Daniela Fontana, “Misticamente al ventre sospesa”, nota di lettura Giancarlo Locarno

Questo lavoro di Daniela Fontana è composto da dieci poemetti, ciascuno dei quali affronta e sviscera un tema: il rapporto con la natura, la fine dell’amore, il sogno e l’attesa, le assenze, il virus, la memoria, le “beate solitudini”, i salti nel buio, i blocchi indesiderati ma necessari per arrivare infine alla PAROLA che illumina le contraddizioni, ci porta a scoprire tanto di noi e del mondo e con questo nello stesso tempo ci cura.

Mi sono chiesto qual è il filo che accomuna questi sutra, che quasi formano una collana di aforismi, una ghirlanda che vuole circondare di senso il nostro essere nel mondo con versi faticosamente ricavati dalla propria esperienza.

 Una prima osservazione riguarda il loro carattere bifronte, la presenza simultanea in ogni sezione dei poemetti di due aspetti opposti il cui cozzare è generatore di divenire, di scossa vitale, come se volessero concretizzare il diagramma Yin-Yang composto di luce ed ombra, maschile e femminile che sembrano vibrare simultaneamente a volte per cercarsi a volte per fuggirsi.

La seconda osservazione scaturisce da un esperimento che ho voluto fare, ho analizzato l’insieme di tutti i poemetti con IRAMUTEQ, un software per l’analisi testuale, il testo è stato lemmatizzato, quindi verbi sono stati ridotti tutti all’infinito: dissi, dirò, dico per fare un esempio, sono diventati tutti dire e così conteggiati.

Ho costruito la nuvola delle parole, riportata in testa a questa nota. Più una parola compare nel testo più i suoi caratteri diventano grandi, si vede che quelle usate più frequentemente sono: dire e vita, poi passo, notte e parola. Mi suggeriscono allora una interpretazione del senso di tutta l’opera:

Dire le parole giuste anche nella selva oscura della notte è un passo importante per cogliere l’essenza della propria vita.

Nella dialettica tra silenzio e parola vince sempre il dire.

Riporto alcuni versi di ogni poemetto e le sollecitazioni che mi hanno suscitato. 

Dal ciglio alla passiflora

Un viaggio dentro e fuori. Nello stesso tempo tra il rigoglioso e l’arido.

Una discesa a precipizio dal paradiso verso la terra tra vermi e raggi di luce nera.

Ma l’esplosione del ventre fa rifiorire il creato come nel ciclo di Cerere e Proserpina,

dopo i mesi passati nel buio dell’inferno ritornerà la primavera coi suoi fiori.

Procedere di notte nella selva oscura senza la fede, a lume spento, come gli eretici e

 i suicidi, la bellezza dell’alba appare come un disastro.

Sempre più fitto il bosco delle tenebre, nella sarabanda dei versi nemici.

Il nero si dirada, adesso tutto è bianco e grigio raffreddato da una luna ghiacciata.

Il viaggio continua, i piedi calpestano reperti d’ossa di un’altra era, di quando la gioia non era mancata.

Ambivalenza di voce straripante e piena che si disperde nel deserto piastrellato di ossa e una luna ghiacciata, ma il sentiero porta alla speranza di un astro nascente, forse il sole o forse un’altra stella.

Ambivalenza d’immagini, la casta diva della Norma è la luna, il bianco lunare permea di una purezza un po’ glaciale le case nel temporale estivo.

Si attraversano palazzi che un tempo erano eleganti ora calcificati, gli dei che li abitavano sono caduti attraversiamo le sue smagliature e cerchiamo di liberare Proserpina e di rifiorire.

Dal ciglio arido del sentiero erboso al bellissimo fiore della passiflora, che racchiude tradizionalmente i segni della passione di Cristo, la corona di spine dei petali e i tre stili sono i chiodi, segno dell’ambivalenza tra la bellezza e il dolore che accompagnano il cammino.

Il sentiero porta lontano dalla città si rientra nella selva oscura, ci si ferma a meditare, il vento è un compagno, i miliardi di morti dalle origini del mondo ad oggi sembrano scuotersi nel sonno, sembra di sentirli respirare sommessamente come una risacca della terra.

La città ha lasciato spazio
al bosco. Pruni e umido,
il colore delle foglie. Non è sibilo
e nemmeno raffica – a guardar bene –
solo ascolto in preghiera.
Al bando leggerezze estive
il freddo è diverso, contemplazione
per crucem ad lucem, fantasticare
nella nudità dei rami e quel sottile
letargo. Saranno le voci dei morti
a custodire il sonno,
il suono grave di risacca dalla terra.

Dicevamo la tomba dell’amore

Un laccio e la casa non è più casa
Ciò che è stato non potrà essere cancellato
Il coraggio e la vita apparente
Le parole sono arpioni
Impreparati allo sgretolamento delle mura

Istantanee in abito da sera

Mescolarsi dei sensi, l’occhio, il tatto e l’udito. L’incenso è il sottofondo mistico da tutto questo non può che uscire dalla testa un pensiero fresco.

