Giuseppe Martella: Elaborazione del lutto, “Ex madre” di Francesca Del Moro

Elaborazione del lutto: Ex madre di Francesca Del Moro, Arcipelago Itaca, 2022

Il verso di Ex madre di Francesca Del Moro possiede l’asciuttezza, la perentorietà e la misura di quello di una tragedia greca della colpa o del destino: si pensi per esempio al Prometeo incatenato di Eschilo e all’Edipo re di Sofocle, che costituiscono i due maggiori archetipi del genere. A questa impressione contribuiscono anche i due splendidi disegni di Loredana Catania, che ne costituiscono il paratesto iconico, dove appaiono il volto assorto e composto, e le mani di una donna, giunte a forma di calice, che stringono un cuore divelto, bucato, ma ancora pulsante. Nella prima si trova anche la didascalia “chesuonoproduceuncuore”, dove l’assenza di spaziatura fra le parole suggerisce il movimento dal senso al suono, sottolineando il nesso elusivo fra immagine e musica nel testo poetico. I due disegni inseriti nel testo ci suggeriscono anche come l’immagine del cuore, ripetutamente evocata, costituisca la sineddoche del corpo sofferente messo a nudo sotto gli occhi di tutti. Sineddoche che raccoglie il tema fondante dell’intera tragedia: quello del rimorso dell’ex madre. Tale tema rimane per lo più implicito nel corso della vicenda, ma ne scandisce i tempi e le svolte.

In questo testo si tratta dello strazio di una madre cui è stato strappato il cuore dal gesto insano compiuto dal figlio contro sé stesso: il suicidio. Questo evento traumatico viene ripetutamente evocato nel corso della vicenda dalla madre orbata, talvolta anche con toni accusatori nei confronti di colui che si è tolto la vita. (39, 49, 84). Il tema del suicidio (sia come fatto che come tentazione) attraversa d’altronde l’intera produzione di Del Moro, almeno a partire da Gabbiani ipotetici (2013), dove campeggia la figura dell’amico poeta Massimiliano che si è tolto appunto la vita. E viene sublimato e variato poi in quello del martirio in La statura della Palma (2019), dove tredici protomartiri cristiane accettano serenamente la morte e quasi la impetrano dai loro carnefici.

Ex madre è la messa in scena di una elaborazione di lutto in piena regola, cioè di quel processo in cui l’io deve fare i conti col dolore per la perdita irreparabile dell’oggetto amato. E’ un processo che non si svolge mai in modo lineare e continuo, ma è soggetto a pause, digressioni e regressioni, proiezioni, introiezioni e allucinazioni dell’oggetto perduto, che assume anche tutta l’ambivalenza di odio e amore che strazia l’io poetico, che qui ospita il dialogo drammatico con un “tu” assente e ubiquo. Un processo che è anzitutto sottoposto al meccanismo della rimozione dei sensi di colpa e dei rimorsi inevitabilmente connessi con una perdita irreparabile, e tanto più quando si tratta di un figlio che si è tolto volontariamente la vita, contravvenendo a un patto implicito con chi gliela ha donata.

Il tema del rimorso costituisce dunque la spina dorsale del testo, insieme a quelli del dono (accettato o rifiutato) e del perdono reciproco tra ex madre e figlio mancante. Il conseguimento di tale perdono fungerà da garanzia della buona riuscita del lavoro del lutto, della reintegrazione poetica di un mondo andato in frantumi e svuotato di senso, e del trionfo della pulsione di vita su quella di morte. E’ un processo che si svolge sulla soglia fra la coscienza e l’inconscio, in una reverie surreale che avvolge tutti i dettagli realistici di cui è cosparso il testo. Ma è un processo espresso in tono spassionato, amichevole e coinvolgente, dove la misura metrica è l’espressione tangibile di quella etica, e la sobrietà ritmica e figurativa, l’espressione epigrammatica delle varie stazioni del processo, l’accurato montaggio dei piani sequenza dell’intreccio, costituiscono il risultato di un lungo esercizio di educazione est/etica di cui si possono rinvenire chiare tracce nelle opere precedenti della poeta.

Cercherò ora di dipanare alcune fila di questo percorso di espiazione, di questa laica via crucis della mater dolorosa, di cui c’era già un annuncio nell’opera precedente, La statura della palma, che ho prima menzionato.

