Patty Schneider: Circus

Mei Yee Lam

CIRCUS

Niente. Nevicava ancora.

Da “Ariel Jewelry” il campanello segnalò la mia presenza.  Entrai. Adocchiai la sedia e mi ci affossai senza nemmeno levare il mantello umido e pieno di fiocchi di neve.

– Sei tu? – Era  la voce di Tania proveniente dal retro bottega.

Arrivarono le prime clienti. 

Tania montava lapislazzuli su nuvole di intrecci d’oro e argento. Creava ultra-moderni soggetti astratti, così li chiamava lei perché richiamavano vagamente alla pittura di Picasso e altri, con acciaio o oro bianco. I miei preferiti erano i gioielli in stile antico, con oro rosa; erano stracarichi di perle preziose, zaffiri, anche rubini. Valevano un sacco di soldi.  Li vendevamo soprattutto alle clienti arabe di passaggio in città. Avevo gusti da principessa araba, difatti, non so come, ero riuscita a trovare i soldi per acquistarmi un magnifico girocollo in stile turco. Aveva le pietre rovinate ma non si notava se non a un occhio esperto.

– Lo sai che l’umanità sta completando il suo processo di evoluzione?  – Dissi a Tania tanto per conversare mentre mi controllavo le pellicine delle unghie.

– Chi te l’ha detto?  Frank?

– Sì, lo ha letto sul giornale. Dice che l’economia moderna e la democrazia non hanno futuro.  

– Per favore, potresti andare alla Posta?

Quello era il mio lavoro. Tania mi mandava a fare delle commissioni. Quando stavo troppo nel negozio, diceva che cominciavo a fissare le clienti in modo strano.

Come, in modo strano, le chiedevo. A me sembrava di guardarle in  modo del tutto normale. Forse era la stanchezza che mi trasformava la faccia e ogni tanto strabuzzavo gli occhi, lo so che lo faccio e mi viene una sorta di broncio.

In ogni caso ci stavo tre o quattro ore al giorno, ma nemmeno tutti i giorni. A volte andavo a trovare mia madre con cui ufficialmente vivevo ancora quando non stavo da Frank.

Mia madre era l’unica che mi aveva capito ai tempi in cui avevo mollato il liceo. A dire il vero non sarei nemmeno dovuta andarci ma l’avevo fatto sotto insistenza di mio padre che avrebbe pagato i miei studi. “La ragazza non ce la fa” diceva mia madre “E’ deboluccia, si ammala sempre”. “Che sciocchezze, sei tu che le metti in testa queste cose” le rispondeva mio padre, ogni occasione era buona per litigare. Per finire, avevo cominciato la scuola ma poi, mia madre aveva ragione, a parte che non mi piaceva nemmeno.

Frank ed io arrivavamo al Bar Jolly di mattina verso le undici. Un po’ più tardi, arrivava Fred. Salutava, si faceva riempire il primo boccale di birra da Giovanni e portando il suo panzone davanti alla finestra. In silenzio, godeva delle boccate piene e schiumose e osservava la gente frettolosa passare da un punto all’altro della piazza.

Difficilmente spiaccicava parola prima del pomeriggio. Diventava loquace solo verso sera, dopo diverse bevute. Allora diventava simpatico e faceva le imitazioni. La sua migliore era quella di Giovanni, il proprietario del bar.

Tutti i santi giorni arrivavano anche il Bigio, Fred e Barney. Erano come i brufoli perennemente stampati sulla faccia di Barney: non mancavano mai.

Del gruppo, io e Frank facevamo coppia ed ero anche l’unica che lavorava, se così si poteva definire.

Il giovedì mattina, sul retro del bar, arrivava il camion con la fornitura di bibite.

