Noi/Loro nel suo complesso – Ricœur parlava di ospitalità “ove al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero” (Ricœur 2001: 50). Abitare e ricevere, ospitare e accogliere! Io sono seduto sul marciapiede, ho soltanto una matita in mano. Penso ad altri saggi importanti di Ricœur sul valore del dialogo interindividuale che sono stati, per me, forse persino più formativi delle pur belle formulazioni antropologiche. Penso al fatto che la migrazione, quella costretta e disperata, è il risultato di una serie di cause ed effetti sovente poco presenti nelle menti di tutti: la guerra, nella maggior parte dei casi, provoca piccole e grandi diaspore; la guerra è spesso il risultato dell’avidità e menefreghismo di coloro i quali fabbricano e vendono armi; l’Africa, continente da cui provengono molti migranti, è ancora sotto il controllo e l’ingerenza di paesi occidentali che ne sfruttano le risorse e si trasformano in soggetti produttori di nuove forme di necolonialismo; la diseguale distribuzione della ricchezza, non ultima, genera una povertà spaventosa che, oltre a essere eticamente ingiusta in sé, è spesso il risultato di manipolazioni mafiose internazionali e decisamente illegali. In una parola, la migrazione disperata alla quale assistiamo oggi non è che l’ultimo stadio di una serie di cause nefaste e manipolatorie – un vero e proprio sistema di sfruttamento, talvolta supportato dalle multinazionali mondiali – che dovremmo combattere sistematicamente a livello mondiale. Qualcuno ha detto che, più che aprire i porti, si dovrebbero aprire gli aeroporti: chi ha abbastanza soldi, infatti, non affronta certo il viaggio in mare per venire in Europa, su gommoni in cui rischia la vita. Sono del tutto d’accordo: oltre ad aprire gli aeroporti dovremmo però, in parallelo, riaprire – per riconcepirli – i flussi di una più equa distribuzione della ricchezza. Come ho già scritto in passato, non si tratta soltanto di aprire i porti per salvare coloro i quali rischiano la loro vita in mare; si tratta, soprattutto, di porre sotto l’attenzione del pubblico la vita di miseria che fanno i migranti una volta arrivati alla meno peggio in Italia, costretti a raccogliere pomodori per pochi soldi, sfruttati e persino uccisi. E quindi? Che fare? Certo, penso che dovremmo indossare le magliette rosse come forma di protesta. Penso che dovremmo continuare a fare arte di strada per manifestare contro le ingiustizie. Penso che dovremmo salvare quanti più possibili esseri umani in mare e mostrare la nostra solidarietà a chi rischia la vita in fuga da guerre e iniquità. Penso, ancora, che dovremmo smontare gli slogan, inutili e puramente propagandistici, di chi sta al governo adesso e chiude i porti (senza però dimenticare che anche il governo precedente non era da meno, con gli accordi presi per bloccare i ‘disperati’ nei centri di detenzione nordafricani). Insomma, penso che dovremmo essere contro, fermamente contro e protestare contro un sistema di iniquità. Penso tuttavia, più di tutto, che non dovremmo dimenticare che il problema va posto alla radice, quindi non soltanto negli effetti, nella migrazione disperata: la fabbricazione e la vendita di armi, le nuove forme di necolonialismo, l’egemonia americana e di poche altre grandi nazioni, l’assenza di solidarietà di gran parte della Comunità europea (e non solo dell’attuale governo italiano), etc. Io penso tutto questo e dico a me stesso che dovrei scriverci: vorrei farlo facendo esteso riferimento all’antropologia dialogica, a Paul Ricœur, alla semiotica della cultura di Lotman, all’esistenzialismo di A. Piette e M. Jackson. Penso che dovrei farlo, ma non me la sento stasera, con una semplice matita in mano e con la voglia di alleggerire il peso dell’essere che mi prende ora come non mai. Mi ripropongo di farlo a breve, magari in un intervento più articolato, meno mosso da emozioni e flussi di coscienza disordinati. E, mentre me lo ripropongo, penso che ero soprattutto venuto qui, in piazza, sul marciapiede antistante il Teatro Massimo, con un proposito di fondo: rilassarmi e riflettere magari sulla scrittura, sulla scrittura come forma di distrazione, come strumento per non pensare a niente in particolare ed essere altro da sé, al di fuori dalle costrizioni e imposizioni. E, così, mi chiedo: si può esserlo veramente? Si può effettivamente essere fuori dalle costrizioni e imposizioni, dall’utilitarismo spinto a oltranza, dall’urgenza di una società consumistica? Mentre i miei pensieri battono in ritirata davanti all’interrogazione, alcuni ragazzi si siedono proprio davanti a me, davanti alla mia mano rivolta in basso, con la matita tra le dita. Si abbracciano. E allora scatto la foto. Forse, rifletto, la scena a cui assisto vuole essere una risposta al mio senso di pesantezza e inadeguatezza, al mio eccesso di ponderazione: i due ragazzi si abbracciano e sono felici. E io penso di esserlo altrettanto, se non altro per un momento: quel momento che mi ha consentito di fissare la scena.

