ANTONIO SAGREDO: CANTI SENILI OVVERO DELLA SENILITA’

Jan Matejko
         


La poesia di Antonio Sagredo, sempre più fuori dai canoni, tanto pura quanto “contaminata”, continua imperterrita, autoreferenziandosi, per la sua strada: “Questa non è poesia e ha i denti cariati come le metafore,/ e non insiste sulla parola rimata, e non ama l’ellissi.” Qui si misura dichiaratamente con la senilità e si fa perciò, ancor di più, requiem, incensandosi “con la cenere dei morti”. Importa comprenderla a fondo? “Compresi dal silenzio delle armi/ il clamore di tutte le battaglie”. Si legge, in fondo, come musica, di suoni e squilli, echi e richiami, sfuggendo nella metrica, a differenza del vate Carmelo Bene, al melodramma, ma non nelle atmosfere: “Ti sarai liberato dal tuo silenzio alla seconda campana/ e da quelle voci di un coro che presagivi esangui”? O forse rimane essenzialmente pittura barocca, di volte e cupole affrescate, voluta perdita di controllo, abbandono, chiaroscuri di deserti, teschi e santi eremeti, ampolle stillanti liquidi fisiologici?
Abele Longo


Risposte a “Poesie inedite di Antonio Sagredo": l’anacronismo e l’alterità marcano un punto di enorme vantaggio della poesia sagrediana rispetto a quella dei poeti che scrivono alla maniera della poesia valetudinaria di oggi.
Giorgio Linguaglossa


CANTI SENILI OVVERO DELLA SENILITA’
(14 febbraio al 1° marzo 2024)

Antonio Sagredo
1 


Ma dov’era lo splendore delle armille
quando aspettavo il lutto sulla soglia?
I cardini lubrificavo con la cenere dei morti,
con monete di rame le mie visioni.

E perché non toccherò mai più i tuoi confini - mi dissi -
che più dei greci ho nel sangue una tragedia antica.

Compresi dal silenzio delle armi
il clamore di tutte le battaglie.

Dove dovrò cantare dopo la mia morte?
E dove, dove cantare dopo la vita?
Non ci resta che fingere un futuro nello specchio
e compresi nel silenzio delle armi
il clamore di tutte le battaglie.

Sono solo con le mie note e i loro suoni
E prima delle notti e dei suoni sono prima di me stesso
E ancor prima nemmeno il suono del senso d’ogni cosa
E il suo contrario.
E’ quel che mi resta, e non è un delirio,

La Notte è fonda all’ora terza.



Antonio Sagredo
Roma, 14 febbraio 2024


2

Non avevi che un giuramento da offrirmi allo specchio
quando devota eri al pianto più degli occhi per finzione
e la carne per viltà mi hai nascosto in contumacia
ché avevi nel ricordo il mio rancore nudo fino alle radici.



Ed era una finzione quel rancore, il ricatto di una carne evanescente
che m’hai preso per condurla sulla scena a piedi scalzi, e con labbra
umide e contati passi hai recitato per una platea vuota.
Le poltrone sono rosse per gli applausi caduti in prescrizione.


Il crollo delle quinte una deflagrazione, come negli spasimi dei gesti
sentiamo gli spari e i tormenti delle voci, le fitte di una sgomenta letania.
E quella preghiera di splendori torturati, un cedimento, come il tonfo
di un suono mozartiano, e poi ci lasciamo dietro un algido… fragore!


Antonio Sagredo
Roma, 15 febbraio 2024


3

Ti sarai liberato dal tuo silenzio alla seconda campana
e da quelle voci di un coro che presagivi esangui,
hai salutato sinistri requiem con un candido lenzuolo.
L’ombra di uno spettro sbigottito hai esonerato.


Ti sei liberato sotto una campana dalla seconda lingua,
da una ossessa prigione per ritrovare i tragitti natali.
Sereno hai potuto ricordare le antiche dimore,
lo spirito di una perduta confidenza e gli intimi echi.


Ti sei liberato dalla speranza di una segreta certezza,
con fiducia hai compreso il respiro di una capinera,
con serenità hai reclamato i tuoi passi invisibili
che il tragitto hanno disegnato come un arco trionfale.


Antonio Sagredo
16 febbraio 2024


4

Non hai sopportato la mia pazienza e il mio benestare
il candore avvitato del mio pensiero sul Monte Calvo.
Il sentiero reclamava i miei passi per una campana
e batteva sulla mia tempia come un delirio d’altri tempi.