C’è da sottolineare anzitutto che il rimorso e il rimosso sono legati a filo doppio nel testo, costituendone l’ordito che sostiene la trama dell’elaborazione del lutto, nell’ambivalenza costitutiva di eros e thanatos. La rimozione si profila dall’inizio alla fine come un meccanismo difensivo non solo di ordine psichico ma anche sociale: “non è colpa vostra, mi raccomando,/ non è colpa vostra.”(21) “Non è colpa tua,/ si affrettano a dire/ la polizia, i medici,/ gli amici, i familiari, rispondono alla domanda/ che non fai”.(92) E il rimorso appare qui nei morsi ripetuti in tutto il corpo (“mi dicono il tempo/ calmerà il dolore/ ma io non voglio/ perché il tempo che scorre/ lo allontana, lo trattengono/questi morsi in tutto il corpo, questi morsi sono ancora lui.” 29) secondo quella figura dell’iterazione che è caratteristica della poesia di Del Moro in generale.

Il lavoro del lutto si avvia a partire dal contenimento simultaneo di morte e di istinto di morte, nell’atto stesso della gestazione del figlio, nel gesto ieratico evocato nella prima lirica del testo: “Ho stretto l’urna contro il ventre,/ pesava pressappoco come allora./ Un figlio lo contieni sempre/ e ogni minuto io contengo,/ ogni minuto sento dentro/ mio figlio che muore, mio figlio che decide di morire.” (17) Si precisa con la focalizzazione sull’evento fatidico, dove luna piena e sole a picco appaiono già come immagini coniugate della madre e del figlio. E si sviluppa attraverso le ricorrenti crisi di disperazione, in cui la protagonista appare sottoposta al giudizio del figlio che prende le sembianze dell’angelo-occhio di stella che non la perde divista, o del dio-occhio di sole che la scortica: “Mi sono picchiata/ ho percosso le tempie/ coi palmi delle mani,/ premuto i pugni/ sugli zigomi, sbattuto/ la fronte alla parete.            Chissà se, ovunque sia,/ l’angelo, coi suoi angelici/ occhi, mi vede.” (31)  “Ora piango così/…Con il viso contorto/ rivolto verso il cielo/ a un dio che mi colpisce/ più forte ogni secondo. (52) Cui seguono tutta una serie di regressioni e tentazioni mortifere (46, 56, 70, 95-96) che conducono la protagonista a riconoscere l’intrinseca ambivalenza del desiderio (“non so quando ho cominciato/ ad affondare nei suoi occhi/…il mio corpo supplicava/ di sparire nel suo corpo”: 50) e a imparare a convivere dignitosamente con il dolore per la perdita: “Imparare a portare il lutto/ ora che il dolore non forza più/ i confini del corpo,/ che i morsi al cuore/ si sono allentati, che la rabbia è svanita,/ che il pianto è più dolce.” (67) Per pervenire infine a un primo esplicito esame di realtà (“mio figlio è morto/ morto/   Mille volte al giorno./   Morto”: 94), alla bonifica della memoria e alla messa in prospettiva dei ricordi (67, 69, 86, 99, 107, 108, 112), al conseguimento del perdono reciproco fra madre e figlio: “Ho attaccato un fiore/ accanto a lui, sulla parete./ Ho scelto, senza volere,/ proprio lo stesso colore/ del fiore del suo disegno/che tengo ancora appeso/al muro vicino al letto./ Nel nostro sonno così diverso,/ Così lontano ci avviciniamo:/ ciascuno dorme vegliato/ dal fiore donato dall’altro.” 60). Fino alla definitiva riuscita dell’esame di realtà, che consente il reinvestimento della libido e la ripresa della vita attraverso una più profonda ricognizione del dolore: “edema polmonare massivo/ si leggeva sul referto,/ edema polmonare massivo/ ripeto nella mente/ mentre saliamo in camera/ per fare l’amore, mi sforzo di non piangere.” (111) Una via crucis, punteggiata di squarci surreali a suffragare la dimensione semi-onirica in cui si svolge, e dall’interazione fantasmatica per cenni e gesti fra madre e figlio, che a volte assume caratteri archetipici. Sullo sfondo delle chiacchiere di circostanza, dei sorrisi, dei gesti e delle cure degli amici, come un coro di comparse che incarna l’ethos collettivo, che funge da scenario su cui si è consumato il “piccolo orrore privato”, l’immane tragedia dell’ex madre.

Giuseppe Martella


Una risposta a "Giuseppe Martella: Elaborazione del lutto, “Ex madre” di Francesca Del Moro"

  1. Mi è difficile, quasi impossibile commentare questi testi, nonostante i pensieri,i sentimenti e le emozioni che suscitano per il loro peso enorme e doloroso.
    Volevo però lasciare un segno della mia lettura osservando come questo macigno viene affrontato con uno sguardo fisso e un percorso lucido, che non cerca placebo, il titolo stesso trasporta un senso terribilmente tragico, che non viene evitato, ma guardato dritto negli occhi.

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