Angelo Restaino, Estate metafisica (Qudu libri 2023)
Può una silloge poetica avvincere? La domanda sembra peregrina solo perché questo verbo avventuroso sembra ormai riservato alle forme narrative in prosa, se non allo storytelling multimediale. Eppure, questa Estate metafisica di Angelo Restaino riesce nella non comune impresa di avvincere il lettore dall’inizio alla fine. Lo fa non grazie a una qualche trama o colpi di scena comunemente intesi, ma in virtù della propria dianoia, cioè di quel pensiero poetico che secondo Northrop Frye è il proprium di generi quali la saggistica e, appunto, la lirica. La scrittura di Restaino è prodiga di intuizioni e ragionamenti che, lungi dal rifugiarsi nel reame separato di una sapienza altera, zampillano dall’analisi incessante, fenomenologica, di sé e del proprio rapporto con il circostante.[…]
[…]Restaino, che è dottore in paleografia, ha conoscenza profonda di ciò che trasfigura descrivendo – la trasfigurazione appare anzi motivata e non soltanto estrosa proprio in virtù della familiarità pregressa. Ma quali sono i temi attraversati dall’autore? Riassumerli è difficile, proprio perché la ricchezza e varietà dei suoi attraversamenti imporrebbero analisi di testi o versi singoli che, per motivi di spazio, non è possibile includere qui. L’incertezza epistemologica del reale appare tuttavia come una delle direttrici fondamentali. Non sorprende allora il ricorso, a mo’ di correlativo oggettivo, a un’estate onirica e talvolta minacciosa, dai risvolti metafisici, appunto, in cui il reale viene spinto più in là o fratturato da dentro…[…]
Testi scelti da ‘Estate metafisica’
Dalla sezione ‘Canti del buio lungo’
L’alfiere mi ha buttato giù dal letto
per la corsa, le preghiere
all’alba a lume di candela
e certe grandi manovre
che coinvolgono il tuo corpo.
Battere al mattino i talloni
sul selciato per scaldarsi
soffiandosi nei pugni
è un segnale per attirare
le fate, ma non te l’ho detto.
Ho un patto di sangue con il cielo:
mi fanno ciambellano
mi dicono scegliti il regno
sarà tua legge e religione, dice
fin dove ti arriva lo sguardo.
Ogni giorno quindi fa più freddo.
La terra si allontana storta dalla stella
e i raggi cadono radi, e di taglio;
più lungo lo stagnare nell’ombra
il cui fronte avanza compatto.
Ci addormenta e accende poche luci
la stella appena collassata in sonno
al suo stesso passaggio, una in ogni cupa,
e più fioca la voce in ogni gola.
Passi di gelo, che portano all’arena
dove sul ciglio tra notte e giorno
sempre battagliano Sesso e Sonno,
nascosti gelosi da una coltre
di nuvole pesanti. Allora intirizzisce
la staffetta che ci tiene vivi
i nomi tra paese e pieve e borgo
per tutto quanto il giro di colline,
per assicurarci che fuori esiste il mondo.
Si alza il richiamo di un uccello raro,
saluta il postino e poi si estingue.
Senza quella bicicletta,
quei fischi ritmati nel mattino
che dicono – le strade sono agibili –
saremmo regni indipendenti
quasi certamente ostili e ignari
chiusi nel pentacolo dell’isoglossa,
civiltà autonome fiorite
tra le natiche nebbiose dei monti.
In quel solco di fiume seccato
russiamo nella neve, preda di visioni;
mentre progettiamo un letargo
con il necessario raccoglimento
e nella speranza di un raccolto
ci sentiamo lievitare come pane –
mentre il messaggero del giorno
spettro di un’era molto precedente
brucia una firma in cielo e poi scompare.
Dalla sezione ‘Estate metafisica’
Deve pur essere stato fondato
un monoteismo in cerchi nel grano
officiato dal grande Cancelliere
del Tavoliere, che è l’autorità
che sovrintende al germinante crescere
di questi piani gialli e dondolanti,
dove rotoliamo evitando i margini
oltre e sotto cui ringhia lo spazio.
Essere coscienti della bugia
dell’eccessiva luce, che allo zenit
scatena un massimo d’oscurità:
scintilla l’ombra con cui condivide
la scena, e si disperano i cortei
della malaria, vola un anatema.
Ma c’è un patto che prevede una mesa
promessa, e non escludo sacrifici
di bambini allevati dai briganti,
come oblati all’Ordine della mala
ventura. Ecco il va’ e parti con le greggi,
puntando ai quadri d’oro che riflettono
una cascata rituale di vassalli,
dove fatti pascià si transumava.
Qui non volendo ci si trasumana.
Se ne saranno perse le scritture
(quello che resta è una leggenda nomade)
ma vedo piste dove si flettevano
all’atto del decollo le preghiere;
avverto ancora l’urto dello scoppio,
mi riformulo l’attimo di vuoto
dentro cui brilla sempre senza suono
il nume adriatico del non ritorno.
dalla sezione ‘Gli archeologi’
Prima ricognizione dopo
La forma di ogni città è dettata
da uno sconquasso della terra
(e non c’è niente di più antico,
leggo, della forma della terra):
io ci cammino sopra, all’indomani
di un disastro, di cui conto i pezzi.
La strada che scende dal fortino
ortogonale alla linea del mare
senza un dubbio né un tornante
ripete il solco di un vallone,
già palude e discarica di cocci
abitate da rospi nel Duecento.
Lo diresti che il curvone dell’emporio
è obbligato da una frana del Triassico?