Hai ereditato il mio furore, hai scordato la mia semplice parola.
Hai esonerato dal piano la pura nota avvilita e stonata senza colpa
e pure la sua vita era accorata come una patetica sinfonia.
Triste è il cristallino cieco della lacrima.



Ho scordato di dirti che non avevi ragione, ma lo steccato
della tua casa è coperto di neve e non vale la pena di levarla.
Questa non è poesia e ha i denti cariati come le metafore,
e non insiste sulla parola rimata, e non ama l’ellissi.



Antonio Sagredo
18 febbraio 2024



5

Uno steccato di violini e intorno fagotti nella neve
e una melodia farsi strada tra rivoli gelidi e nerastri.
Non un fanale, pesto come un occhio, per dirti: abbi pietà di me!
Il sangue scivolava via come un serpente a sonagli.


Per gli occhi appannati da un ofido morso il suono
del veleno ha squillato sei volte all’ora sesta,
e vinto ero da quel piano che torturavo per il diluvio delle dita.
Gli altari della ragione sono impazziti per una gioia celtica.


Ho visto la tua pelle di ginestra farsi viola dal diniego,
per i fuochi di Beltane si sono spenti gli arcobaleni.
L’oro dei folletti brillava sotto la neve annerita.


Ed era nera come un occhio pesto la mia voce.
Ci vedremo a fine ottobre per una nuova danza.


Antonio Sagredo
20 febbraio 2024




6
teatro ebbro ovvero finzione?



La maschera autunnale era avvilita come una tragedia in atto
quando le poltrone incanutite tradivano il copione già inattuale.
La viola piangeva sui misfatti del do diesis minore,
il controfagotto per sentirmi doppio nell’unità delle note.



Dal loggione le parole venivano giù invertite per il trionfo
del grottesco, per la metafora che lacrimava a dirotto sul palco.
Ma le dame, come due secoli fa, smaniavano per l’attesa di un gesto
e per un applauso disatteso, come una condanna recidiva.


Per una serpe nel cieco brusio del salice rosso si era immolata.
Come un attore di provincia non aveva altro da dire che cantare.
Il bardo stenografo imitava il poeta nel singhiozzo straniato.
Non Desdemona, ma Eleusina elogiava il mistero del digiuno erogeno.


Antonio Sagredo
Roma, 22 febbraio 2024


7

Scendevo come Osiris per i gradini di una realtà effimera,
risorto ero dalle sabbie aurifere e l’occhio lercio dei tramonti.
Nelle acque il volto e le mani verdastri, e il cammino crespo
al canto dei giunchi, e nelle maschere i trucchi e le finzioni.


Con la corona bianca sul trono le letanie dei riti e dei linguaggi
erano il sangue delle destinazioni. Nelle mani cantavano i presagi.
Non erano il cuore e gli intestini i testimoni di una vita trascorsa,
ma un pretesto per ghermire nelle coppe l’immortalità della carne.


Nei calici i morti si specchiano per vanità, e per farsi belli
devoti alla resurrezione col belletto iniziano le danze.
Le candele brillano di ombre, le ceneri lustrano le misericordie.
Il corteo è unto d’ametista, di celestina tremolante e untuosa.


Il banchetto delle divinazioni annunciano predizioni e oracoli
ed io non so la differenza e la serena intesa per pregare.
Devo risalire i gradini, mi aspettano gli altari e le concrete realtà, le invocazioni, le suppliche per completare l’opera.


Antonio Sagredo
Roma, 24\25 febbraio 2024


8

a una donna amata a teatro


Non avevi che un giuramento notturno e disatteso da offrirmi,
la tua carne non per viltà mi hai donato sguarnita di ossa.
Tu giochi agli astragali con la parola inizio sul patibolo
e non hai mai condannato i misfatti recidivi dei tuoi sogni.


Nel veleno dei colori immergi i pennelli e il sangue è acceso.
A un falò s’incontrarono due Pizie fatali del secolo trascorso.
Hanno parlato di una biblioteca in fiamme, i loro lumi cantavano
vittoria, ma tu imploravi un amplesso finale nel sacro oratorio.


