
Roberto Minardi, Ordine del sud, Industria & Letteratura
di Giancarlo Locarno
Il sud è una categoria della mente prima ancora che un’entità geopolitica, venire dal sud vuol dire avere un guizzo nel sangue, la stizza nei polmoni, è costruito con le macerie rimaste dopo l’emancipazione dal colonialismo, e quindi si compone di tanti sud diversi ma con tanti punti in comune. In questa poesia ci leggo una struttura ricorsiva, come un frattale. Mi spiego meglio, le regioni che compongono il sud per quanto diverse e lontane, come sono lontane l’Africa, il Sudamerica e la Sicilia, sono descritte con una struttura uguale. Questa struttura è un accumulo di oggetti che non sono mai neutri ma spesso correlati oggettivi, di situazioni e livelli di vita simili. Anche le persone si somigliano, il profeta e Don Aníbal svolgono la stessa funzione, sono minuscoli leader che regnano su macerie di laterizi e calcestruzzi, mescolate a polizze e fondi, e banconote e scarafaggi. I soldi e le armi stanno sempre insieme, le mitragliate sono l’altro verso delle banconote.
Se scendiamo al livello successivo un po’ più ristretto, dalla regione a quello della città, come in Ailigandi ad esempio, anche lì chi è venuto per il paradiso vedrà immondizia estendere le terre, osserviamo la stessa struttura, tanti oggetti sparsi, capanne e addirittura feci che flottano.
Scendiamo ancora al livello delle abitazioni e delle famiglie, anche qui viene rispettata la stessa struttura: l’odore dell’ero, la chiazza marrone, le luci che ingolfano il nerume. Infine anche le singole persone, come Sharon, con il suo frigorifero, lo yoghurt e finalmente un filo d’alba, ripetono la stessa struttura di frammentazione oggettuale e di correlati oggettivi che è degli stati, delle città e delle case.
Per questo la dico frattale, la poesia si ripresenta in modo ricorrente su una scala via via più ridotta con la stessa struttura di tutto l’insieme. Tutto l’insieme per me è descritto in modo splendido nella poesia iniziale Parla per parlare che è quella che preferisco, e tutte le altre le penso sviluppate da germi contenuti in nuce in questa.
Il ciclo ricorsivo pressoché infinito vale anche per la lingua e per lo sviluppo del pensiero che frequentemente utilizza l’enumerazione delle cose come mattoni: quel che penso è una costruzione che non ha fine.
La superficie del sud è un accumulo di oggetti tra le macerie, sono gli oggetti-parole che modellano questa umanità elevandola dai detriti, sono veri e propri arnesi e manufatti. Mi richiamano il nouveau réalisme, i combine-paintings di Rauschenberg, che nella sua composizione “Bed”, ad esempio, ha incollato le coperte e il cuscino alla tela e, anche i quadri di stoviglie incollate di Daniel Spoerri.
Si ha l’impressione che il topo col suo zig zag sia davvero prigioniero nelle pagine e scavi tane che perforano tutto il libro, e ad aprire ogni pagina ne escono pietruzze che croccano o improvvise combustioni. Questa battuta è per osservare l’importanza degli oggetti che strutturano anche quello che si mostra come un inferno, e l’inferno è uno spettacolo, e the show must go on e, anche il sud deve andare avanti così. L’inferno brucia e brucia in più di una poesia, Preghiera d’assalto svela queste combustioni come un vero e proprio processo alchemico al contrario, Il poeta clown con la sua opera al nero di un’alchimia da cantina o sottoscala con materiali poveri avvia una nigredo di cenere combuste che attiva un arrabbiato processo di cambiamento che è anche contro se stessi: l’oro diventa piombo, l’alchimista artista ha scovato degli arcani da portare dentro i loculi, per distillare l’imbecille che è dentro di noi.
Mentre intorno i consueti paesaggi di macerie, braci e tutti gli animali estinti. Ma anche il fuoco più perfido e maligno si stanca, lascia il posto all’uomo col cavalletto che ricalca i papaveri, l’artista rinato è una speranza, è lui che, con tutti i limiti dell’umano, dirà al diavolo: Tu ti estinguerai. Se lo spazio della poesia è un frattale, il suo tempo è un eterno ritorno o una stasi completa:
il mondo sarà un ciclo che si ripropone dalla, come si dice, notte dei tempi…
i primi anni quaranta come il 1986.
il sole, scurendosi, si ripete.