Io e Frank, seduti davanti alla grande vetrata, io sotto la lettera B e Frank sotto la lettera Y, seguivamo la conversazione audio. “Mettila qui, in quest’angolo.” Era il vocione di Giovanni. Gli autisti che mandava la Baracchi erano tutti stranieri, arrivati da poco. Non capivano una parola della nostra lingua e lui, ogni due o tre mesi, doveva spiegare da capo tutta la precisa logistica del suo deposito. “Com’è il tuo nome? T u o (ora Giovanni gli premeva l’indice sul petto scandendo le lettere) n o m e. “Ah…” rispondeva l’altro dopo un po’, “Janko Babić” “Bene, Gianni. Io vado d’accordo con tutti, serbi, polacchi, rumeni, albanesi. Capito Gianni? Non mi faccio problemi.  N o   p r o b l e m.” Io e Frank ci guardavamo. Era il momento della pacca sulla spalla seguita da una risata inter-etnica e l’altro che diceva: sì, sì.

– Vi faccio il cappuccino ragazzi – Giovanni spuntava come un fulmine dal retro. Frank diceva che era perché non si fidava di noi. Aveva sempre il sospetto che gli rubavamo qualcosa in sua assenza. Ma non noi. Semmai era il Bigio che però non lo faceva per cattiveria ma perché aveva sempre fame.

Frank era sempre assorto nella lettura del giornale. Quell’occupazione gli prendeva parecchio tempo perché poi per tutto il giorno ci informava sugli avvenimenti della giornata, dalle notizie estere, alla politica. Se glielo permettevamo, quasi mai, a dire il vero, faceva anche i suoi commenti sull’attualità internazionale.

– Bisogna saperla leggere la realtà. Voi siete ciechi. Ma peggio ancora, non si capisce se siete stati accecati oppure vi siete accecati da soli. – Aveva questo modo così di dire, non che ce l’avesse realmente con noi personalmente, è che eravamo rappresentanti in vitro di un campionario più vasto.

A volte mi chiedevo perché lo amavo, anzi, “se” lo amavo.

– Vado a lavorare, – dicevo a un certo punto prendendo il mio cappottino nero. Poi, sparivo.

Frank era mantenuto dai suoi genitori che gli pagavano l’affitto e mandavano dei soldi.

Il Bigio era stato un cuoco, prima. Ci raccontava che il mondo nelle cucine negli hotel di prestigio, nei grandi ristoranti, – lui aveva fatto la scuola alberghiera con i massimi voti, ci teneva a dirlo –  era il peggiore dei mondi possibili. Poi si era ammalato, aveva avuto un crollo nervoso. Si era accasciato nel bel mezzo della cucina nel bel mezzo di una cena importante per dei russi. Il suo cuore si era fermato per un po’ e ora percepiva un assegno di invalidità al 100 %.

Fred invece aveva trascorsi di droga e alcolismo. Aveva provato a lavorare ma non ce la faceva ad alzarsi tutte le mattine. Così, quelli dell’Ufficio del Lavoro gli avevano trovato un lavoro che iniziava alle ore 13 ma nemmeno così ce la faceva. Insomma, lavorare tutti i giorni, tutto il santo giorno, non è per tutti, diceva.

Una volta, al signore del gabbiotto che vendeva Kebab in fondo all’angolo gli chiesi a che ora si alzava la mattina.

Lui disse che cominciava alle 5 per preparare tutto perché già alle otto arrivavano i primi ragazzi del liceo e poi così, avanti per tutto il giorno, fino alle otto, nove, dieci di sera. La moglie lo aiutava. Tanta stima, veramente.

Finito di lavorare, tornavo al bar. Frank era sempre lì. Ordinavamo due toast lisci.

Fred e Barney stavano nell’altra sala a giocare a bigliardo. Passavano così i pomeriggi. Li chiamavamo Fred e Barney non perché assomigliassero al cartone animato ma perché Barney era praticamente l’ombra di Fred. Fred era pieno di tic, a guardarlo ti veniva il nervoso veramente e trattava male Barney. Era sempre in disoccupazione, in cerca di lavoro. L’ufficio del lavoro gli trovava qualcosa: in fabbrica, magazziniere, stava lì qualche giorno e poi litigava con qualcuno, minacciava di far saltare tutti in aria e così lo cacciavano. Era il suo metodo, studiato come un copione, ci diceva e schiacciava l’occhio ma siccome era pieno di tic finiva che gli schiacciava tutti e due.