Puoi dirti felice se i tuoi occhi maturano a maggio come il pioppo
nero. Non avrai che una radice da coltivare fino all’ultima foglia.
Dirai che la promessa di un seme è una resurrezione amata
e dimenticherai allora i tormenti della crescita irreversibile.


Il palco era stravolto per i passi recitati da gesti dinoccolati
e con voce malvagia hai recitato un penoso canovaccio.
Non hai scritto nemmeno un dialogo improvvisato ad arte,
ma hanno snaturato il nostro sesso i roghi e le streghe.


Antonio Sagredo
Roma, 27 febbraio 2024


9

prima di un finale


Se la nobile accidia nel pensiero cantato è una divina zavorra
Farinelli dietro le quinte senza cura imita il raglio dell’asino
e lo sguardo del gufo. Sotto il fango correndo si sgola
e nell’empia e turpe notte genera un eco casto e inaudito.



Beato e in visibilio il volto intonava un te deum scellerato
prima del conclave dei demoni. Si accucciava umile come uno squillante accattone che in falsetto accordava note tenebrose. La sua eccelsa gola scartava suoni sconcertati come l’ottava.



E conduceva in tripudio lo stendardo di una ragione atea
che fin dall’infanzia gli fu negata. I ceri accese sui triviali altari
per scongiurare la bestemmia di una sgraziata vita
e per mutare l’accidioso accento in magnifico torpore.



Antonio Sagredo
Roma, 28 febbraio 2024


10
Caos o Ordine ?

Si domandava il bardo nel giardino accademico come decifrare
in numeri i gemiti del Caos e con quali fandonie sciogliere l’intrico
della materia oscura immaginaria. Vi era dell’acqua malsana
nella fontana, come un groviglio di nodi per svelare la fissione atomica.

E quale volto avesse la diceria del Caos e dove fosse il suo occhio basedowico nessuno lo sapeva. Simulava segnali per suggerire un vuoto
e incarnare l’infinito. Svelare il fittizio intreccio di quel viluppo di confini chimerici, quel parlare saggio di universi per tradurre in ciarla i realia.

Le menzogne dell’Ordine babelico nei finti cardini di una teoria stramba scivolavano via come la morena sfatta di un ghiacciaio putrido.
Non cancellavano le formule eleganti di eiπ = −1 e di eiπ+1=0,
ma clamoroso era il retaggio arcaico di misteriosi ragionamenti.

Le finzioni dei numeri armonici erano le ciance di informi teorie narrate da una compagnia di druidi in gramaglie. Alticci parrucchini coi cristalli sbirciavano i confini non osservabili di stremate litanie galattiche. Intonavano sugli altari della conoscenza note deformi senza suono

con ugole artefatte i cantori innaturali del disfacimento. La Nemesi
si era offerta al divino come una cariatide posticcia. La rovina era completa. Piangeva il bardo che non commise errori se non intenzionali, ma sublime rosicchiava come una zoccola i portali di scoperta. Adieu!


Antonio Sagredo
Roma, 29\02-01\03 2024

5 risposte a "ANTONIO SAGREDO: CANTI SENILI OVVERO DELLA SENILITA’"

  1. Lettera di Manuel M. Forega ad Antonio Sagredo sui “Canti senili ovvero della Senilità”

    Caro:

    He leído por fin tus Canti. Esto me sugieren, después de haber meditado un par de tardes frente a los textos:

    Escribir es ocupar un espacio en el tiempo, afirmación que serviría para cualquier ejercicio escritural sin excepción (o para cualquier disciplina activa). Sin embargo, se revela con más evidencia en la lectura de Canti senili ovvero della senilitá como definición preventiva de esta entrega de un poema que se enlaza, como le gustaría decir a Borges, al poema del mundo, a la poesía universal entendida como la escritura permanente de un libro infinito, escritura ad eternum que viaja según su naturaleza y en su naturaleza misma (habría dicho Valéry) y sigue ocupando espacio, sigue proyectándose en el tiempo. Canti  senili ovvero della senilitá, además, sigue ocupándose del espacio y sigue ocupándose del tiempo. ¿Y si ese espacio es la escritura misma, un espacio en el que se desenvuelve la sintaxis de una lengua dada, la morfología de una combinatoria en la que el léxico abstrae su semántica? ¿Y si ese tiempo es el cuerpo, la bios del cuerpo, de un cuerpo inequívocamente matérico, concreto, arrojado al camino de su fatum escatológico o a la conclusión final de la búsqueda de su onthos que lo completa mediante la siempre contingente semántica del poema? Canti  senili  ovvero della senilitá es la continuación de un largo libro que se proyecta al futuro apoyándose en los precedentes: en toda la obra sagrediana precedente.

