Mi rifugio nel forte rosso
dalla luce passiva che sovrasta la scuola coranica
investigandoci il male fin nei fregi e nelle colonne degli uffici
riflette un sutra di fumo e corde che accecano
sul digiuno di Sarasy l’assistente:
una sfida a dimorare nelle privazioni dei poveri
che si addensano lungo la camionabile
da qui ad Agra in un lungo dormitorio
e un solo sonno.
Io avevo ancora lo sguardo perso dove gli Ulama già vedevano un dono
che dalle acque su cui galleggiano i fiori risponde a chi le da voce:
“Nessun velo sul sari, girerei nuda per le strade del forte rosso se potessi”.
Quello vecchio che cade ha la mia età
e la barba tinta di rosso
sgrana il rosario di luci dei gasometri
al suo dio che invece non cade mai
sorride battendo col dito ad uncino
la seconda sura del Santo Corano.
Che leggo di sera
nell’Hilton più brutto del mondo:
“Le donne siano il vostro vestito e voi siate un vestito per loro.”
Indosso il paesaggio notturno del forte rosso
come fosse l’alfabeto di un talismano
che una Urì verrà all’alba a percuotere in sogno
per ricordarmi che qui la preghiera è meglio del sonno.
II
Foto G. Locarno –Sulawesi (Indonesia)
Mi piace studiare questa lingua è blu come la semplicità delle increspature sull’oceano
senza declinazioni e una grammatica essenziale di cerchi sull’acqua.
Uomo si dice Orang
e l’orango è un uomo dolente che si abbruttisce in questa foresta di mare
perché non sa che qui ciascun vocabolo nidifica nelle cose e ospita uno spirito mobile al vento.
col dono rituale di una stecca di sigarette e con un po’ di attenzione.
vedrò uno di questi spiriti librarsi
l’anima del defunto come fumo blu galleggerà verso il cielo
cavalcando il respiro dei bufali nell’attimo esatto
in cui la mannaia trancerà loro la gola al ritmo metallico degli xilofoni .
Me ne vado prima che il rantolo del contatto con la natura
diventi una vibrazione di sangue
che da una geometria a ciò che è senza forma.
Alle spalle si accascia col bufalo anche il mio novecento, le torri polverizzate
e i suoi labirinti di frasi flessibili che non ho ancora dismesso.
Attraverso qualcosa.
Il bambino è li
nel blu graffito sul sasso dell’ossario comune
raccoglie un teschio con le mani
e lo solleva sopra la testa.
Lo sospendo per sempre nel tempo
che dura il lampo di una foto.
Io, che come l’orango
conosco la paralisi che si annida al centro dell’inerzia
custodisco questa immagine
che ogni giorno mi rilascia il suo segreto.
III.
Foto G. Locarno – Ladak
Non avrei mai immaginato che proprio Leh fosse un nodo fondamentale
per la rete di comunicazioni di questa regione così gialla e priva di vegetazione.
Comunque la strada è franata , passano veicoli militari con le ruspe
Saranno giorni di ozio forzato su questo ammasso di argilla e di turchese
dove manca il fiato a camminare e l’indo è un fiume sporco color terra di siena.
Seduto su un sasso volgo lo sguardo verso le cime vuote delle montagne più basse
circondato dalle bandierine della preghiera che sventolano a beneficio di tutti gli esseri.
Sono in grado di annoiarmi ovunque dolcemente.
In queste circostanze nonna
penso a te
che hai attraversato tutto il novecento
e non hai mai visto il mare.
Dicevi che studiare è da “sciuri” non per noi
e poi il cortile con l’erba ruta
dello stesso colore giallo e il turchese delle donne di qui.
Ho conosciuto un monaco che è anche pittore.
La sua cella ha un letto di pietra e una ciotola
le pareti affumicate come la porziuncola
e una radiolina per raccogliere le onde del mondo.
La tua casa non era poi tanto diversa.
Mi corregge la postura vipassana
nella forma del respiro.
L’Asia e il cortile
spazzati via.
1986
Una risposta a "Giancarlo Locarno: Appunti per una poesia sull’Asia"
oh che meraviglia.
intanto bellissima l’idea degli “appunti” per una poesia. come una gestazione, embrioni di parole, sensazioni, immagini, pensieri in corso di sviluppo. ho visto le parole morulare, gastrulare e blastulare, poi abbozzare gli arti, gli organi (sono malato? qualche sostanza in rimanenza o in tracce, sniffata dal santone?)… affascinante la rinfusa di realtà esteriore ed interiore, che scorre a tratti torpida/torbida siccome il noto colore dell’Indo, a tratti ruscellante alla ricerca metrica di scorci di versi.
comunica un’intimità, ti lascia entrare nella stanza del poeta: la luce, i fogli (sono un nostalgico… rettifico), i cristalli liquidi increspati dalle prime onde, l’intreccio di pensieri che diventa storia…
vabbè, fratello, che aggiungere?