Un giorno alla settimana lo doveva passare al centro psico-sociale, il suo parco-femmine, così ci diceva, e portava al bar ex tossicodipendenti, anoressiche, alcolizzate. In quei casi Barney si staccava da Fred e si attaccava a Frank. Barney aveva l’adulazione incorporata. “Frank, tu sei il migliore”, “suoni la chitarra da dio”, “anch’io preferisco la birra scura” Mentre con Fred preferiva quella chiara. Così passavano le ore, ma ripetere le battute di otto episodi di Guerre Stellari mentre io mi rosicchiavo le unghie, insomma. Avrei potuto mettermi anch’io fare le battute con loro tanto oramai pur non avendo visto gli episodi 4, 5, 6, 7, 8 era come se avessi passato tutta le mie ore libere a non fare altro che guardare Star Wars.

Il Bigio era alla sua ennesima birra. Mi stupiva di lui sempre quel fatto. Non era un bel ragazzo, nell’insieme, eppure aveva dei bei particolari. Anzi erano bellissimi. Una bocca carnosa disegnata meravigliosamente, delle spalle larghe, braccia muscolose il giusto.  Bellissimi piedi. Una volta eravamo andati al fiume insieme. Eppure era brutto. Aveva le gambe corte e i capelli erano dritti e sempre unti e gli occhi li aveva infossati, cerchiati da profonde occhiaie.

Un giorno, Giovanni ci informò che l’indomani sarebbe arrivata una nuova cameriera ad aiutarlo. Disse che si chiamava Caterina e che veniva dalla Sicilia.

– Mi raccomando, sono amico di sua zia. – non aveva bisogno di aggiungere altro, Giovanni lanciò un’occhiata minacciosa verso Fred.

  •  

Quando Io e Frank arrivammo il giorno dopo al bar, Caterina era già all’opera. Spolverava, puliva, brillantava tutto. Un eccesso di zelo che, così di mattina, un po’ ci indisponeva.

Facemmo finta di essere amicali, io e Frank, per farle capire che non eravamo freddi e forse esagerammo un po’ con i convenevoli. Veniva da Gela, Sicilia. Era bassina, un po’ rotondetta sui fianchi, viso grazioso. “I miei avevano una pasticceria ma hanno dovuto chiudere per via della crisi”, ci disse con quella palata larga tipica.

Io e Frank annuivamo presi da un nostro senso di empatia mista a sensi di colpa. Il fatto di essere nati in un Paese ricco po’ ci imbarazzava e a Frank pareva giusto attaccare con una filippica sulla politica, Adam Smith e Marx, la Merkel e i greci, gli italiani e quant’altro che la poverella dovette subire io, dopo un “vado a lavorare”, sgusciai via e l’aria fuori si era appesantita.

Passò un mese circa e nei primi di gennaio le strade erano vuole. Molti erano via, in montagna oppure ai tropici approfittando delle vacanze scolastiche.

La neve cadeva a fiocchi larghi e io, da dentro il bar, attraverso il vetro, guardavo in su il cielo grigio. Da piccola mi piaceva immaginare di essere dentro un ascensore e mentre i fiocchi cadevano i miei pensieri salivano. Salivano verso il confine della stratosfera e mi sentito realmente galleggiare nello spazio. Avrei incontrato Dio? Era poi lì che stava?  “Di che colore è la pelle di Dio? È nera rossa, gialla, bruna bianca perché: lui ci vede uguali davanti a sé”. Così mi facevano cantare negli scout.

– È nera rossa bruna bianca perché, lui ci vede uguali davanti a sé. – Intonai a Frank che era da un po’ che mi fissava.

– Ma Lui, chi? – mi chiese.

– Dio.

– Figuriamoci, il Grande Capitalista.

Si avvicinò Bigio. Stava finendo la birra e propose:

– Andiamo fuori a giocare a palla di neve?