    Desde luego abunda en una semántica finalista, escatológica en su significación clásica; sin embargo, todo este profuso léxico no es más que un señuelo, un conjunto de grandes metonimias cuyo papel en los Canti es su representación como actantes estéticos para conformar una de las partes esenciales de la materialidad general del poema frente al envés de la misma hoja escrita constituido por lo intangible. Jaime Gil de Biedma defendía que el acto poético sólo tenía lugar cuando el poema era leído; hasta entonces no había nada, el poema no era tal, no existía. Una interpretación provisional de esta propuesta nos presenta los dos lados de un hecho estético: el de la idea en su forma larvada (la eventualidad de la escritura —para nadie—) y el del imago perfecto (la lectura potencial —de alguien—). En definitiva, se trata de la antigua y celebérrima formulación metafísica de Aristóteles (Libro IX, 1) del ser en acto y del ser en potencia que sustancia la acción, el movimiento, y este proceso está ciertamente sujeto al tiempo (¡¡¡Canti senili overo della senilitá se ha escrito en 16 días!!!) y al espacio en sus apreciaciones convencionales, aunque también en las que atañen al ser que existe, que fluye en la realidad y sale a esa realidad: una realtà effimera. La cultura, la historia, la razón histórica antiguas o contemporáneas y sus veleidades sangrientas o liberadoras, tan características, tuyas son en acto lo que su relativa condición de no-ser les permitirá ser potencialmente, ya sea en su versión más profundamente desoladora y desesperanzada. Y creo yo que este vaivén de lo que fue, lo que es y lo que será es una de las preocupaciones que subyacen en tu pensamiento, caro Antonio, a partir de una pulsión dramática de la existencia de ese yo que escribe en el espacio diluido en un ecuménico nosotros o en un  distanciador. Por ejemplo:

    Ti sarai liberato dal tuo silenzio alla seconda campana

    e da  quelle voci di un coro che presagivi esangui,

    hai salutato sinistri requiem con un candido lenzuolo.

    L’ombra di uno spettro sbigottito hai esonerato. 

    Benvenuto! Gracias por el envío y la confianza. Sigue así de activo. Me encanta. Manuel

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  2. Cosa ancora scrivere sull’inimitabile verso di Antonio Sagredo che giunge a deridere persino metafore e metonimie di cui si nutre, ma pure è capace di rifiutare? Abele Longo nell’incipit di presentazione marca molto bene la distinzione tra Sagredo e Bene, che talvolta non sai se specchio e (suo?) riflesso… questi due si completano a vicenda. Quando tempo fa a Sagredo confessai per telefono che un grande suo rimpianto (che anni fa mi riferì) era che il grande attore salentino non avesse mai nemmeno un componimento declamato. Sarebbe piaciuto ad entrambi questa combinazione di intenti. Ma ricordo bene che lo consolai rispondendogli che i suoi versi conducono a passeggio il poeta-attore in ogni contrada salentina e che da questa nella contrada dell’universale.

    Mi piacerebbe che giungesse appunto dal Salento una voce critica per illustrarci ancora meglio i versi di Sagredo a cui il Salento stesso gli è grane debitore.

    Anche l’incipit del grande critico Giorgio Linguaglossa centra bene la posizione di Sagredo nella poesia italiana, ma io affermerei europea e mondiale, poiché non teme affatto la comparazione con altri grandi poeti.

    Rita Casale

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  3. Un grande applauso per Abele Longo per la scelta della illustrazione….

    questo quadro di Jan Alojzy Matejko è pertinente al massimo grado ai miei versi senili.

    Questo pittore polacco che già conoscevo fin dai tempi miei studi studenteschi a Praga, nei primissimi anni ’70, fu tra i miei preferiti quando cominciai a studiare la pittura ceca e polacca dell’800.

    Ripeto, azzeccata la scelta di questo quadro che mira e mescola lo sconforto di un anziano artista – un pittore- giullare con un rinnovato e senile entusiasmo di un poeta anziano che ancora insiste a versificare il proprio corpo e l’animo.

    antonio sgaredo

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