Killing Tomatoes

Una risposta a "Stefano Montes: Scrivere sulla migrazione, fotografare un abbraccio"

  1. Un grande grazie a Stefano Montes per averci concesso di pubblicare questo suo testo, che con l’acuta curiosità che caratterizza la sua scrittura e la sua ricerca ci apre su pensieri che sono di molti di noi in questi giorni. E dicendo “noi” dovrei fare attenzione! Come sostiene Stefano, infatti, “la categoria Noi/Loro viene utilizzata in molti casi in modo distorto e articolata, ingenuamente, per opposizioni rigide”. Il mio “noi” include chi guarda agli altri come a un’altra faccia di noi stessi, che crede nel dialogo, nell’intreccio di linguaggi, culture, in un reciproco avanzare insieme; l’essere parte del tutt’uno che è la vita. Ma questo “noi” che ho in mente esiste di fatto, o perlomeno nella maniera netta che vorrei? Tutto questo per dire che si sentono sempre più spesso frasi come: “e se succedesse a noi, lui, l’artista di strada, farebbe la stessa cosa?”, anche da persone care, persone che abbiamo sempre visto come parte di “noi”. Non vivendo in Italia, mi pone, credo, in una posizione privilegiata per quanto riguarda l’osservazione. La distanza allarga la prospettiva. E, con amarezza, qualche settimana fa, mi sono trovato a sentire dei discorsi tipo: “Sì, però Salvini ha anche ragione; non se ne può più degli immigrati.” La mia risposta è stata che i nemici sono un ristretto numero di multinazionali, appoggiati dalle banche, che controllano e condizionano i governi, di destra e di sinistra, in base ai loro interessi; prendersela con dei disperati che rischiano la loro vita per venire in Europa è una Guerra tra poveracci – siamo sempre stati un popolo di disperati anche “noi”, dovremmo capire anche per questo. Se vogliamo cambiare le cose bisogna innanzitutto individuare il nemico, le “zecche”, come le definisce Danilo Dolci, e il loro dio, e continuare a r-esitstere, ad essere umani.

    umano, dice l’uomo presuntuoso
    benevolo significando, mite
    compassionevole:

    e devasta muschiosi boschi
    sino alle intime fibre

    avvelena fiumi azzurri mari
    avvelena oceani
    stermina creature uniche,
    assassina per ornarsi della pelle altrui

    quando non scanna in furia, spinola i prigionieri
    da giorno a giorno fino al macello,
    troppo più nell’inchiavare abile
    che a orientarsi tra alitanti pollini

    incenerisce chi astrae e opera diversamente,

    incenerisce le iridi non uniformi,
    incenerisce il cielo

    l’aspersorio del Dio delle zecche
    benedice chi vince
    benedice
    i sommi parassiti

    Da Danilo Dolci, “Il Dio delle zecche”

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