Dieci metri sotto il culo del merciaio
sta un ripostiglio di fossili glaciali
(lui lo sa, gli tiene il baricentro sulla sedia).
Il disastro di cui parlo è l’essenza stessa
dei miei giorni, e conferisce senso
al nostro stare rabbiosi ragionando,
è dolore collettivo, seppur mal ripartito.
Mi ritrovo dov’era l’oratorio,
su uno sperone che chiamiamo peschio,
e che ora è abbandonato; mi rivolto
a contemplarlo e pare proprio un cranio.
Dovendo chiamare sciagura amore
principiante in un mondo devastato
ruoto lenti occhi all’orizzonte, pratico
un elogio metodico delle macerie.
Mi avventuro nell’orrido già carsico
che da secoli unisce il monte al mare,
poi mattonato a tunnel dal re buono,
– nero-sole buio-bianco brucia gli occhi,
mi dà un istante di traveggole –
e sbuco a valle, dove doveva esserci
un approdo sassoso, ora un parcheggio.
Passa una ragazza che mi fissa
e sussurra tra sé, penso una bestemmia.
La ripeto e la penso mia sorella.
***
Sullo sterro
Confabuliamo seduti senza viso,
le teste convergenti, reclinate
come fanno in coorte i cherubini,
evitando di incrociare i nostri sguardi.
Se avessimo valige da scambiare
saremmo spie in mezzo alla folla.
Da ore confrontiamo i nostri calcoli:
restituiscono afasica la curva
del pensiero lungo l’asse tempo
da cui sembra dipendere ogni cosa:
nei picchi eravamo certamente vivi,
negli abissi eccoci cattivi – o dormivamo,
o peggio, fingevamo di esser morti.
Doniamo al nero il modellino
del nostro corpo, con tutti gli organi
al loro posto, fatti di rovine:
colonne, fondazioni, plinti e capitelli,
architravi spezzate, soglie
dove restano tracce di incendi
da datare. Resti di passioni, supponiamo.
Non sapremmo dire cosa siamo;
se interrogati, proviamo a cavarcela
computando in amori il nostro tempo.
Chi passa qui ci addita dalla strada
e poi sussurra: ecco gli archeologi.
Ci guardiamo, la cosa ci diverte.
Vedendoci trafficare sul cratere,
è un’accettabile approssimazione.
***
Michela fa un monologo
“Il primo che mi percula becchina
le prende”, s’infervorava scherzando
Michela e ci chiamava dallo scavo
giubilante, tenendo un cranio in mano.
Attorno tre monete, una lucerna.
Fingeva fosse un suo caro antenato
– cosa non impossibile, d’altronde –
e gli parlava con profondo affetto.
Parlava col vocione, improvvisando
un pezzo di bravura, mentre gli altri
fermavano le pale e la guardavano.
“Essere o essere stati, è davvero
lo stesso? e tu sei uomo o sei una donna?”
(cerca il bacino ma non ce n’è traccia)
“Non riesco a ricordare quante volte
ti ho fatto cavalluccio tra le braccia,
i racconti che ho udito dalla voce
di quest’essere vissuto mi giungono
disturbati da interferenze radio.
Esiste tutto quello che è passato?
Tutto quello che non si vede più
sta concentrato dentro un punto immobile
che era, e chiameremo verità
o è solo proiezione del cervello?”
Non l’avevo mai vista così bella,
i ricci una corona di sudore.
Tace, posa con cura quella testa
e se ne va, chiede se un’altra birra
è avanzata nella valigia frigo.
(Michela mentre beve sa benissimo
che dopo tutto questo amore che la
tormenta e che coincide con la vita
serve un baleno che infiltri le ossa,
l’angolo di luce buono a rifarci
il trucco per quando ci troveranno –
leggerezza è il suo nome diafano.
Ci plasmeranno piogge torrenziali
se avremo l’accortezza di dormire,
i venti contrari che respiravano
gli unici possibili confessori,
i nostri confratelli dinosauri.
Ci saremo riavvolti come nastri,
fino a poter incubare un inizio.
Se non ci parlano saremo muti.
Risplenderemo d’un bianco di neve –
– avremo il cranio passato da fori,
come per una fuga di pensieri.)
***
Angelo Restaino è nato a Salerno nel 1982. Ha vissuto a Catania e a Pescara, ora vive a Roma. Vorrebbe vivere in molti altri posti, a Siena, per esempio. In ciascuno di questi luoghi, comunque, e in altri ancora, costantemente risiede, avendoci lasciato una porzione di cuore. Di mestiere paleografo e archivista, dopo vari anni da freelance – in cui si è dedicato anche all’associazionismo professionale – lavora al momento all’Archivio di Stato di Roma e all’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle Biblioteche Italiane. Ha esordito in versi nel 2021 con la raccolta Contrada dello Zodiaco per Fallone Editore. Nel 2023 si è classificato primo alla IX edizione del Premio Terra di Virgilio. Segnalato ai premi Lucini nel 2020 e Giorgi nel 2021, suoi testi sono comparsi nelle riviste Poeti e Poesia e Le voci della luna, nel volume collettivo Distanze Obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo, 2021) e online su Poesia ultracontemporanea, La morte per acqua, Atelier, Il Multiperso, La poesia e lo spirito. Nel 2023 la sua silloge inedita Estate metafisica, vincitrice del Premio Renato Giorgi, è stata pubblicata da Qudu Libri. Ha insegnato paleografia latina per diversi anni e pubblicato anche alcuni articoli scientifici nel suo campo di studio e di lavoro, e collaborato alla redazione di cataloghi di manoscritti; ma meno di quanto avrebbe dovuto, perché gli costa molta, molta fatica.