La radio capta un’era che non è mai trascorsa,
Anche scrivere Parla per parlare è già un eterno ritorno. A 44 anni si ritrova lo stesso sud diverso dei dieci anni, lo stesso sud diverso che vede il figlio Matteo e chissà se lo rivedrà diverso ma uguale anche lui a 44 anni. L’artista si pone il problema irrisolto dell’uscita da questi cicli eterni e tormentosi. Ma ormai ne è profondamente invischiato, anche se oggi abita nel nord, forse riuscirà a sfuggire il figlio. Matteo viene citato poche volte nel libro, una presenza discreta e riservata ma importante perché costituisce un punto di accumulazione dei pensieri paterni, chissà quale sarà il suo futuro dentro e fuori dal sud. L’ordine del sud è quello di non avere ordine viene amato perché non ha amore. Si sente l’urgenza di una sua metamorfosi.
Oggi palleggio con mio figlio.
A tormentarmi sono i limiti che scelgo.
Quando il sud si spalanca e si rivela con i suoi gnu e profeti:
stringo la mano di Matteo forte non volevo fargli male.
Il sud è anche la famiglia, la casa natale se ne conosce ogni strada ogni persona. I sentimenti nei suoi confronti sono ambivalenti, mi pare che un amore senza affetto o un affetto senza amore circondano Pina e le radici, ci si sente un po’ bestia e un po’ domatore:
tu che volevi sparire e volevi restare,
perché:
Da queste parti non verrà l’apocalisse, sta arrivando il latte di mandorla.
Ma in fondo guardando bene le cose, il sud coincide con tutto il pianeta, allora come uscirne? L’unico modo sembrerebbe attraverso la bellezza dell’arte che come pensava Dostoevskij può salvare il mondo. La lontananza dal proprio sud è nello stesso tempo sensazione di un esilio, e ogni esiliato vorrebbe ritornare nel luogo delle sue origini ma solo quando le condizioni cambiano in modo da consentirlo.
Per Minardi la vacanza nel sud non è solo un momentaneo ritorno, ma è una sorta di catabasi oltre che un’immersione totale nell’adolescenza e una sonda per captarne i segnali interpretando i quali si arriva ad una forma di catarsi. Lo sguardo gira come una cinepresa, le zie sono inquadrate come in un film di Ciprì e Maresco, si mostra una realtà dura che sembra un destino inesorabile.
Allora si richiamano anche i morti delle gomme masticate per cercare di risorgere. Questo mi ricorda il comandante Jacques Péricard nella prima guerra mondiale, quando in occasione di un violento attacco tedesco, cerca di galvanizzare i suoi soldati con l’esortazione: « Debout les morts ! In piedi i morti! Che ha ispirato l’omonimo quadro di Sironi.
Il poeta è il signore di questi morti, la sua funzione è quella di rianimarli con la sua frangia anarchica, ma i morti tante volte non si rialzano. Preferiscono il loro tempo fisso senza divenire. Le cose che avvengono fuori nel mondo non sono correlate dal filo logico della storia, sono spezzoni, oggetti di una rigatteria di ciò che accade, che ignorano l’unità, il flusso della logica, si passa dalla modernità tecnologica del tablet alle baracche e tutto convive nello stesso momento. D’altronde il rigore della logica è quello del capitalismo, qui serve solo per attivare il diavolo degli altoforni e per calcolare quando verrà pestato il cartone dei Pringles. E quindi le cose accadono e basta. A Panama dopo le mitragliate (per i fatti di Noriega) Rosa non è venuta, è assente.
Da ragazzo ho visto in televisione i funerali di Pablo Neruda, partecipava una grande folla sfidando la dittatura, un uomo col megafono gridava “Compañero Pablo Neruda” la folla rispondeva urlando “presente!”. Di Rosa invece si dice che è assente, non aveva la fortuna di soggiornare a P. Non verrà ricordata dal popolo, è una di quelle cose destinate a bruciare nel sud, resterà però viva per sempre dentro il poeta e nella sua poesia, cioè nella realtà.
