Isabella Esposito
LA VOCE DI EURIDICE
prefazione di Michele Piramide
Postfazione di Rumi Nicola Crippa
Edizioni Progetto Cultura, 2024
Nota di lettura di Giorgio Galli
La voce di Euridice è una raccolta di poesie legate da un filo narrativo: in essa si segue l’evolversi di un amore giovanile intenso e drammatico – tossico dice Rumi Nicola Crippa nella postfazione – dal sorgere e dall’idillio dei primi tempi allo sfiorire, alla disperazione, fino a una rinascita, figlia del coraggio di attraversare il dolore senza far sconti a se stessi. L’autrice rovescia il mito di Orfeo ed Euridice: dove finora il punto di vista è sempre stato quello del cantore, lei dà voce alla donna: Euridice è una ragazza di vent’anni e il paesaggio, pur intriso di reminiscenze classiche, è un paesaggio contemporaneo, in cui è possibile incontrare – e nominare – autostrade e dispositivi tecnologici del nostro tempo. Isabella Esposito è giovanissima e il ricordo degli anni in cui si scopre la grecità, e della forza con cui arriva, è ancora vivo in lei. Della lirica greca ha carpito l’atmosfera e le risonanze con la freschezza di chi, esplorandola, la reinventa, e ha serbato nel suo sguardo peculiare il fascino e il senso di scoperta di quando anche noi la scoprivamo. Di quando, ragazzi, andavamo per le nostre città di provincia e, vedendo alzarsi un volo di gabbiani, pensavamo ai versi di Alceo; di quando bastava un minuscolo frammento di guscio, colto vicino al mare, per far risuonare in noi quest’invocazione: “O conchiglia marina, figlia della pietra e del mare biancheggiante, tu meravigli la mente dei fanciulli”…
Un senso di fremente stupore attraversa le poesie della raccolta: “hai gli occhi di foresta, di mari lontani” leggiamo nel componimento d’apertura, “solcati dalle ali di uccelli fuggitivi, / è la tua festa l’estate che ritorna, / è la tua vita una strana presenza / annodata alla mia, / chi sei, da dove provieni? / Io vengo da oscuri silenzi come l’aurora, / tra gli oleandri azzurri e le lanterne / io vengo stanotte a chiederti chi sei”. È proprio l’amore dei vent’anni, l’esplorazione dell’altro che si fa anche esplorazione di sé, la scoperta di sé attraverso il meraviglioso limite costituito dall’identità dell’altro. Tutto è misterioso, tutto è una sorpresa cui andare incontro con un senso di timorosa esaltazione, “per ferirci di bellezza”. L’abbandono all’altro è assoluto: “Quando tu sorridi / io ho fede nella bontà del mondo”; “così voglio te / nelle mie notti, voglio fiorirti in petto / e stremare la tua dolcezza”; “Nella tua gola erompe allora / un suono d’amore, / che percuote il silenzio come un gong, / e il tuo respiro incessante / riversa sul mio collo / la quiete abissale degli oceani”; “Sei il fiume di preghiere / in cui mi immergo. / Nei tuoi occhi / straripa l’universo”; fino al bellissimo distico “le stelle rovesciate in mezzo al campo / e tutta la sua vita dentro me”. Questa prima parte dell’opera è la più lunga e intensa, intrisa di una malinconiosa esaltazione:
Vieni, siedi con me sulla riva del tempo,
il nostro soggiorno in questo corpo è così breve
ma lunghe sono le notti in cui ci siamo incontrati
a mescere il vino nel cratere, nell’abbondanza degli ori,
i viventi tornano sempre alla fonte di Eros, sovrano tra i mondi,
mangiamo gli inverni, scaviamo solchi per la semina,
nei golfi sommersi dalla dimenticanza
rinascono i pensieri come guizzi di pesci blu,
quando ci amiamo siamo interi,
i palmi delle tue mani, ulivi, rami
sfiorano il mio viso, dentro i miei occhi la terra,
dentro il mio ventre la marea che tu conduci,
e ci perdiamo riversati come naufraghi senza parole
sbalzati via dalla corrente,
ma è questa l’ora di ricongiungerci,
l’ora della poesia -profezia, luce, visione
che ti riporta a me, l’ora dei misteri,
e forse Orfeo in questo nuovo tempo
sarò io a cercarti, trovarti, con la mia voce estrarti dagli Inferi
ed amarti.
Ma presto in questo trepidante stupore, in questa gioia che pare così grande che quasi la giovane non riesce a sopportarla (“A volte sento il cuore frantumarsi / per tanta bellezza che non può contenere”) si affaccia il sentimento del tempo che sfiorisce e corrode le cose, che inghiotte sentimenti e oggetti in una morte che si consuma ogni istante: “un giorno questi colonnati saranno rovine / e rovina pure il nostro amore, ma oggi ti afferro / e nelle mie mani il tuo piccolo corpo riluce, / scintilla che accende il braciere delle cerimonie, / e la tua pelle aderisce alla mia, le tue caviglie nude / sfiorano l’acqua e la luna, riemergi dai sogni mediterranea / come gli odori dei pini marittimi e la resina buona / da mescere al vino, così io bevo le tue labbra / e ti contemplo, favola marina, dolce ebbrezza della notte, / la morte ti strapperà da me, / si fermerà sopra i tuoi occhi d’Oriente”. La prima reazione a questa scoperta della mortalità di se stessi e del tutto è un anelito di vita più rovente, il desiderio -che tutti abbiamo conosciuto e che non funziona mai- di ergersi a fortino, con l’altro, contro tutto: “e siamo nudi contro il mondo, / tremendamente vivi / contro la morte”. Nel rutilare delle immagini, lievi e corpose, impalpabili eppure così dense, c’è tutto il senso della giovinezza e tutta la sua precarietà.