Mi prese l’allegria, misi il cappotto, i guanti e il cappello e corsi fuori.

Vennero pure Fred e Barney e anche la cameriera.  La grossa fontana spenta faceva da divisoria del campo. Ci abbassavamo a raccogliere la neve, l’allisciavamo per bene con i guanti, ci alzavamo, prendevamo la mira e colpivamo. Miravamo alle spalle ma non sempre. Ogni tanto ci colpivamo tra compagni dello stesso schieramento soprattutto il Bigio si fiondava sulla siciliana, mentre Barney era in quel momento la mia ombra ben attento a sfiorami distrattamente il culo.

Il nostro gioco infantile venne interrotto da un’ambulanza che sfrecciò nella piazza e si fermò proprio davanti al nostro bar.

“Qualcuno sta male!” Urlò Frank e ci precipitammo come potevamo correre sulla neve, in modo rallentato.

I soccorritori avevano già portato la barella e in due erano sopra Giovanni.

-Si è accasciato in terra, così. Stava chiacchierando con noi quando ha cominciato a barcollare e poi ¬è crollato. – Ci raccontarono incredule due signore che stavano bevendo il caffè.

Lo portarono via. Al pomeriggio venne la moglie per chiudere il bar.

– Glielo teniamo aperto noi, signora, fino a quando Giovanni non starà meglio. – Qualcuno di noi le disse.

– Ne avrà per un bel po’ – ci rispose. Aveva già preparato un cartone con sopra una scritta da mano tremante: “Chiuso per lutto”.

– Bisognerà andare al funerale – disse il Bigio e si passò una mano tra i capelli unti.

– Vado a casa, – disse Frank.

– Anch’io, – dissi – vado da mia madre –  e guardai Frank uscire.

Tre giorni dopo ci ritrovammo al funerale di Giovanni. La moglie era molto cattolica e si vedeva che aveva pagato bene il prete che non la finiva più. Fecero sentire le canzoni preferite di Giovanni, tre o quattro. Canzoni dei tempi di mia nonna, ma che portavano quella leggerezza quella fiducia nel futuro e nell’amore che un po’ mi commossi. Anche gli altri. Avevamo perso un amico.

Aveva ripreso a nevicare nel cimitero. Salutammo la vedova e ci dicevamo tutti “Ci vediamo, ciao!”.

Ma non avevamo più un progetto, un luogo. Giovanni aveva portato via con sé un pezzetto di ciascuno di noi, della nostra adolescenza, della nostra noia confortante che ci scusava sempre e che aveva improvvisamente accelerato il tempo.

Non rividi più nessuno da quella volta. Sentii solo un paio di volte Frank per telefono. Poi, più niente.


3 risposte a "Patty Schneider: Circus"

