“Parthenope” di Paolo Sorrentino. Nota di Giorgio Galli

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Un discorso sulla bellezza: Parthenope di Paolo Sorrentino

Da giorni non si parla che di Parthenope: l’ultimo film di Sorrentino ha suscitato dibattiti accesi tra ammiratori e detrattori, fra quelli che lo trovano bellissimo e quelli che lo trovano insopportabile, narcisistico e antiartistico, quelli che trovano il regista un fuoriclasse e quelli che lo considerano un furbo imitatore di Fellini. Critica e pubblico sembrano polarizzati: o amore o odio, o di qua o di là, manco fossimo ai tempi della Cortina di ferro. Il dibattito è sempre benvenuto, ma quando assume connotazioni così radicali, quando è uno scontro tra il mondo incomunicante dei tifosi e quello altrettanto incomunicante degli irriducibili nemici, si va poco lontano: oltretutto, si rischia di dare un’incredibile importanza a un film che, forse, nella storia del cinema, non ne ha così tanta. A me, un’amica aveva detto: non ti piacerà perché lo troverai hollywoodiano. Un’altra, davanti a un antipasto misto cinese, me ne aveva parlato in estasi suggerendo che sarei rimasto estasiato anch’io. Altri lo avevano deriso, o si erano soffermati sulle possibilità di accesso di Sorrentino a un pozzo di San Patrizio produttivo cui registi più giovani non possono attingere. Chiarisco subito: il discorso sui mali del sistema produttivo italiano è sacrosanto e la sfilza di produttori che precede i titoli di testa di Parthenope dimostra che a Sorrentino la facilità a trovarne non manca. Personalmente, il mio disincanto sulla meritocrazia nel mondo artistico è diventato totale quando ho letto le lettere di Pasolini, che brigava per premi e segnalazioni come un ossesso, che aggrediva, intimidiva e minacciava perfino di azioni legali -lui, lo scrittore più denunciato della storia!- i colleghi a lui ostili o che avevano espresso critiche ragionate. Pasolini è uno dei miei intellettuali di riferimento e non voglio assolutamente ridimensionarlo o demonizzarlo, ma sicuramente il successo arride anche a chi “ci sa fare”, non da oggi, ma da sempre, e a voler riscrivere la storia includendo quelli che ne sono stati oscurati si farebbe un lavoro benemerito ma lunghissimo, che non ho il tempo e le competenze per fare. Chi si ricorda più di Valerio Zurlini, misuratissimo e sapiente autore di film pieni di un malessere alla Antonioni senza la noia che, da Blow-up in poi, subentra nei film di Antonioni?

Fermandoci alla pura riuscita artistica, Parthenope è un film bellissimo. Non immune da difetti evitabili: in primo luogo la banalità della colonna musicale –ma con una stupenda eccezione, che dirò- e soprattutto quei momenti didascalici, concentrati perlopiù nel finale, di cui non si sentiva il bisogno, perché la magia si spiega da sé. Sorrentino, come accade ai minuziosi, ai manieristi che compongono grandi affreschi, non ha il senso della conclusione, e vuole a tutti i costi non solo darci la chiave del film –una chiave retorica su Napoli e sul tempus fugit che sminuisce ciò che ci ha mostrato anziché arricchirlo- ma anche rimandarne la conclusione, che poteva benissimo essere sfumata e aperta, oppure affidata a quella nave fantasma di tifosi del Napoli che Parthenope anziana incontra sul finire. Dopo la scena magnifica dell’uomo d’acqua e sale, dopo un’invenzione fantastica così totalizzante, così assurda e grandiosa e toccante ed intrisa di morte, perché cincischiare così, perché spiegare? La magia è riuscita, siamo incantati, bisogna solo chiudere cercando di conservare la poesia. Lui la sciupa, chi sa perché.

Si è detto che è un film felliniano, che Sorrentino è un epigono di Fellini. Io non l’ho trovato così felliniano: certo, alcune soluzioni visive lo sono –la scena del sesso in chiesa può far pensare a Roma, i vapori che nascondono la protagonista e Isabella Ferrari nella scena del bacio lesbico rimandano all’incontro col monsignore in Otto e mezzo; ma si potrebbe parlare anche di Sergio Leone per la concezione grandiosa, manieristica, ieratica del film. Sorrentino è onesto: dichiara i propri padri senza problemi. Spesso fa molto di più: è felliniano senza essere epigono di Fellini, quando i sentimenti della morte, della consunzione e della nostalgia si traducono in visione. Oppure ha lo spirito di Leone senza essere epigono di Leone –come nella bellissima scena della festa col porporato nel palazzo in cui la protagonista è già stata, con la Valse triste di Sibelius in una registrazione lentissima –giurerei che è di Karajan- a sottolineare lo scarto tra un passato che pare perfetto e in realtà non è stato così bello –erano gli istanti prima del suicidio del fratello- e un presente già presago della caduta. Tra la prima festa e la seconda passano pochi anni, 1975-1982, ma nella differenza fra le due scene c’è tutto il senso del passaggio dai –falsamente, ma gioiosamente- rivoluzionari anni Settanta al clima asfittico degli Ottanta. C’è un senso della Storia, in Sorrentino, che non è felliniano, e un senso epico della fiaba che non sfigurerebbe in C’era una volta in America.

All’inizio il film è bello ma poco misterioso, poco magico: questa Parthenope bellissima ma seduttiva ventiquattr’ore al giorno non convince; invece a poco a poco si entra in un mistero: Parthenope la protagonista e Parthenope il film diventano un discorso sulla Bellezza, un discorso senza argomenti, perché la Bellezza non si dimostra, è: la Bellezza è infelice, è luminosa ma fuggevole, è mistero e non segreto perché alla fine del film nessuno conosce i pensieri di Parthenope. La Bellezza è fatta d’incontri –quello con Cheever interpretato da un Gary Oldman in straziante stato di grazia non riesce del tutto, perché la protagonista non può essere così sprovveduta da non riconoscere la fisionomia e lo stile del suo scrittore preferito dopo che il suo ritratto è stato inquadrato nella quarta di copertina di un libro che lei sta leggendo e dopo averne addirittura letto i manoscritti stesi con le mollette sul filo; ma quello col professore interpretato da Silvio Orlando, e il rapporto che ne nasce, è tra le cose più commoventi viste al cinema di recente; poi c’è l’incontro atroce tra i due giovani costretti ad accoppiarsi in pubblico per risolvere una faida tra famiglie, due giovani che si amano e che cercano di proteggersi l’un l’altra dall’orrore di quella situazione. Soprattutto, la Bellezza non si spiega e forse nemmeno la si vive: la si vede. Il professore insegna a Parthenope a “vedere”, e la porta a vedere la cosa più incredibile. Che Sorrentino, dopo averci mostrato questo, voglia a tutti i costi farci un discorso sopra, darci spiegazioni e addirittura farci un po’ la morale, allungando il film di quasi dieci minuti, non è solo contraddittorio: è al limite del disturbo dissociativo. Ma, appunto, sfrondando dal film quei suoi difetti evitabilissimi, resta la bellezza. E ne abbiamo bisogno.

Giorgio Galli


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