Il ritmo delle gambe come il quadro di boccioni “Nudo che scende una scala” trascina gli istanti di tempo fino al domani, l’isteresi della vita è in quella scansione futurista dei passi.

La goccia di Escher non è di vino e non è sulla bocca, ma il riflesso contiene l’immagine della cosa attesa e la stessa fugacità della goccia di rugiada, la foglia come una bocca sembra volerla inghiottire. Invece la cosa attesa arriva, se ne sente il motore.


Mi dicevi della fugacità
del viversi tra la goccia di vino
– lì sulle labbra –
e il miracolo dell’attesa
il vento nella primavera
nel suono di motore all’arrivo.

Dalla goccia uscirà la venere sulla conchiglia di Botticelli, immagine della vita che deve continuare, la dea è sola, di una solitudine regale e voluta, l’amore che porta è un archetipo di eternità ma come un respiro rinchiuso nel cemento, come i prigioni di Michelangelo lo sono nel marmo. Cresce la smania di uscirne per cercare di liberare le parole, che alla fine possono solo descrivere lo stato distratto dell’eternità delle cose.

La chiusura è un filo spinato che attende, appena sotto casa, non è un campo di concentramento, ma una scena muta e una presenza che assomiglia all’assenza.

O di chiaroscuri

Sempre la dicotomia di sentimenti che si manifesta nell’attesa in chiaroscuro come nelle opere di Georges La Tour, il buio: la freddezza di una lama e una cena come una mattanza, l’attesa le aspettative di essere raggiunta. L’insicurezza frammenta la visione del mondo in lampi di luce viva e in raggi di buio come una luce nera che sale dal profondo dell’attesa quando? E l’incontro? Sarà un incendio?

Si ripercorrono tutti i luoghi tutti i mari dove si possono schierare le emozioni nate dall’attesa.

Poi lo scatto di  luce come di un’alba, l’empatia di un si, il gioco delle parole nelle frasi che rimbalzano come una palla che viene vicendevolmente lanciata.

Il tempo di un’estate, una felicità come becchime per uccelli lasciato sulla spiaggia  alla sua  data di scadenza.

Dell'estate non resta che il bianco
d'uovo, come orbita oculare il tuorlo,
il passo strisciante e della barba
fatta il viso segnato
dal sorriso. Troppo felici
nella brevità del gioco.
Uno scacco dopo l'altro
ed è stagione di merli,
di becchime per uccelli
nel tempo morto di un abbraccio
nel desiderio incolto
d'un bacio lasciato lì,
tra respiro e varco al tramonto.

Pandemaniac

Qualcosa di primordiale incombe sul mondo

Una nuova estinzione? Non saranno i dinosauri, saremo noi.

Nascosti nelle case l’abbraccio o un bacio ormai sono sogni.

Tutto è congelato nelle strade deserte.

È questo il conto in sospeso col mondo.

Abbiamo sperimentato la vera separazione e il prossimo è un nemico.

Siamo diventati qualcos’altro di diverso da noi.

Abbiamo paura  ma anche la speranza di tornare come prima.

Come le marionette del film di Pasolini “Che cosa sono le nuvole”

Che pur gettate tra la spazzatura hanno la forza di contemplare la bellezza

Con un’ultima frase:

«O straziante meravigliosa bellezza del creato!»

Anche qui nella clausura delle case si mostra in  tutta la sua bellezza la primavera.

È un messaggio involontario il non detto che dice, 
che porta luce fra le ombre.
Ali spezzate senza avere il respiro dal suolo.
Non toccano terra, si disgregano nella caduta.
Sulla strada l'ambulanza porta via l'anima
dannata, chiuso il sipario si riprende a vivere.
Come marionette, accalcati in un baule,
aspettiamo che il mondo si mostri, lasciamo
correre le nostre paure oltre il cuore gonfio del corvo.

In assence

L’occhio sembra vedere la musica e i colori dell’emissione dei suoni

Le note sbuffi di vento o respiri sono solitudini di parole, assenza di parole,

gli spettri dei silenzi, punti interrogativi ghiacciati sospesi nell’aria.

Questa è l’assenza.

La risposta è nel girone infernale che si raggiunge scavando nella miniera sotto casa i frammenti millesimali d’amore così rari e preziosi ancora tutti da decifrare, per non provare più dolore lungo la strada giusta che non si è ancora trovata.

L’inconscio non è solo il rimosso ma è anche il discorso dell’altro che non comprendiamo, come ascoltare i “4 minuti e 33 secondi” di John Cage, sono cioè 273 secondi di silenzio, lo zero assoluto della musica, si sentono solo i brusii e i colpi di tosse infinitesimali. E questa è l’assenza.