  1. ah, ecco, beh… menomale: dopo gli ultimi post, pensavo che Neobar stesse “reinventandosi” come fanzine di cantautorato d’epoca…
    : )))
    viceversa, ormai spaesato e disilluso, passo di qua per caso e chettitrovo? addirittura un RACCONTO IN CARNE E PROSSA nel covo abitualmente super-gettonato dai soliti poeti!
    : )
    il passo della narrazione è ben congegnato, quasi vonnegutiano nel senso che ad ogni personaggio viene democraticamente concessa una sua manciata di parole (ovvero un suo spessore umano), cosa che rende più verace e tridimensionale il tutto.
    stona posticcia, invece, l’assenza di supporti tecnologici: si parla di “Merkel e i greci”, ergo la storia deve collocarsi nel tempo dopo il 2009, epoca in cui iPhone e cellulari già dominavano incontrastati la comunicazione e la (dis)socialità umana. mmmm… dove sono finiti?
    il senso di “sconfitta” che aleggia tra le righe, prende corpo e si compie con la scomparsa di Giovanni (non a caso, unico nome “antico” del lotto) quando la morte della comunicazione intesa come contenuto (le umanità che abitano il bar sono già *alienate*, nel senso più marxista/marxiano del termine, ovvero incarnano la condizione del proletariato nella società capitalista), viene amplificato dalla morte del luogo di socializzazione (il bar, per definizione, lo è, mentre, en passant, il web e gli ipermercati, nelle loro svariate declinazioni commerciali, per loro intrinseca natura e funzione NON LO SONO).
    quindi racconto perfettamente centrato, ottimo sia nella trama apparente che nel disegno ordito “sottotraccia”: ohi, nelle ultime due righe, scarne e impietose, il “circus” si chiude in ogni senso…
    vieppiù, segnalo il disprezzo coraggiosamente urticante per il *Lavoro* (su cui si “fonderebbe” la nostra costituzione che è sociale e socialista, prima ancora che democratica e anti-liberista), Lavoro personificato dal “signore del gabbiotto che vendeva Kebab” (manco c’ha un nome!) che tutto il santo giorno si fa il culo per *sopravvivere*… razza di sbruffone! tutta ‘sta pantomima faticosa solo per umiliare il povero Frank-mantenuto, il tragico Bigio-troppo-disabile e l’ex-tossico-Fred-dannatamente-affaticabile… ke stronzi ‘sti ke babbari stakanovisti…
    : )
    peraltro, volendo, i vari componenti della fauna da bar del racconto (che hanno perso “la fiducia nel futuro” ancor più che “un amico”) avrebbero tutti un lavoro capace di garantirgli soldi e successo: Frank come segretario di partito, Bigio come attore di film porno per feticisti podofili e Fred come critico d’arte ferrarese.
    un unico ultimo dubbio cruccioso mi ronza però per la testa: davvero sono i “fannulloni/bamboccioni” di padoaschioppana memoria a essere così falliti/inetti/viziati da non voler lavorare o il problema è invece quello che deflazione salariare e azzeramento di tutele/diritti esigono che oggigiorno il lavoratore-merce-schiavo-sottopagato aneli come unica vocazione al martirio?
    chissà…

    occhio alcuni refusi e/o inceppi: “li chiamava (…) perché richiamavano (…) alla” lo modificherei sostituendo “richiamavano (…) alla” con “evocavano (…) la” (così si evita l’inelegante reiterazione del chiamare e l’inceppo di “alla” senza mente); “e portando il suo panzone” (o togli “e” mettendo una virgola, o tieni “e” e allora è “portava” ); “che gli rubavamo qualcosa” (conbuonapacediCalvino, ci stamperei un “rubassimo”, sarà che non sono abbastanza moderno); “Così passavano le ore, ma ripetere le battute” (direi “a” vs “ma”, a meno che non mi sfugga qualcosa): “palata larga” vs “parlata larga”

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  2. Un buon racconto, che gira come un meccanismo a orologeria, a me sembra ambientato negli anni 80, al tempo del “riflusso” (al di là dei richiami cronologici fuorvianti) come si diceva allora, il ripiegamento nel privato dopo gli anni 70 di impegno e contestazione. Persone non più così giovani e non ancora adulte, godono ancora di pochi privilegi, avrebbero potuto essere dei barboni ma si salvano forse perché come accennato sono “nati in un paese ricco” a differenza del kebabbaro e della siciliana.
    Una fase intermedia prima del crollo, dopo la marcia dei quarantamila, nel giro di un decennio li aspetterà (almeno in Italia, non so valutare la nuance svizzera) una vita da cococo senza ferie ne tutela in caso di malattia, leggono ancora il giornale, poi avranno i social. Forse si salva solo la protagonista che alla fine ha visto la noia e credo non abbia perso il treno della realtà nel tempo accelerato. Gli altri non sono più niente.
    La fine della comunicazione con la fine del bar la qualifica come rituale e inautentica, altrimenti gli (pseudo) amici avrebbero scelto un altro bar se la cosa principale fosse la comunicazione, ma il riflusso è così.

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  3. grazie di cuore per i vostri interessanti e preziosi commenti. auguro ogni bene e tante belle cose a tutti gli avventori del sito e in particolare un grazie di cuore a Abele Longo che ci ospita.

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