Per parlare del sud bisogna esplorarlo, è importante percorrerlo, abbiamo detto che i sud si somigliano, il rondò può essere immerso nel sole della Sicilia o del Sudamerica, pietruzze che croccano serpenti che appaiono o scompaiono possono essere ovunque. Per conoscerlo bisogna attraversare il deserto, cioè il silenzio e il nulla. Il deserto per un credente avvicina a dio, per gli altri è il luogo che più si avvicina alla morte, è una prova, come una depurazione dai condizionamenti della società. Si entra nel deserto per uscirvi pronti a nuove sfide, si passa dal caos al riconoscere la propria vocazione.
Questo viaggio a dorso di mulo mi ha ricordato la poesia El burro di Bolaño, ma el burro non era un asino e nemmeno un mulo ma una motocicletta dove in compagnia di Mario Santiago Papasquaro percorrevano sentieri simili a questi di sassi e di sole, dice Bolaño:
sul sentiero confuso e magnetico
degli asini e dei poeti.
Bisogna essere in due per scambiarsi i punti di vista. La motocicletta mi ricorda che anche il Che e Alberto Granado erano in due nel viaggio del 1951 descritto in Latinoamericana. Anche Roberto Minardi e il mulo sono in due, c’è una grande condivisione e comprensione sullo stesso sentiero:
il mulo consiglia e il cuore pizzica, segno che pulsa ancora.

Parla per parlare…
Qualcuno batteva sugli scheletri degli altiforni,
quando dalla corriera ho visto il diavolo.
Le sue narici sul finestrino si distorcevano.
I fumi nascevano dalle bocche quadre, il vento li deviava.
Il rigore era a capo di un vasto perimetro ed ero certo,
dell’ultima certezza avuta, che stridessero i tubi di ghisa,
che i laterizi sarebbero esplosi. Di lì a poco,
orchestrato dalla mano demoniaca, lo show avrebbe preso il via…
Non era un incubo o un melodramma, vi sbagliate, venire dal sud
vuol dire avere un guizzo nel sangue, la stizza nei polmoni, vuol dire
vedere cella, bestia e domatore, compreso di frustino,
avvicinarsi, malintenzionati, nell’altra direzione…
Non era angoscia da circo e non credo nel diavolo.
Così sono rimasto a studiare
lo zigomo sdoppiato dallo spessore del vetro.
Di conseguenza sono sceso;
guardatemi slittare sulla melma delle bucce,
non ci restate male se non casco.
Per la metropoli, a collo curvo mi rivolgo
a voi, cadaveri delle gomme masticate: risorgete
a fare da tramite tra aria e aria,
in mezzo a donne e uomini di buona volontà
che vanno, vengono, tengono il gluteo al passo… A voi, parlo.
E vi dico che da ora in poi il mondo sarà un ciclo
che si ripropone dalla, come si dice, notte dei tempi…
Io sono il clown vostro domine, la suola delle scarpe.
E ancora peggio, nel sottosuolo, più o meno alla cieca
e spalmati di grasso, schizzano a destra e a manca i topi, zig-zag;
castrato, un gatto di casa non può immaginarli. Sbadiglia.
E li sentiamo grattare contro le basi dei nostri corpi,
ce ne facciamo una ragione, di disgusto,
e non è che ci blocchiamo, terrorizzati
da ciò che l’uomo ha pianificato – pertugi, cappe e quant’altro...
Sono qui per farvi fare delle risate, mentre vi distogliete dalle tasche,
lasciate a disposizione le braccia, lasciate che i bimbi vostri godano
dello spettacolino, che ne approfittino – non lo vedi che c’è l’artista? –
dite loro, e loro non rispondono, e voi con le mani premete
sulle loro spalle. Non avete per amici la talpa e il coniglio,
che vi prendono un po’ per il culo, al massimo,
possedete autisti, colf preoccupate
per i polli da infornare,
per le superfici da ripassare con lo spolverino,
mentre recitano le preghiere per il Dio Battista,
Evangelista, Cattolico, Apostolico, Spiritista…
Dove stavo andando quando tutto è iniziato,
il pensiero delle gomme, il ruminìo…?