mi piace la passività con cui il tuo occhio “fotografico” registra la realtà (privo di filtri, aperto all’umano). lo sguardo perso è sintomo di grande sfarfallio di connessioni (“lavori in corso”, il network neuronale fa proprio quello che sa fare meglio: pesca pensieri con la rete) e infatti la vita nuda (di pirandelliana memoria) appare “nuda per le strade”… volere è potere, “se potessi” è se volessi…
: )
e volendo, “quello vecchio ha la mia età” già dice tutto (io sono vecchio? perché sembra più vecchio?) aprendo una voragine sul senso (con la preghiera si sogna, a ognuno il suo dio, a noi le comodità e a loro le privazioni, a ognuno il suo mondo e così via).
nella seconda sezione mi sento a casa (l’orango è mio fratello gemello e c’è pure una mannaja!!): è abitata dalle proprietà salvifiche delle parole… l’anima del defunto secondo me *è* la parola “fumo” (e blu, infatti, era il colore della lingua). e ti dirò di più: se tu fossi restato invece di scappare via, avesti visto uscire dalla gola recisa dei bufali una grandi quantità di parole “sangue”.
: )
ciò che simboleggiano il sacrificio del bufalo e il teschio ostentato dal bambino è l’essenza dell’animalità, la restituzione dell’umano all’ossario, alla sua condizione di semplice animale pensante….
nell’ultima sezione ti ritrovo seduto su un sasso a guardare lontano. ormai il ponte è gettato: la nonna, la donna, l’universalità dell’umanitudine è evidente (“lo stesso colore giallo”, la casa “non tanto diversa”) e il gesto di spazzare il cortile posto in chiusa, a doppio senso (“spazzare via” tanto i pensieri scomodi quanto il non senso di ciò che avevamo idealizzato ed ora tocchiamo con mano nella sua pochezza).
attraversiamo, attraversiamo il novecento, attraversiamo qualcosa. almeno finché non siamo passati dall’altra parte…
e in ogni caso, tra pochezza e grandezza spesso passa poco più del relativismo di un punto di vista diverso…
: ))
grazie di aver condiviso un momento lontano, ma, com’è evidente, importante.
abbraccio estivo sudaticcio, fratello!
oh che meraviglia.
intanto bellissima l’idea degli “appunti” per una poesia. come una gestazione, embrioni di parole, sensazioni, immagini, pensieri in corso di sviluppo. ho visto le parole morulare, gastrulare e blastulare, poi abbozzare gli arti, gli organi (sono malato? qualche sostanza in rimanenza o in tracce, sniffata dal santone?)… affascinante la rinfusa di realtà esteriore ed interiore, che scorre a tratti torpida/torbida siccome il noto colore dell’Indo, a tratti ruscellante alla ricerca metrica di scorci di versi.
comunica un’intimità, ti lascia entrare nella stanza del poeta: la luce, i fogli (sono un nostalgico… rettifico), i cristalli liquidi increspati dalle prime onde, l’intreccio di pensieri che diventa storia…
vabbè, fratello, che aggiungere?
mi piace la passività con cui il tuo occhio “fotografico” registra la realtà (privo di filtri, aperto all’umano). lo sguardo perso è sintomo di grande sfarfallio di connessioni (“lavori in corso”, il network neuronale fa proprio quello che sa fare meglio: pesca pensieri con la rete) e infatti la vita nuda (di pirandelliana memoria) appare “nuda per le strade”… volere è potere, “se potessi” è se volessi…
: )
e volendo, “quello vecchio ha la mia età” già dice tutto (io sono vecchio? perché sembra più vecchio?) aprendo una voragine sul senso (con la preghiera si sogna, a ognuno il suo dio, a noi le comodità e a loro le privazioni, a ognuno il suo mondo e così via).
nella seconda sezione mi sento a casa (l’orango è mio fratello gemello e c’è pure una mannaja!!): è abitata dalle proprietà salvifiche delle parole… l’anima del defunto secondo me *è* la parola “fumo” (e blu, infatti, era il colore della lingua). e ti dirò di più: se tu fossi restato invece di scappare via, avesti visto uscire dalla gola recisa dei bufali una grandi quantità di parole “sangue”.
: )
ciò che simboleggiano il sacrificio del bufalo e il teschio ostentato dal bambino è l’essenza dell’animalità, la restituzione dell’umano all’ossario, alla sua condizione di semplice animale pensante….
nell’ultima sezione ti ritrovo seduto su un sasso a guardare lontano. ormai il ponte è gettato: la nonna, la donna, l’universalità dell’umanitudine è evidente (“lo stesso colore giallo”, la casa “non tanto diversa”) e il gesto di spazzare il cortile posto in chiusa, a doppio senso (“spazzare via” tanto i pensieri scomodi quanto il non senso di ciò che avevamo idealizzato ed ora tocchiamo con mano nella sua pochezza).
attraversiamo, attraversiamo il novecento, attraversiamo qualcosa. almeno finché non siamo passati dall’altra parte…
e in ogni caso, tra pochezza e grandezza spesso passa poco più del relativismo di un punto di vista diverso…
: ))
grazie di aver condiviso un momento lontano, ma, com’è evidente, importante.
abbraccio estivo sudaticcio, fratello!
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