Ma si affacciano, in questa narrazione lirica dell’amore, i pericoli di una relazione così assoluta e idealizzata: “Morire per averti”; “Il mio desiderio di altezze infinite / si scontra con la terra / di cui sono fatta. / Solo l’amore salva, / solo l’amore salva”. E a un certo momento i tempi verbali volgono al passato, l’io narrante non si raffigura più immersa nell’amore, ma dice “Inseguivo una visione”, dice “Ti cerco sempre nelle notti inquiete / e vado a bere l’acqua della disperazione”. Il punto di svolta è la poesia intitolata Nel perimetro degli aranceti:
Camminavamo nel perimetro degli aranceti,
il sole ci cuoceva i volti e in fondo il mare si torceva,
eri tu la mia freschezza di luce,
quando hai detto “è solo un sogno”
ho risposto “lasciami sognare, ho paura
di diventare vecchia, voglio che tu mi veda bella
oltre ogni stagione” e con le mani ti sfioravo la fronte,
un bacio ancora denso di tormento
aprivo gli occhi e poi non c’eri più.
Difficile, leggendo l’ultimo verso, non riandare col pensiero al Ricordo di Maria A. di Bertolt Brecht. Qui il vissuto che prima pareva palpitante, annotato in presa diretta, si è già trasformato in ricordo. Poco oltre, puntuale, il disastro: “Ho visto il mio amore crollare / il mio amore sconfitto / e tu come gli altri / nella cerchia delle belve / tu come gli altri / indifferente”.
Da questo momento inizia l’elaborazione della perdita: la lingua si fa più prosciugata e più eterea, la sovrabbondanza d’immagini viene come messa in castigo, le figure si trasformano in fantasmi. All’inizio la voce di Euridice cerca conforto, coltiva la speranza: “Forse un giorno / ci incontreremo ancora, / in altri corpi, / slegati da ogni dimensione, / e sarà sempre estate, / e sarà sempre luce”; “Tu esisti e sei il mio altrove, / il mio uragano di poesia”, fino ad ammettere: “”Quando andasti via da me / ogni cosa prevedeva il tuo ritorno”. Poi subentra il rimpianto: “Orfeo, quando la nostra estate sarà lontana, / quando il cigno sarà rinato, / tutti diranno: ‘Lei lo amava’”. All’amore vissuto subentra la riflessione sull’amore: “è l’amore a distinguerci dai morti / che non sanno / la precoce primavera”. Ma questo immergersi oscuro nell’abbandono è preludio a una liberazione, a un rovesciamento che arriva, repentino ma non inatteso, proprio in chiusura di libro: Euridice volta le spalle all’Ade, si stacca da Orfeo, rinasce in se stessa e va incontro a qualcosa che non sa:
Sotto i miei piedi la strada racconta
di carri e di ragli di asini, di sandali e pepli,
colonne erose dai mari, pozzanghere piene di stelle
e mirti, oleandri, uccelli tra i rami,
c’è stato un tempo in cui mi amavi
e pregavi gli dei,
oggi non discenderai
a persuadere Caronte, Cerbero e Ade,
la bella Persefone nel giardino dei melograni
solo per amore di Euridice,
tu verrai a chiamarmi per sapere se sono ancora qui
legata ai tuoi passi, se ti appartengo
come gli oggetti che possiedi,
e quando non risponderò
tu mi crederai un’ombra, un soffio, un nulla
e ti volterai allora per vedermi
libera da te.
Si può allora dire che quello di Isabella Esposito è l’equivalente poetico di un Bildungsroman, è un “poema di formazione”, e che la consapevolezza anche critica dell’autrice risulta dal fatto che sceglie di agganciarsi al mito, riconoscendo così la diversa natura della poesia, che non è arte di tempo e non è, come il grande romanzo europeo, la forma del relativo, ma è arte che archetipizza ed eterna, che schianta d’imperio un momento o un percorso e ne fa un assoluto. Attraverso “la voce di Euridice”, assistiamo, metapoeticamente, alla nascita di una voce nuova: quella dell’autrice.
***
Isabella Esposito, nata a Roma nel 2001, ha coltivato la passione per la scrittura fin da bambina, sia in prosa sia in poesia. Attualmente frequenta la facoltà di Farmacia e Medicina dell’università La Sapienza. Nel 2019, dopo aver vinto la selezione regionale del Lazio, si è classificata seconda al Premio Nazionale Giacomo Leopardi, in occasione delle celebrazioni per il bicentenario della stesura dell’Infinito. È membro del Centro Culturale Giacomo Leopardi di Recanati. Collabora con varie realtà poetiche in Italia e all’estero (compresi Stati Uniti e Cuba) e dirige una rassegna di libri per il programma radiofonico Ready. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati su blog, siti e riviste. Nel 2023 ha pubblicato la raccolta d’esordio Imparare a vivere per Homo Scrivens. La voce di Euridice è la sua seconda silloge di poesia.

vedi sopra: orfeo e euridice di antonio sagredo
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