Stavo camminando, facendo l’arte e dell’arte
è rimasto il cartone dei Pringles
che rotola davanti a tutti. Il comico si sogna di salvarlo,
ancora tubolare, qualcuno prevede come e quando
verrà pestato… Eccovi i simili,
sono una scaglia della stessa origine eppure non vi cagate,
scusate se lo dico in questi termini,
scusatemi di qualsiasi disturbo…
Teneteli, tenete i colori vivaci del pittore di turno,
se le mie battute danno il magone,
se volete il filo e volete il segno,
tornate alle rime che imparavate a scuola,
lasciate stare i vortici, lo so io cosa sono i vortici
ma non voglio essere antipatico, dire quel che penso,
perché quel che penso è una costruzione che non ha fine
Preghiera d’assalto
Annerisci il suolo, assali case,
mura, portoni, sbandiera il gas,
fa’ che non resti uno stecco,
scortica, avanza senza senno…
Distorci i lineamenti
perché quel ghigno caschi dalle facce
e nutra la tua combustione.
Chi ha detenuto il potere sia arso
chi mai ha messo un arto sulla brace
venga ustionato.
E sarai maledetto,
non capiremo niente,
esploderà il commercio delle tute ignifughe.
Diranno è esagerato,
non è che un ridanciano mite
di un metro e sessantotto.
Si vogliono voltare,
come mi volto io, per sette volte;
scosse di adrenalina vogliono
pratiche a porte chiuse
arcani da portare dentro i loculi
e meriti attestati sulla carta
culle per corpi
saggiare cibi diversi ogni giorno
essere il fulcro degli altri…
Torchiaci,
senza pietà per l’imbecille
che abita dentro di noi;
staremo lì a fissarti
con la scusante di sempre.
Brucia lo spettatore, l’ascoltatore,
intossica i polmoni ai cinici…
Esàltati, sopra le acque allestisci
un circo senza trapezisti,
assenti gli animali, tutti estinti,
i comici ancorati nei fondali.
Affida la tua luce ai carburanti
per l’opera più nera.
Ma anche il fuoco si stanca,
anche il fuoco si stanca.
Si è messo a piovere,
accetta lo scroscio
che impasta le ceneri…
Nei pressi di una distesa
vedrai papaveri
sorti da poco e già chinati
e un esemplare umano
che li ricalca, e tiene il cavalletto
perché non cada. Ti estinguerai.
(Della prossima lunga poesia riporto la parte iniziale e quella finale)
Rondò al centro del sole
sono la personcina sopra il mulo
il mulo è sotto la persona mia
per la carreggiata il sole picchia
non si sa per chi piangere
vi sono solo le nuvole bianche bianche
e le rocce, le pietruzze che croccano
un nugolo di pulci, la zecca
e lo scorzone, il sole picchia
il mulo traina e pure se non vuole
meglio non trattenere la lacrima
sto grondando di sudore
tengo il mulo per la cinghia
il mulo e io camminiamo sgravati
in parte si comincia a ragionare
……….
ho sul petto una sindone sudata
poggio una mano sul fianco del mulo
lui ragiona, il mulo ragiona
sarà la penuria
girano in un senso e nell’altro i raggi
investono le rocce e le pietruzze
annientano le pulci, radono il suolo
i pensieri ficcati nel vuoto creatosi attorno
meglio non trattenere la
sono la personcina svaccata
un rivolo di san-
gue, niente di grave, non morrò
il mulo consiglia
so per chi piangere
e alzare il corpo da terra, riprendere la carreggiata
vi sono solo nuvole bianche, nuvole rosellina, strie opache
mi piace che crocchino le pietruzze
nota per nota ma senza re, calibro il passo
il cuore pizzica, ce l’ho
‘U vièntu nunn’è ùnu
‘U vièntu sciusciulìa e ‘a màccia s’arrimìna.
‘A prima zia s’assètta ‘n ciànu, e s’arripòsa ‘i iàmmi.
Vìvi, si stùia co’ faulàri ‘u mùssu. ‘A secùnna,
acciù va ghiènnu pìcca, stàpi a casa,
talìa televisioni; c’è chìssa, menumàli,
ca ci fa cumpagnìa. All’àutra vutàzza,
‘a porta ro barcùni sbarracàta –
capàci ca ‘a lassàu so niputièddu…
s’a sfùtti ìdda… – ‘n cuòrpu ri vièntu
‘a ciùsi: ‘u cori ci niscìu. L’àutra zia ‘ncòra,
siènnu ca nun pò sìri cciù, si misi fora a pipiàri
e ‘u vièntu disgrazziàtu – chi antipatia! –
s’a fuma tuttu ìddu ‘a sigaretta, nun c’è piacìri.