Giù al centro della terra
imbuto rovesciato, a metà
del girone scavo con le unghie,
antracite, un pezzo di pirite
giù nel sottosuolo con le mani
impastate di terra e furore,
un dito per lo scalpo, l'altro
per tutto l'amore e gli occhi
bassi ne cercano uno,
millesimale orbita, tenebre
lo sguardo, il sopracciglio
quello, cerco in bene e pace
il noi: tu etereo fragore
io masticata al vetriolo
essenza muschiata
e rinata in sottobosco

La grazia dello stelo

La memoria ha i suoi Palazzi come schedari della biblioteca, alcuni col nero di fuliggine ma altri con cieli di rubino e zaffiri d’onda, poi la vita sui treni dalla stazione Tiburtina verso casa o chissà dove… La memoria è nostalgia. I fotogrammi di ricordi come l’immagine di un mondo precedente, lo viviamo ancora ma non c’è più.

Non so dire cosa fu quella nostalgia,
la parte mancante, la scheggia
impazzita che recise le mie difese.
Eppure era lì. Vita pulsante,
suggestione di pietra arsa,
estremo. Come pianeta
intorno a un sole spento
la sera girava, spalmava ore
e punti a capo. Poi il sogno
sembrò di cartapesta
improvviso lo strappo
e foglia io tra le foglie
a spirale a mulinello e fino al cielo.

Sul filo della beata solitudine

Beata solitudo sola beatitudo recita un motto francescano, invece la solitudine è dannazione e la morte una sorta di solitudine informe.

La sua ombra si è stabilita in casa e la finestra ha finito per affacciarsi su un precipizio.

Sotto casa tanti  piani più giù avanti e indietro passeggia ancora la vita.

La solitudine è sempre in casa non esce mai per le strade non rotola giù per le scale.

In sua compagnia si muore, poi si rifiorisce in primavera come fanno i fiori e tutte le erbe nel ciclo del primo poemetto.

È la lucentezza della lapide
a dare corpo alla morte. La foto
imbiancata dal freddo lugubre
l'umido a ingigantire le ombre.

E ancora mi chiedo se riporre un fiore
può far respirare meglio i morti
se i colori danno vita al selciato
se cambiare l'acqua rende eterno il sorriso.

È solo pretesto la calma, quella quiete
che sa di vita sospesa, di temporanea
apnea. Dal cielo cadranno gocce di sangue
a ricordarci quanto breve sia il corteo.

Salto senza ritorno

La notte è primitiva i suoi colori cupi tingono i ghetti e si infiltrano nella terra

Il brivido, la paura e la voglia di saltare dalla notte nel mondo, rinascere in una nuova preistoria, percorrere i resti di un misticismo passato farlo rinascere nel suono della placenta del nostro pianeta. Ma cosa ci trattiene dal salto?  Tutto ci dice: lascia perdere, ogni mossa è sbagliata, quindi non fare niente, considera il tepore della casa la sicurezza dei suoi muri bianchi, abitati dai gatti, il cui miagolio è una preghiera. Ma è la noia, il dolore e la solitudine a dare la spinta, qui si salta, vince la sensazione erettile di essere donna.

Avevo voglia di agire indisturbata
- a filo - sul tessuto osseo della notte
All'ululato del lupo preferii
il silenzio, sottile piacere
di caffè tostato.

SOLA! Io - maledetta santa
carnefice. Avevo voglia
di contarmi frecce e feritoie
archi a piombo - fra cuore
e polmone - sentire il battito
del ferro sulla pietra, la sensazione
erettile di essere donna.


Misticamente al ventre sospesa

Parlare e tacere.

Il silenzio è un freddo accademico in abito da sera che si esibisce, chissà cosa crede di essere.

La parola invece passa i suoi giorni al  mare ne contempla l’infinito orizzonte.

Il silenzio strozza, nasconde la spazzatura sotto il tappeto e nessuno la saprà mai.

La parola giusta una sopra l’altra come un gioco di costruzioni cresce avvolgendo il senso a petali di rosa, già Pasolini notava come la poesia potesse essere “in forma di rosa” per via del suo sguardo sul mondo che la dilata petalo dopo petalo. Lo sguardo cede il passo alla bocca, che la parola è anche parlata, non solo scritta. Vita e morte silenzio e parola sono intrise l’una nell’altra, ruotano insieme come lo yin e lo yang nel diagramma del Tao, misticamente dal ventre come embrioni gemelli entrano nel mondo.

sguardo chiama bocca
a taglio seduce invita
– se la preghiera non è opinione
ma idea – apre la vena
imbratta a sangue vivo
vita morte un solo nodo
sciolto il capello tra costola
e costola dai seni – divino
ombelico – l’umano boato
misticamente al ventre sospesa


Giancarlo Locarno


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