Oppùru ‘o filu ‘u vèspri, quànnu ‘n pizzùddu una s’abbìa,
ca sciùscia comu nu dannatu, sbàttunu ‘ddi finestri,
si porta ‘a testa, si porta… Ca cettu, nun è sempri ‘u stissu:
‘nto ‘nvièrnu fa allampàri, ‘nta stati una s’arrifrìsca.
Ddiu ci nni scànsa e lìbbera quannu si tira ‘i petri –
buttana ri ‘ddu pruvulàzzu – e va lassànnu ‘u schifu e pieri pieri…
‘A zia, chidda ca, chi avi r’ora ca già morsi, s’ancustiàva,
ca comu ci tinìa a’ pulizzìa, nun lu putìa sugghiàciri ‘u vintazzu.
Ora ‘stu vinticièddu, liègghiu, ‘nto misi quasi ‘i maiu,
parìssi ‘na minciàta, mi porta finu a dduòcu; vi viru ca arrirìti,
a una a una, e ‘u pièttu si scumpòni, s’arricrìa.
Il vento non è uno – Il vento soffia leggero e l’albero si scuote. / La prima zia si siede fuori, riposa le gambe. / Beve, pulisce col grembiule la bocca. La sec¬onda, / ormai va in giro poco, se ne sta a casa, / guarda la televisione; c’è quel¬la, menomale, / che le fa compagnia. L’altra volta, / la porta del balcone spal¬ancata – / può darsi l’ha lasciata il nipotino… / chi può saperlo… – un colpo di vento l’ha chiusa / e l’ha fatta trasalire. L’altra zia ancora, / visto che non si può più, si è messa fuori a fumare / e il vento maledetto – che antipatia! – / se la fuma tutta lui la sigaretta, non c’è piacere. / Oppure il pomeriggio, quando una si butta sul letto un po’, / che soffia come un dannato, sbattono le finestre, / fa venire il mal di testa, fa venire… E certo, non è sempre uguale: / in inverno fa soffrire, in estate ci rinfresca. / Che Dio ci possa salvare quan¬do [il vento] si tira le pietre – / maledetta polvere – e va lasciando lo schifo in giro… / La zia, quella che già da tempo è morta, si disperava, / lei ci teneva tanto alla pulizia, non riusciva a sopportarlo quel ventaccio. / Ora questa brezza, leggera, che siamo quasi a maggio, / sembra incredibile, mi porta fino a lì; vi vedo che ridete, / una per una, e il petto viene scosso, si ristora.

Roberto Minardi (Ragusa, 1977). Nel 1999 si è trasferito in Inghilterra, a Londra, dove risiede tuttora lavorando come insegnante di lingue. Dal 2005 al 2006 ha vissuto a Panama, dove ha tradotto poeti locali e pubblicato la sua prima plaquette in versione bilingue. Nel 2007 la Archilibri di Comiso (RG) ha pubblicato Note dallo sterno. Nel 2014 viene premiato con la pubblicazione della silloge Il bello del presente dalla casa editrice Tapirulan. Nel 2015 esce La città che c’entra (Zona Contemporanea), silloge che è stata segnalata all’edizione del 2016 del Premio “Montano”. A questa raccolta è liberamente ispirato il mediometraggio The city within, realizzato in collaborazione con il regista Tomaso Aramini. È autore egli stesso di alcuni video sperimentali. Oltre che in volume, suoi testi sono apparsi su riviste letterarie (“Tratti”, “Semicerchio”, “La Mosca di Milano”, “deSidera”), online (“Atti impuri”, “Poesia 2.0”, “Carteggi Letterari”, “Atelier”), su antologie di concorsi (Poesie al mondo, Tapirulan, Premio Anna Osti) e sull’archivio multimediale “Phonodia” dell’università Ca’ Foscari di Venezia. Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e turco. È stato co-fondatore del progetto poetico “dopotutto [d|t] (una poesia italiana fuori)”.